Categoria: Ascolto della Parola

  • NELLA NOTTE, LA VOCE DELLO SPOSO RISVEGLIA LA VITA – Mt 25,1-13

    Parrocchia di Fontane
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    NELLA NOTTE, LA VOCE DELLO SPOSO RISVEGLIA LA VITA – Mt 25,1-13
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    Vangelo

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    In ogni parabola siamo chiamati a cogliere il messaggio come l’evangelista Matteo che lo ha scritto, ce lo ha voluto trasmettere. La parabola vuole portarmi a riflettere su una realtà che è di Dio, non deve essere ridotta a puro insegnamento. Innanzitutto la parabola parte da una situazione concreta di vita in cui si trovavano le prime generazioni cristiane in mezzo alla persecuzione. Il ritardo della venuta finale di Gesù, era un vero e proprio trauma.

    La parabola è costruita ad arte, partendo dalle parole i Gesù, per descrivere questa prolungata attesa della venuta gloriosa del Signore Gesù: è Lui il Messia, “Lo Sposo che tarda”, e il vero problema è come comportarsi in questa attesa. Come vigilare? Il messaggio è rivolto ai discepoli, chiamati a vivere da testimoni dentro gli eventi della storia. Il pericolo è la paura che porta a non sentirsi sicuri neanche nella propria comunità credente. Bisogna guardare ai fatti difficili della storia come l’inizio dei dolori del parto, perché sta per cominciare un mondo nuovo.

    Il Regno è simile a dieci piccole luci nella notte, a queste coraggiose che si mettono per strada e osano sfidare il buio e il ritardo: hanno l’attesa nel cuore, perché aspettano qualcuno, uno sposo, un po’ d’amore dalla vita, lo splendore di un abbraccio in fondo alla notte. Ci credono. La parabola vuol mantenere viva la certezza del ritorno del Signore e suggerisce come comportarsi nel tempo dell’attesa.

    Una parabola difficile, anche perché si chiude con un esito duro (“non vi conosco”), piena di incongruenze che sembrano voler oscurare l’atmosfera gioiosa di questa festa nuziale. Tutti i protagonisti della parabola fanno brutta figura: lo sposo con il suo ritardo esagerato che mette in crisi tutte le ragazze; le cinque stolte che non hanno pensato ad un po’ d’olio di riserva; le sagge che si rifiutano di condividere; quello che chiude la porta della casa in festa, contro tutte le usanze, in quanto tutto il paese partecipava all’evento  delle nozze … Gesù usa tutte le incongruenze per provocare e rendere attento l’uditorio.

    La nostra parabola parte ritraendo le usanze matrimoniali palestinesi: il giorno precedente le nozze, al tramonto, il fidanzato si recava con gli amici a casa della fidanzata, che lo attendeva insieme ad alcune amiche.

    Il Regno è simile a dieci ragazze, armate solo di un po’ di luce, quasi niente, anche perché intorno è notte. Sono le damigelle d’onore della sposa. Gesù non spiega cosa sia l’olio delle lampade. Sappiamo che ha a che fare con la luce e con il fuoco. L’olio è qualcosa che deve essere acquistato a caro prezzo, con la fatica quotidiana e la laboriosità. La “donna forte” (Pr 31,18): “Non si spegne di notte la sua lampada”. Donna che si alza di buon mattino e va a dormire a sera tardi, pensa al bene del marito e dei figli e anche a quello dei poveri. L’olio conservato nella sua lampada è il concentrato di questa capacità sapienziale di gestire la vita.

    Per l’evangelista Matteo ci sono persone sagge e stolte. Le sagge costruiscono la loro casa sulla roccia, con solide fondamenta: saggio è chi fa la volontà del Padre (Mt 7,21).

    Vergini sagge sono le persone che riempiono le loro giornate di opere buone: fanno la volontà di Dio, amano come ama Dio, agiscono con la forza che Lui dona, comunicano vita agli altri. “Risplenda la vostra luce”… 

    Vergini stolte, sono quelle che hanno un vaso vuoto, una vita vuota. Mancano di olio, non sono luce. Non avevano preventivato “il ritardo dell’attesa”, un ritardo che si protrae oltre il solito. Pensano di trovare subito l’olio che manca, ma non è così facile. “Chiunque non mette in pratica le mie parole assomiglia ad un uomo stolto” (Mt 7,26). Per vivere, la comunità cristiana deve conservare con fatica la razione quotidiana di olio e non può permettersi di dimenticarla.

    Dateci del vostro olio … no…: risposta dura. Nel giudizio ognuno deve rispondere di sé. L’incontro con il Signore che tornerà, è sicuramente un incontro gioioso, ma richiede preparazione e costanza, equipaggiamento e intelligenza. E’ un richiamo alla responsabilità: un altro non può andare al mio posto, essere buono o onesto al posto mio, desiderare Dio per me. Se io non sono responsabile di me stesso, chi lo sarà per me? L’olio non può essere né prestato, né diviso. E’ impossibile avere in extremis l’olio necessario. L’incontro con il Signore va preparato prima. La furbizia di chi pensa di cavarsela all’ultimo momento non torna. 

    E’ inevitabile addormentarsi nell’attesa, come accade per tutte e dieci le vergini: quello che conta non è tanto cadere assopiti per la fatica, ma essere preparati all’incontro.“Ecco lo sposo! Andategli incontro!” E’ l’immagine più bella dell’esistenza umana. Quella voce nel buio della mezzanotte, ha la forza di risvegliare la vita. Quella voce, anche se tarda, di certo verrà;  ridesta la vita da tutti gli sconforti, consola dicendo che Dio non è stanco di noi, che disegna un mondo colmo di incontri e di luce. A noi basterà avere un cuore che ascolta, e ravvivarlo, come fosse una lampada,e uscire incontro a chi ci porta un abbraccio. Nel fondo della notte, uscire per lo splendore di un abbraccio

  • DIO REGALA VITA A CHI PRODUCE AMORE – Mt 5,1-12a

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    DIO REGALA VITA A CHI PRODUCE AMORE – Mt 5,1-12a
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    Vangelo

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    Le beatitudini sono il cuore del messaggio di Gesù, del Vangelo. Il messaggio è rivolto a tutti. Dio si prende cura della gioia dell’uomo. Dio regala vita a chi produce amore. Se uno si fa carico della felicità di qualcuno, il Padre si fa carico della sua felicità. C’è un Dio che si prende cura della nostra gioia, tracciandoci la strada.

    Le beatitudini sono innanzitutto una proclamazione messianica, un annuncio che il Regno di Dio è arrivato. Il tempo dei poveri, degli affamati, dei perseguitati, degli inutili annunciato dai profeti, con Gesù è arrivato. Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza; per Gesù sono al presente: oggi i poveri sono beati, perché in loro già adesso Dio è presente; così sono più liberi, più pieni di speranza per il futuro. Questa buona notizia, Gesù la manifesta con il suo comportamento, verso i piccoli, i poveri, gli ammalati, i diseredati, i discreditati di ogni specie, a cominciare dai peccatori. Gesù annuncia che il Regno di Dio è arrivato per tutti: di fronte all’amore di Dio non ci sono i vicini e i lontani, non ci sono emarginati: anzi coloro che noi abbiamo emarginato, sono i primi.

    Il modo di vivere di Gesù manifesta che già si sta realizzando il Regno di Dio, che è soprattutto salvezza per tutti gli uomini, a cominciare dai più infelici. Prima della proclamazione delle beatitudini, Matteo ci presenta in poche parole la vita di Gesù (4,23-24): lo circondavano ammalati di ogni genere, sofferenti, indemoniati, epilettici. Gesù ha cercato i poveri e li ha amati, preferiti. Sta qui il paradosso delle beatitudini: La vita di Gesù dimostra che i poveri sono beati, perché sono al centro del Regno, e perché sono essi, i poveri, i crocifissi, che costituiscono la storia della salvezza. Dio è dalla parte di chi piange, ma non dalla parte del dolore. Dio non ama il dolore, ma è con noi nel riflesso più profondo delle nostre lacrime, per moltiplicare il coraggio, per fasciare il cuore ferito, nella tempesta è al nostro fianco, forza della nostra forza.

    Quando vengono proclamate, le beatitudini sono affascinanti, ci sembrano possibili e persino belle, ma poi ci accorgiamo che per abitare la terra, questo modo aggressivo e duro che ci siamo scelti, è il manifesto più difficile e incredibile, stravolgente e contromano, che possiamo pensare. Le beatitudini accendono certo la nostalgia prepotente di un mondo fatto di bontà, di non violenza, di sincerità, di solidarietà. Disegnano un mondo tutto diverso di essere uomini, amici del genere umano e al tempo stesso amici di Dio; che amano il cielo e custodiscono la terra, sedotti dall’eterno, eppure innamorati di questo tempo difficile e confuso: questi sono i santi. Non persone che hanno compiuto azioni speciali, ma i poveri e tutti quelli che l’ingiustizia del mondo condanna alla sofferenza. 

    Il vangelo ci presenta nelle beatitudini la regola della santità. Si tratta di illuminare le vicende di tutti i giorni: fatiche, speranze, lacrime. Nell’elenco delle nove beatitudini ci siam tutti noi: poveri, piangenti, incompresi, quelli dagli occhi puri, che non contano niente agli occhi del mondo.

    Ci soffermiamo ora sulla prima e l’ultima delle beatitudini. Le prime tre beatitudini (poveri, afflitti, affamati) formano un blocco unitario e l’ultima beatitudine costituisce una unità nettamente distinta.

    Poveri in spirito: persone umili e modeste, dolci e pacifiche, pazienti nelle umiliazioni, ma anche vittime senza difesa di fronte agli oppressi e ai violenti, esposte ad ogni sorta di vessazioni e umiliazioni, impossibilitate ad ottenere giustizia. Queste persone sentono Dio come colui che ripara  torti, loro difensore e protettore. La loro speranza è solo in Dio che protegge il povero, è suo sostegno e rifugio. È soprattutto l’esperienza di coloro che si riconoscono peccatori. Persone incapaci di togliere se stessi dalla situazione miserabile in cui si trovano. Gesù annuncia che la sua missione è proprio quella di portare aiuto e fare uscire queste persone dalla loro miseria. (Significativi tutti gli incontri di Gesù con i peccatori, le parabole, i messaggi più significativi del Vangelo).

    Ai peccatori è riconosciuto un privilegio proprio a motivo della loro condizione peccatrice. Per Dio Padre e per Gesù, il peccatore è l’oggetto di una preoccupazione tutta particolare proprio a motivo del suo smarrimento e della miseria spirituale in cui si trova. Il privilegio dei peccatori sta nel fatto che Gesù è stato inviato in modo speciale a loro, in quanto consentono a Dio di manifestare la sua sollecitudine per gli uomini. Egli vuole che non si perdano definitivamente, e assicura loro la salvezza e la felicità del Regno di Dio. La situazione privilegiata dei peccatori sta nella compassione misericordiosa che Dio ha verso di loro. Il Regno che Gesù inaugura è soprattutto tempo di grazia e perdono, un tempo di misericordia a favore dei peccatori.

    Beati voi quando vi perseguiteranno… rallegratevi ed esultate. Si tratta dei discepoli di Gesù che avranno da soffrire per la loro fede in Cristo. Queste sofferenze procureranno loro una grande ricompensa nell’ultimo giorno. La felicità è legata alla fede dei discepoli, al loro soffrire per Cristo, una fede che dovrà essere capace di attraversare la prova della persecuzione, mantenendoli a qualunque costo, fedeli a Cristo.

    Le beatitudini, mentre annunciano l’avvento del Regno di Dio e il modo di comportarsi, invitano ognuno di noi a seguire uno stile di vita che permetta di aver parte ai benefici del Regno. Quali disposizioni spirituali, ad esempio, avere per riconoscerci poveri e poter così vivere la gioia di aver parte dei benefici del Regno?Le beatitudini compongono nove tratti del volto di Cristo e di ciascuno di noi. Tra queste nove parole proclamate e scritte per me, devo individuare e realizzare quella che ha la forza di farmi più persona, quella che contiene la mia missione nel mondo e la mia felicità. Su di essa sono chiamato a fare il mio percorso, a partire da me, ma non per me, per un mondo che ha bisogno di esempi raccontabili, di storie del bene che contrastino le storie del male, di cuori liberi e puri che si occupino della felicità di qualcuno. Dio si occuperà della mia: “Beati voi

  • UN CUORE CHE AMA DIO SI DILATA PER AMARE I FRATELLI – Mt 22,34-40

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    UN CUORE CHE AMA DIO SI DILATA PER AMARE I FRATELLI – Mt 22,34-40
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    Davanti a Gesù c’è uno dei suoi avversari, un fariseo, un dottore della Legge, un esperto: forse la sua domanda esprime una sua necessità di chiarezza. Tra i 613 comandamenti, ne esiste uno che sia il più grande? Per i rabbini d’Israele era il terzo, che ogni ebreo era tenuto ad osservare: quello che prescrive di santificare il sabato, perché anche Dio lo ha osservato (“il settimo giorno, si riposò”).

    Amerai: Gesù indica qualcosa che sta al centro dell’uomo: tu amerai. Lui sa che ognuno di noi ha bisogno di molto amore per vivere bene. Gesù offre il suo Vangelo come via per la pienezza e la felicità di questa vita. Gesù crede nell’amore, si fida dell’amore, fonda il mondo su di esso. Nell’amerai c’è un invito a guardare il futuro, ricordando che si tratta di un’azione mai conclusa. Non un obbligo, ma una necessità per vivere, come è il respirare. Il verbo al futuro racconta la nostra storia infinita. Noi cristiani siamo quelli che credono all’amore, come forza determinante della storia. È un progetto, anzi l’unico. E dentro c’è la pazienza di Dio. Un futuro che traccia strade e indica una speranza possibile.

    Ama con tutta la mente: l’amore rende intelligenti, fa capire prima, va più a fondo.

    Ama con tutto il cuore: non significa amare Dio solamente, ma amarlo senza  mezze misure, e vedrai che il tuo cuore invece di diminuire, cresce e si dilata in modo che tu possa amare il marito, la  moglie, il figlio, l’amico, il povero … Dio non è geloso del nostro amore, non ruba il cuore: lo moltiplica.

    Ama con tutte le forze: l’amore rende forti, capaci di affrontare qualsiasi ostacolo e fatica.

    Lo scriba aveva chiesto quale sia il più grande comandamento, Gesù rispondendo, elenca due inviti, ma dentro raccoglie tre oggetti d’amore e proietta il cuore in tre direzioni: ama il tuo Signore, ama il tuo prossimo, come ami te stesso. Il terzo comandamento  purtroppo è sempre dimenticato: “Ama te stesso”, perché sei come un prodigio, porti l’impronta della mano di Dio. Se non ami te stesso, non sarai capace di amare nessuno, saprai solo pretendere e possedere, fuggire o violare, senza gioia né gratitudine.

    Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze”, lo troviamo già nella grande preghiera che ogni israelita fa all’inizio della giornata (Dt.6,4-5); “Ama il prossimo tuo come te stesso”, lo troviamo in Lv 10,18. 

    Il primato dell’amore di Dio è affermato da Gesù  senza esitazione. L’amore per l’uomo viene per secondo. Per Gesù i due precetti uniscono il cielo alla terra, l’uomo a Dio, l’uomo all’uomo: l’amore “verticale” (amare Dio) e quello “orizzontale” (amare il prossimo), e non possono più essere separati. Il primato dell’amore di Dio si concretizza e si visibilizza nel riconoscimento del primato dell’uomo. L’amore per Dio è “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente”. L’amore per l’uomo è “come se stesso”. La totalità appartiene solo al Signore: Lui solo deve essere adorato. Ma l’appartenenza al Signore non può essere senza l’amore per l’uomo: c’è uno stretto legame. Non può esistere l’amore per Dio senza quella per il prossimo. Amare l’uomo è simile ad amare Dio: Il prossimo è simile a Dio: questa è la grande rivoluzione di Gesù: il prossimo ha volto e voce e cuore simili a Dio, è terra sacra davanti alla quale togliersi i calzari. Il secondo comandamento è simile al primo, anzi il criterio per sapere se sto osservando il primo è come sto vivendo l’amore al prossimo. Il grido del prossimo è da ascoltare come fosse Parola di Dio, il suo volto come una pagina del libro sacro.

    Ci sono due possibili rischi: nella generosa lotta per l’uomo, può nascondersi una dimenticanza del primato di Dio, che invece deve essere affermato con tutta chiarezza. L’uomo è fatto per Dio, ecco ciò che non va dimenticato, neppure là dove la povertà e l’ingiustizia sono grandi. L’altro rischio è di partire e parlare sempre e solo di Dio. Dio è per l’uomo. La novità cristiana sta nel mantenere unite le due affermazioni.

     Non dimentichiamo che per trascinare in alto tutta la nostra persona, come dice S. Agostino, dobbiamo immaginare l’uomo con due ali. Un’ala è “amerai il Signore con tutto il tuo cuore…”; l’altra ala è: “amerai il prossimo...”. Per volare ci vogliono tutte e due, ricordando quanto dice S. Giovanni: “Se non ami il fratello che vedi, non potrai amare Dio che non vedi” (Gv 4,20). 

    Da dove cominciare? Lasciamoci amare da Dio, che entra, dilata, allarga le pareti di questo piccolo vaso che siamo ciascuno di noi. Noi siamo degli amati che diventano amanti.

  • A CESARE LE COSE, A DIO LE PERSONE – Mt 22,15-21

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    A CESARE LE COSE, A DIO LE PERSONE – Mt 22,15-21
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    A Gerusalemme Gesù è coinvolto in una serie di dibattiti che chiamano in causa i gruppi più rappresentativi del giudaismo. Queste dispute su questioni teologiche o come la nostra, sulla politica e la terra, erano molto frequenti al tempo di Gesù. L’episodio pone due personaggi a confronto: Gesù e gli interroganti. Gesù è definito un maestro “veritiero” che insegna la via di Dio “secondo verità”, e che non “guarda in faccia nessuno”. Non è condizionato dal consenso della popolarità: dice ciò che è vero, comunque esso sia. Tutto il contrario la figura degli interroganti, maliziosi, capaci di fingere per trarre in inganno.

    La trappola è ben congegnata. E’ lecito o no pagare il tributo a Roma? Stai con gli invasori o con la gente? Si trattava della tassa da pagare a Cesare. Riguardava i cittadini adulti di Giudea, Samaria e Idumea che dal 6 d. C. dovevano pagare all’imperatore, come riconoscimento della sua sovranità. Il tributo non era opzionale, ma obbligatorio. Si versava con una moneta speciale che recava l’immagine di Cesare. L’iscrizione nella moneta diceva: al divino Cesare appartiene. Quell’immagine era un abominio per un credente, serviva come propaganda da parte di Roma, per promuovere il culto del sovrano. Gesù scinde di netto l’unità delle due parole: Cesare non è Dio. Altro è Cesare, altro è Dio. A Cesare le cose, a Dio le persone.

    Erodiani e farisei, pur essendo nemici giurati tra loro, in questo caso si accordano contro il giovane rabbì di cui temono le parole: vogliono stroncare la sua carriera. Sanno già che cosa Gesù pensa di se stesso e sanno anche che la folla lo considera “un profeta”, cioè un inviato di Dio. Essi però lo vogliono arrestare, ma debbono avere motivi validi per farlo. Studiano bene il loro piano (“tennero consiglio”). Sono decisi ad andare fino in fondo contro di lui: hanno deciso di farlo morire. Non cercano il dialogo, ma un motivo per accusarlo e ucciderlo. Con qualsiasi risposta, Gesù avrebbe rischiato la vita: o per la spada dei Romani, come istigatore alla rivolta, o per il pugnale degli Zeloti, come sostenitore degli occupanti. 

    Mostratemi la moneta del tributo”. Gesù non può sottrarsi dal rispondere. Vuol vedere insieme a coloro che lo interrogano,  la moneta del tributo. Così costringe a esporsi coloro che obbligavano Lui a farlo. Siamo a Gerusalemme, nell’area sacra del tempio, dove non doveva entrare nessuna effige umana, neppure quella impressa nelle monete. Per questo c’erano i cambiavalute all’ingresso. I farisei, i devoti, tengono con sé, nel luogo sacro del Signore, la moneta pagana proibita, il denaro dell’imperatore Tiberio, e così sono loro a mettersi contro la legge, e a confessare qual è in realtà il loro Dio: il loro idolo è mammona. La moneta l’avevano in tasca: questo implica che già pagavano le tasse, dunque la loro domanda è pretestuosa. I commedianti sono così smascherati. Il profilo dell’imperatore sulla moneta non era solo un semplice omaggio, ma indicava la proprietà. L’iscrizione sulla moneta diceva: “al divino Cesare”. Gesù vuol disinnescare questa sintesi pericolosa: Cesare non è Dio. 

    Date a Cesare quello che è di Cesare”. Gesù sostiene che le tasse devono essere pagate. Riconosce che ci sono i diritti dello Stato, e quando lo Stato rimane nel suo ambito, questi diritti si tramutano in doveri di coscienza. Gesù cambia il verbo “pagare” in “restituire”: come a dire: pagate tutte le imposte per  servizi che raggiungono tutti: istruzione, sanità, giustizia, lavoro, sicurezza, strade… Prima avete ricevuto, ora restituite.

    Rendete a Dio quello che è di Dio”. A Dio spetta la persona. “Di Dio è la terra e quanto contiene”: l’uomo è cosa di Dio: di Dio è la mia vita che “Lui ha fatto risplendere per mezzo del Vangelo”. Devo restituire niente di meno che me stesso: la mia vita, facendo brillare l’immagine coniata in me, progressivamente. Nulla di ciò che ho è mio, di nulla sono proprietario, se non del cuore. Sono figlio di un dono: da Dio ricevo il respiro, il volere e l’operare, il gioire e l’amare. Sono un talento d’oro nel giardino del mondo, che porta l’immagine di Dio, che sono chiamato a restituire solo a Dio. L’uomo e la donna sono dono che proviene da Dio. Siamo chiamati a restituirli a Lui, onorandoli, prendendocene cura come di un tesoro. Ogni uomo e ogni donna sono talenti d’oro che portano l’immagine e l’iscrizione di Dio.

    Gesù c’invita a restare liberi e a ribellarci ad ogni tentazione di essere venduti e posseduti. Gesù ci sollecita a dire al potere: non ti appartengo. Ad ogni essere umano dice: non appropriarti dell’uomo, non ti appartiene; non umiliarlo, non manipolarlo. Ogni creatura è prodigio grande che ha Dio creatore nel sangue e nel respiro.

  • AL BANCHETTO DEL RE NON PERSONE PERFETTE, MA IN CAMMINO – Mt 22,1-14

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    AL BANCHETTO DEL RE NON PERSONE PERFETTE, MA IN CAMMINO – Mt 22,1-14
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    Ecco la terza parabola pronunciata da Gesù nel tempio di Gerusalemme e indirizzata ai capi dei sacerdoti e alle guide religiose che avevano contestato la sua autorità nella predicazione e nell’operare il bene. La parabola è strettamente legata alla precedente, quella dei vignaioli malvagi:   si parla del rifiuto opposto al Signore della vigna o al Re che offre il banchetto. Quando Matteo scrive, Gerusalemme è stata distrutta dai Romani (70 d.C.). Qualcuno interpretava la catastrofe come una punizione inviata da Dio. La parabola però è indirizzata alla comunità cristiana, a tutti, chiamati personalmente al banchetto del Regno.

    Gesù l’avrebbe raccontata per spiegare come mai la sua predicazione veniva rifiutata dai praticanti e veniva invece accolta dai pubblicani e peccatori. Il popolo di Dio rifiuta il Messia e il suo Vangelo, mentre gli altri, i lontani, lo cercano e lo accolgono.

    C’è, nella città, una grande festa, si sposa il figlio del re, l’erede al trono, eppure nessuno sembra interessato.

    1. La sala della festa rimane vuota e triste, impietosa fotografia del fallimento del re: nessuno vuole il suo regalo, nessuno partecipa alla sua gioia. Nessuno sembra interessato. Sono presi dai loro affari, dalla liturgia del lavoro e del guadagno, dalle cose importanti da fare; non hanno tempo, per cose di poco conto: le persone, gli incontro, la festa. Hanno troppo da fare per vivere davvero: non sono felici, hanno perso la gioa del cuore dietro alle cose e agli affari.
    2. Le strade. Dio non può stare solo, vive per creare gioia condivisa, dice ai servi: “Andate per le strade, gli incroci, ai semafori, lungo le siepi...”. Volontà di Dio è che nessuno sia escluso. E’ bello questo Dio, che nel momento in cui è rifiutato, chiama tutti. Dai molti invitati, passa a tutti invitati: dalle persone importanti, agli ultimi della fila: fateli entrare tutti: cattivi e buoni. Addirittura prima i cattivi e poi i buoni, senza mezze misure, senza bilancino, senza quote da distribuire …Volontà di Dio è di raggiungere tutti, nessuno escluso. Noi non siamo chiamati, perché siamo buoni e ce lo meritiamo, ma perché diventiamo buoni, lasciandoci incantare da una proposta di vita bella, buona e felice da parte di Dio. Tutti incamminati, anche con il fiatone, anche claudicanti, ma in cammino. E’ così il paradiso: pieno di peccatori, di gente come noi. Lasciamoci incantare da questa proposta di vita bella, buona felice da parte di Dio. La strada diventa così per noi il simbolo della libertà delle scelte: possiamo percorrerla verso la festa o verso i campi e gli affari. La libertà è così qualcosa di immenso e drammatico, non solo per noi, ma anche per Dio. L’uomo è il rischio di Dio: Il Dio della sala vuota, delle chiese vuote e tristi, il Dio del pane e del vino che nessuno vuole …
    3. L’abito nuziale che un commensale non indossa ed è gettato fuori. (All’entrata nella sala, ciascun invitato riceveva in dono uno scialle da mettersi sulle spalle come segno di festa). Certamente questo dono era stato offerto, ma uno degli invitati lo aveva rifiutato. L’uomo senza veste nuziale non è peggiore degli altri, ma non ha creduto alla festa, non ha portato il suo contributo di bellezza alla liturgia delle nozze. Non pensava possibile che il re invitasse a palazzo straccioni e poveracci.  Non ha capito che si fa festa in cielo per ogni peccatore pentito, per ogni figlio che torna, per ogni mendicante di amore. Si è sbagliato su Dio. “Sbagliarsi su Dio è un dramma, è la cosa peggiore che possa capitarci, perché poi ci sbagliamo sul mondo, sulla storia, sull’uomo, su noi stessi. Sbagliamo la vita” (D.M: Turoldo). L’abito da indossare per non fallire la vita è Gesù. Chiamati a passare la vita a rivestirci di Cristo, a fare nostri i suoi gesti,le sue parole, il suo sguardo, le sue mani, i suoi sentimenti, a preferire coloro che Lui preferiva.  

    Innanzitutto siamo invitati a non pensare Dio lontano, separato; è dentro la sala della vita, in questa sala del mondo, è qui con noi, uno a cui sta a cuore la gioia degli uomini, e se ne prende cura; è qui nei giorni delle danze e in quelli delle lacrime, insediato al centro dell’esistenza, non ai margini di essa. La parabola ci aiuta a non sbagliarci su Dio. Noi pensiamo un Re che ci chiama a servirlo, invece è lui che ci serve. Lo temiamo come il Dio dei sacrifici, invece è il Dio cui sta a cuore la gioia; uno che ci impone di fare delle cose per lui e invece ci chiede di lasciargli fare cose grandi per noi. Ci invita non alla fatica della vigna, ma a nozze, ad una esperienza di pienezza, al piacere di vivere.

      Certamente la parabola ci sollecita: di fronte all’appello del Vangelo non è permesso di essere distratti né esitanti. Inoltre ricordiamo che il giudizio non riguarda solo i primi, ma anche i secondi, quelli che hanno accettato l’invito e possono illudersi di essere a posto. Il giudizio riguarda anche noi. L’essere entrati nella sala non è ancora garanzia. 

    Ripensiamo però soprattutto al giorno del nostro battesimo, quando ci è stato detto: “adesso rivestiti di Cristo”. Il nostro abito è Cristo! Sentiamo eccessive le esigenze di partecipare a questo banchetto? Crediamo veramente alla gioia di questo banchetto a cui siamo invitati? Le cose di Dio ci importano più delle nostre? L’invito alla convivialità è anche invito a passare dall’economia delle cose all’economia delle persone, a prenderci del tempo per l’incontro, per gli amici, per Dio, per la vita interiore.

  • PIÙ FORTE DEI TRADIMENTI, IL PROGETTO DI DIO È VINO DI FESTA – Mt 21,33-43

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    PIÙ FORTE DEI TRADIMENTI, IL PROGETTO DI DIO È VINO DI FESTA – Mt 21,33-43
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    La parabola inizia con un richiamo a Is 5,1b-2, dove la vigna del Signore è la casa d’Israele e il padrone è lo stesso Signore. Il racconto ci presenta l’intera storia d’Israele da cui traspare la continua fedeltà di Dio e la continua infedeltà del popolo: “che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna, che io non abbia fatto?”. È l’amore di un Dio appassionato, che fa per noi ciò che nessuno farebbe mai; un Dio contadino che dedica alla vigna più cuore e più cure che ad ogni altro campo. Dio ha per noi una passione che nessuna delusione può spegnere, che ricomincia dopo ogni nostro rifiuto ad assediare i nostri cuori, con nuovi profeti, con nuovi servitori, con il Figlio, e da ultimo con le pietre scartate. Sostiamo dentro questa esperienza: sentiamoci vigna amata, lasciamoci amare da Dio. Noi siamo come delle piccole viti, ma a noi, proprio a noi Dio non vuole rinunciare.

    La comunità di Matteo non può non sentirsi l’erede della vigna del Signore e non può non esaminarsi profondamente se davvero dà i frutti sperati, anche perché il Vendemmiatore viene ogni giorno, viene nelle persone che cercano pane, conforto, vangelo, giustizia, amore.

    Guardiamo innanzitutto Gesù:

    • È cosciente di chiudere definitivamente la serie degli inviati di Dio al suo popolo, di essere il Figlio inviato dal Padre.
    • Gesù è cosciente che non sarà accolto: sarà rifiutato, sarà gettato fuori della vigna (Gerusalemme), sarà scomunicato e ucciso. Dio aveva mandato il Figlio, pensando ad una accoglienza, invece, contro la volontà di Dio, sarà ucciso.
    • Gesù è cosciente che non rimarrà nella morte. Dio lo ha mandato per la vita sua e degli altri. Anche se gli uomini lo uccideranno, l’agire di Dio in Lui non finirà nella morte, lo farà risorgere e costruirà su di Lui un popolo nuovo. Dio ha mandato il Figlio, perché il mondo sia salvo per mezzo di Lui. La sua vita continua ora nella nuova comunità.  

    Guardiamo ora i contadini che non vogliono riconoscere il padrone come tale. Questo è il loro peccato. Si comportano come se la vigna appartenesse a loro. E quando uccidono il figlio lo dicono chiaro: vogliono farsi eredi e padroni. Ma rifiutando la signoria di Dio, rifiutano la pietra angolare, l’unica che tiene il mondo in piedi. Senza il riconoscimento di Dio, il mondo non sta in piedi, la convivenza si frantuma. La parabola è trasparente: la vigna è Israele, i vignaioli avidi sono le autorità religiose, che uccideranno Gesù come bestemmiatore. Questa ubriacatura per il potere e il denaro è l’origine di tutte le vendemmie di sangue della terra.

    Cosa farà il padrone? La risposta delle autorità è secondo logica giudiziaria: una vendetta esemplare, nuovi vignaioli, nuovi tributi. La loro idea di giustizia si fonda sull’eliminare chi sbaglia. Gesù non è d’accordo. Dio non spreca la sua eternità in vendette. Lui non parla di far morire, mai; il suo scopo è far fruttificare la vigna: sarà data a un popolo che produca frutti. La storia perenne dell’amore e del tradimento tra uomo e Dio non si conclude con un fallimento, ma con una vigna nuova. Il sogno di Dio non è il tributo finalmente pagato, non è la pena scontata, i conti in pareggio, ma una vigna che non maturi grappoli rossi di sangue e amari di lacrime. Dio sogna una storia che non sia guerra di possessi, battaglia di potere, ma sia vendemmia di generosità e di pace, grappoli di giustizia e onestà.

    I miei dubbi, i miei peccati, il mio campo sterile non bastano a interrompere la storia di Dio. Il suo progetto, che è un vino di festa per il mondo, è più forte dei miei tradimenti, e avanza nonostante tutte le forze contrarie: la vigna fiorirà. La visione di Gesù è positiva: la storia perenne dell’amore di Dio e del mio tradimento non si risolve in una sconfitta, il mio peccato non blocca il piano di Dio. L’esito della storia è buono, la vigna generosa di frutti. Questa è la novità del Vangelo: Il Regno è una casa nuova la cui pietra angolare è Cristo, una vigna nuova dove la vite vera è Cristo, dove il bene possibile e sperato vale più della sconfitta patita. Patto d’amore mirabile e terribile, perché il frutto che Dio attende è una storia che non generi più oppressi, sangue, ingiustizia e volti umiliati.

  • IL CAMMINO VERSO UN CUORE UNIFICATO – Mt 21,28-32

    Parrocchia di Fontane
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    IL CAMMINO VERSO UN CUORE UNIFICATO – Mt 21,28-32
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    Gesù rifiutato – chiesa rifiutata. Siamo allo scontro finale tra Gesù e i capi di Israele. Gesù ha terminato il suo viaggio verso Gerusalemme, la città santa in cui è entrato acclamato quale Messia, figlio di David, dai discepoli che lo accompagnavano e dalle folle; ha cacciato dal tempio quanti impedivano che fosse una casa di preghiera e ha simbolicamente seccato l’albero di fico che non dava frutti. La città è sconvolta e s’interroga su chi è Gesù: questo profeta proveniente da Nazaret. Gesù aveva compiuto un gesto profetico di purificazione del tempio e, annunciando la sua distruzione, aveva annunciato l’inizio di un tempio nuovo, senza bisogno di mercanti. Dopo aver passato la notte a Betania, Gesù ritorna al tempio. Queste sue azioni avevano causato soprattutto una profonda indignazione da parte delle autorità religiose legittime, ma perverse, “sacerdoti e anziani”, che intervengono pubblicamente chiedendo a Gesù con quale autorità compia questi gesti provocatori. Ma Gesù non risponde, anzi pone loro una domanda riguardo alla missione di Giovanni il Battista: missione voluta da Dio o missione che Giovanni aveva inventato per sé? Questo interrogativo non riceve risposta.

    Allora Gesù si rivolge ai rappresentanti del popolo che coinvolgono con le loro decisioni l’intero Israele. Gesù li oppone ai pubblici peccatori (pubblicani) e alle prostitute. Questi sono coloro che non osservano la legge, quelli che secondo la parabola dicono di “no”. Gli altri “voi” sono gli osservanti che hanno detto “sì” alla legge: si ritenevano l’Israele fedele.

    Con la parabola Gesù cerca di causare un ravvedimento in quei suoi avversari che dopo poco tempo saranno i suoi accusatori e i suoi condannatori. Però, anziché interrogarsi e convertirsi, sacerdoti e anziani si indignano ancora di più, comprendendo che la parabola parla proprio di loro, induriranno ancor più il loro cuore, accrescendo la loro opposizione e il loro odio verso Gesù.

    Sia Giovanni Battista che Gesù avevano invitato tutti a riconoscersi peccatori e ad aprirsi all’irrompere del Regno di Dio nella storia. Al centro della parabola, c’è la sorprendente affermazione: “Vi garantisco che i pubblicani e le prostitute entreranno prima di voi nel regno di Dio”. Qui le parole di Gesù si fanno dirette: coinvolgono i suoi interlocutori e noi stessi. È chiaro che Gesù non intende porre un principio, come se volesse affermare che tutti i peccatori, per il fatto stesso di esserlo, entreranno nel Regno e che, al contrario, nessun giusto può entrare. Più semplicemente, Gesù constata una situazione di fatto, che però continua a ripetersi anche oggi. Gesù ha incontrato uomini giusti e praticanti e lo hanno rifiutato, e ha incontrato uomini della strada e lo hanno accolto.

    “Un uomo aveva due figli”. E’ come dire : un uomo aveva due cuori. In quei due figli è rappresentato ciascuno di noi, con in sé un cuore diviso, un cuore che dice “sì” e uno che dice “no”, che dice e poi si contraddice: infatti “non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio “ (Rm 7,15.19). Il primo figlio dice “no”, è un ribelle; il secondo che dice “sì” e non fa, è un servile. Non si illude Gesù. Conosce bene come siamo fatti: non esiste un terzo figlio ideale, che vive la perfetta coerenza tra il dire e il fare. I due fratelli, pur così diversi, hanno qualcosa in comune: la stessa idea del padre come di un estraneo  che impartisce ordini; la stessa idea della vigna come di una cosa che non li riguarda.

    Qualcosa però viene a disarmare il rifiuto del figlio che ha detto no: “si pentì”. Pentirsi significa “cambiare mentalità, cambiare modo di vedere”, di vedere il padre e la vigna. Il padre non è più un padrone da obbedire o da ingannare, ma il capo famiglia che mi chiama in una vigna che è anche mia, per una vendemmia abbondante, per un vino di festa per tutta la casa. E la fatica diventa piena di speranza.

    Chi dei due figli ha fatto la volontà del Padre? Volontà del Padre non è mettere alla prova i due figli, misurare la loro obbedienza. La sua volontà è la fioritura piena della vigna che è la vita nel mondo; è una casa abitata da figli liberi e non da servi sottomessi.

    La parabola si conclude con una dura frase, che si rivolge a noi che a parole diciamo “sì”, ci diciamo credenti, ma siamo sterili di opere buone. Cristiani di facciata con poca sostanza. La conversione per tutti noi è più impegnativa che per coloro che consideriamo ribelli. Quelli che pubblicamente appaiono peccatori e sono da tutti ritenuti tali, sono preda della vergogna e sentono il desiderio di cambiare vita, sono aperti all’invito a convertirsi. Chi, pur peccando di nascosto, ma stimato dalla gente per ciò che appare all’esterno, spesso credendosi migliore degli altri, un esempio, anzi giudicando gli altri con rigidità, trova difficoltà ad avere un vero desiderio di cambiamento, pensa di non aver bisogno di alcuna conversione. Contemporaneamente è però una frase consolante, perché in Dio non c’è ombra di condanna, solo la promessa di una vita rinnovata per tutti. Dio ha fiducia sempre, in ogni uomo; ha fiducia nelle prostitute e ha fiducia in noi, nonostante i nostri errori e i nostri ritardi. Crede in noi, sempre! Allora possiamo cominciare la nostra conversione: Dio non è un dovere: è amore e libertà. È un sogno di grappoli saporosi per il futuro del mondo.

  • COLUI CHE CERCA, ANCHE SE SI È FATTO TARDI – Mt 20,1-16

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    COLUI CHE CERCA, ANCHE SE SI È FATTO TARDI – Mt 20,1-16
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    Continua il dialogo tra Gesù e i discepoli. Si sviluppa su temi scottanti come quello del matrimonio e della verginità (19,3-12); della presenza dei bambini nella comunità (19,13-15); per poi soffermarsi sul distacco dalle ricchezze (19,16-29), sul senso della chiamata. 

    Gesù è in movimento dalla Galilea alla Giudea e poi verso Gerusalemme: esprime così la sua decisione di giungere in fretta alla meta, al compimento della sua missione. Non mancano certo i problemi, le difficoltà, l’opposizione dei responsabili della religiosità ebraica. Gesù però ha l’opportunità di insegnare ai discepoli come si vive la fedeltà alla Parola.

    La parabola vuole spiegare il mistero del “Regno dei cieli”. La vigna rappresenta Israele: Essere chiamati a lavorare nella vigna, significa essere chiamati a far parte del popolo di Dio, segno della presenza del Regno di Dio sulla terra. La vigna è una delle immagini che Gesù ama di più, al punto che arriva a definire se stesso come vite e noi i tralci, per dire che il progetto di Dio per il mondo, sua vigna, è una vendemmia profumata, un vino di festa, una promessa di felicità. Il racconto ci è proposto in tre scene:

    1. A ore diverse, dall’alba fino al tardo pomeriggio, il padrone della vigna esce per ingaggiare lavoratori (1-7). Protagonista è un uomo, un padrone di casa, che agisce dal mattino alla sera, uscendo di casa per andare nella piazza a cercare lavoratori per la sua vigna, com’era abitudine a quei tempi. Li pagherà un denaro, secondo le tariffe del mercato dell’epoca. Esce più volte e a quelli che trova sulla piazza quasi alla fine del giorno chiede ragione del loro starsene senza far niente, ed essi rispondono. “siamo disoccupati”. Il padrone fa molte chiamate, non esclude nessuno, offre lavoro a tutte le ore: esce di casa ben cinque volte. Vuole lui stesso vedere in faccia chi lavora nella sua vigna e vuole stipulare lui stesso i contratti di lavoro.

    S’interessa soprattutto di quegli uomini, più ancora della sua vigna, seduti senza far niente: il lavoro è una dignità dell’uomo. Pensa Lui a questi ultimi, preoccupandosi del loro bisogno: non lavorare significa infatti non mangiare. Tutti quelli che erano sulla piazza del mercato sono stati chiamati, e alla sera non ci sono più disoccupati.

    2. Alla sera paga i lavoratori. Il padrone inizia dagli ultimi, e dà a tutti la stessa paga. La giustizia di Dio è completamente diversa dalla nostra. Ora l’attenzione si concentra sulla reazione dei primi di fronte all’agire del padrone nel modo di trattare gli ultimi, che ricevono il salario di un’intera giornata, pur avendo lavorato un’ora sola. Ai primi non va giù il comportamento del padrone e glielo dicono: tu non tieni conto che abbiamo più meriti di loro. Non è giusto dare la medesima paga a chi fatica molto e a chi lavora soltanto un’ora. Si lamentano perché sono convinti che lavorare nella vigna del Signore sia una fatica e basta, non una fortuna e una gioia. Non hanno capito nulla del Vangelo di Dio. L’uomo pensa secondo misura, Dio agisce secondo eccedenza. Meraviglioso questo volto di Dio, che trasgredisce tutte le leggi dell’economia: non un Dio che conta o sottrae, ma un Dio che aggiunge continuamente un di più. Le sue bilance non sono quantitative, ma guardano il nostro bisogno.

    Negli operai nasce la rabbia per essere stati trattatati come gli altri, e la loro attesa frustrata li spinge a mormorare. Ai loro occhi, questo non riconoscere i meriti, appare come un’ingiustizia.

    3. Il padrone dà ragione del suo agire (13-16).

    • Non ha mancato di giustizia: “Si era convenuto per un denaro”.
    • Non mi è lecito disporre come voglio dei miei beni?”. Una vita retta solo dalla giustizia umana non risolve tutto, e, soprattutto, non unisce le persone, ma le separa. Bisogna unire alla giustizia, l’amore e la generosità.
    • Non è forse cattivo il tuo occhio, perché io sono buono?”.

    La felicità viene da uno sguardo buono e amabile sulla vita e sulle persone. Se l’operaio dell’ultima ora lo sento come mio fratello o mio amico, allora sono felice con lui, con i suoi bambini, per la paga eccedente. Se invece mi ritengo operaio della prima ora e misuro le fatiche, se mi ritengo un cristiano esemplare, che ha dato a Dio tanti sacrifici, che conta le sue azioni per poter enumerare i suoi meriti e ora attendere la ricompensa adeguata, non comprenderò mai i pensieri di Dio, i suoi modi di agire, e non camminerò per le sue vie. Drammatico: si può essere credenti e non essere buoni! La parabola ci invita a non calcolare i nostri meriti, ma a contare sulla bontà di Dio. Mi invita a fare festa con il mio fratello: allora ci sentiremo entrambi più ricchi. Dio non si merita, si accoglie.

    La parabola ci invita a conquistare lo sguardo di Dio. Ognuno di noi è chiamato a interrogarsi.

    Quale vantaggio c’è allora, ad essere operai della prima ora?. Solo un supplemento di fatica? Il vantaggio è quello di aver dato di più alla vita, di aver fatto fruttificare di più la terra, di aver reso più bella la vigna del mondo.

    Al Signore che ci interroga : ti dispiace che io sia buono? Rispondiamo: No, Signore, non mi dispiace, perché sono io l’ultimo bracciante e tutto è dono. Non mi dispiace perché so che verrai a cercarmi ancora,  anche quando si sarà fatto tardi.

    Ma cosa vuol dire oggi per noi essere chiamati a lavorare nella vigna? Ascoltiamo Papa Francesco: “Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza, è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare, spero che ci muova la paura di chiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “voi stessi date loro da mangiare”.

  • L’UNICA MISURA DEL PERDONO È PERDONARE SENZA MISURA – Mt 18,21-25

    Parrocchia di Fontane
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    L’UNICA MISURA DEL PERDONO È PERDONARE SENZA MISURA – Mt 18,21-25
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    Sulla esigenza della correzione fraterna e del recupero del fratello che ha sbagliato, Pietro vuol vederci più chiaro, soprattutto nelle situazioni in cui si è offesi personalmente. Pietro interviene come responsabile della comunità credente, scelta da Cristo.

    Alla domanda di Pietro “Signore, quante volte dovrò perdonare a mio fratello se pecca contro di me?”, Gesù risponde che il perdono cristiano è senza limiti (“Settanta volte sette”), cioè sempre. L’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Ma perché farlo? Perché così fa Dio, perché il Regno è acquisire per me il cuore di Dio e poi metterlo nelle mie relazioni. Dobbiamo perdonare senza misura perché Dio ci ha fatto oggetto di un perdono senza misura. È dalla gratuità del dono di Dio che nasce il perdono. Il perdono fraterno è conseguenza del perdono di Dio, ne è la risposta. Per capire il perdono dobbiamo guardare in alto, ma dobbiamo anche guardare nella profondità dell’uomo: non c’è amicizia senza perdono, né famiglia, né fraternità, né pace: Il perdono è necessario per vivere e relazionarsi a tutti i livelli. Vivere il Vangelo, non è spostare un po’ più avanti i paletti della morale, del bene e del male, ma è la lieta notizia che l’amore di Dio non ha misura.

    Per imprimere bene nella mente questa volontà di perdono, Gesù narra una significativa parabola che si sviluppa in tre atti:

    1. Padrone – servo: viene descritto il comportamento insolito di un “re”- padrone potente che tratta i suoi sudditi come servi. Un giorno vuol vedere chiaro la situazione. Uno dei servi gli deve una cifra iperbolica equivalente a 35 chili d’oro: un debito insolvibile, un dato volutamente esagerato, una somma che nemmeno era in circolazione in tutta la Palestina. Il servo si getta a terra, lo supplica, gli promette l’impossibile. Il re diventa il modello della compassione. Sente come sua l’angoscia del servo. Il dolore vale più dell’oro. Al posto del re-padrone ora vediamo il volto  di Dio “ricco di grazia e misericordia”.

    Invitando a perdonare il fratello fino a sette volte,Pietro pensava di essere stato molto generoso in fatto di riconciliazione. La parabola sottolinea la sproporzione della misericordia di Dio, rispetto al limite che Pietro aveva proposto per il perdono. Gesù va oltre le quante volte… e ci narra la misericordia di Dio e l’esigenza che il perdono sia illimitato verso il fratello che pecca.

    2. Il perdonato non sa perdonare. In opposizione a questo cuore regale, ecco il cuore servile. Appena uscito, non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un’ora dopo. Appena uscito, ancora immerso in una gioia insperata, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia, appena fatta l’esperienza di un cuore regale, preso il suo compagno per il collo lo strangolava, gridando: ridammi il mio euro, lui perdonato di miliardi. Non si accorse nemmeno di essere stato supplicato con le stesse parole da lui usate quando supplicava il re. Il servo perdonato non agisce contro il diritto o la giustizia: vuole essere pagato. È giusto, e spietato. È onesto, e al tempo stesso cattivo. Quanto è facile essere giusti e spietati, onesti e cattivi. Giustizia e diritto non bastano a fare nuovo il mondo. Chi riceve misericordia, deve usare misericordia. Di fronte a tanta ingratitudine, dinanzi a un uomo dal cuore così duro, si può solo inorridire e ribellarsi. Gesù propone l’illogica pietà: non dovevi anche tu aver pietà di lui, come io ho avuto pietà di te? Questo per acquisire il cuore di Dio, immettere il suo divino disordine dentro l’equilibrio apparente del mondo.

    3. Giustizia ci vuole. Gli altri servi non chiedono vendetta: solo espongono i fatti al re e lasciano che sia lui a decidere. Giustizia umana è “dare a ciascuno il suo”. Ma ecco che su questa linea dell’equivalenza, dell’equilibrio tra dare e avere, dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell’eccedenza: perdonare settanta volte sette, amare i nemici, porgere l’altra guancia, dare senza misura.

    Non dovevi forse anche tu aver pietà di lui, così come io ho avuto pietà di te?” Non dovevi essere anche tu come me? Questo è il motivo del perdonare: fare ciò che Dio fa. Il contrasto tra i due quadri della parabola intende far vedere quanto sia degno di condanna il servo che non perdona dal momento che egli fu per primo perdonato. Il servo è condannato perché tiene il perdono per sé, e non permette che il perdono ricevuto diventi gioia e perdono per gli altri. L’errore del servo è quello di separare il rapporto con Dio dal rapporto con il prossimo. E invece è un rapporto unico: come fra Dio e l’uomo c’è un rapporto di gratuità, di amore discendente e accogliente, così deve essere fra l’uomo e i suoi fratelli.

    Non è il nostro perdonare che ci merita il perdono, ma è la misericordia ricevuta prima dal Padre, che ci impone, meglio ci affida la missione di portare e donare il perdono. Perdonare di cuore, nell’intimo: buttare giù le barriere che sono dentro di noi. Questa è la bella immagine della comunità cristiana. Ma quanto è difficile, domanda un atto di fede. Fede è dare fiducia all’altro, guardando non al passato, ma al futuro. Così Dio con noi: ci perdona non come Colui che dimentica il nostro passato, ma come Colui che ci sospinge oltre.

  • LA FATICA E LA GIOIA DI GUADAGNARE UN FRATELLO – Mt. 18,15-20

    Parrocchia di Fontane
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    LA FATICA E LA GIOIA DI GUADAGNARE UN FRATELLO – Mt. 18,15-20
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    Discorso comunitario di Gesù: il discorso ecclesiale

    Dopo il Discorso della Montagna (cc. 7-9), il Discorso apostolico (9,35-10,42), il Discorso parabolico (13,1-52), ecco ora il Discorso comunitario (18,1-35), il più semplice e il più armonioso.

    Nel nostro brano l’interesse è il “fratello che ha peccato”. Come la comunità è chiamata a recuperarlo? Una comunità che rispetta i piccoli e coloro che hanno peccato, costruendo così una vera vita di comunione fondata sulla preghiera che assicura la presenza del Signore. Siamo invitati anche noi oggi a scoprire come dobbiamo comportarci, se vogliamo essere veramente una comunità che segue il Signore.

    La faticosa vita ecclesiale è spesso segnata dal conflitto tra fratelli e sorelle, da rivalità e patologie di rapporti tra autorità e credenti. La misericordia è indicata come indispensabile. Gesù ci presenta il peccatore come il discepolo che si è allontanato (pecora smarrita: 18,12-14): la comunità deve cercare questi discepoli dispersi, a costo di lasciare le 99 che non hanno abbandonato il pastore. Due sono le cose da fare: la correzione fraterna e la preghiera di intercessione. Alla comunità è affidato questo compito che tutti devono vivere con responsabilità.

    Correzione fraterna. Nella chiesa c’era un problema: cosa fare verso il fratello che ha scandalizzato questi “piccoli” e che li ha disprezzati fino a causarne smarrimento: persona che ha leso la comunità? Se tuo fratello sbaglia, tu va; tu avvicinati, tu cammina verso di lui. Il perdono è la de-creazione del male, perché rattoppa incessantemente il tessuto continuamente lacerato delle nostre relazioni. Ma cosa mi autorizza a intervenire nella vita dell’altro? Solo questa parola: fratello. Solo se porti il peso e la gioia dell’altro, se ne conosci le lacrime, se ne sei fratello, sei autorizzato ad ammonire. Ciò che abilita al dialogo è la fraternità che tentiamo di vivere, non la verità che crediamo di possedere.

    Chi vive la triste esperienza di vedere un fratello o sorella sbagliare, non può tirarsi indietro, deve andare verso di lui, denunciando il male e correggendolo francamente,  soprattutto con pazienza e discrezione. Innanzitutto il male non deve mai essere pubblicizzato. Se uno solo sa chi è il colpevole, cerchi di risolvere da solo la questione: non rinfacciando il peccato, ma aiutando la persona ad esaminarlo in tutti i suoi aspetti, a intraprendere un personale e spontaneo cammino di conversione. Bisogna tentare tutto il possibile, perché chi si è smarrito, ritrovi la strada della vita.  S. Giacomo (5,20): “chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati”.

    Se ti ascolterà, avrai guadagnato un fratello”: “guadagnare” un uomo, “acquistare” un fratello, arricchirsi di persone. Il vero guadagno della nostra vita corrisponde alle relazioni buone che abbiamo costruito. Ogni persona vale quanto valgono i suoi amori e le sue amicizie. Una comunità si misura dalla qualità dei rapporti umani che si sono instaurati. Dio è un vento di comunione che ci sospinge gli uni verso gli altri. Senza l’altro, l’uomo non è uomo. Un celebre detto ebraico assicura: chi salva un solo uomo, salva il mondo intero.

    Nel caso che fallisce questo tentativo, perché il fratello che ha peccato non vuole essere corretto né tanto meno cambiare atteggiamento, occorrerà cercare una via ulteriore, magari ricorrendo alla parola autorevole di qualche altra persona. Nel caso fallisca anche questo tentativo, dev’essere informata l’intera comunità, non perché pronunzi un giudizio di condanna, ma per cercare di recuperare il fratello che ha peccato. Se ancora non ascolta, non resta altro che constatare con sofferenza che non appartiene più alla comunità. La comunità è chiamata a esercitare questo potere nella carità, nella volontà di recupero, nella preghiera.

    Sia per te come un pagano o esattore delle tasse”. Gesù invita a superare nella logica del perdono ogni espulsione, sulla base di una giustizia superiore. Pubblicani e gentili, diventano i piccoli che Gesù è venuto a cercare: quelli che più di tutti hanno bisogno di quella misericordia che Dio vuole. La Chiesa deve fare come Gesù, Maestro. La severità che sembra invitare a non parlare all’altra persona, è solo per creare una situazione che provochi il ravvedimento, inducendo il fratello a cambiar vita e a far ritorno alla comunità.

    Tutto quello che legherete sulla terra…” Il potere di sciogliere e legare non ha nulla di giuridico, consiste nel mandato fondamentale di tessere nel mondo strutture di riconciliazione: ciò che avrete riunito attorno a voi, le persone, gli affetti, le speranze, lo ritroverete unito nel cielo; e ciò che avrete liberato attorno a voi, di energie, di vita, di audacia e sorrisi, non sarà dimenticato, è storia santa. Ciò che scioglierete avrà libertà per sempre, ciò che legherete avrà comunione per sempre. Siamo chiamati a diventare una presenza trasfigurante anche nelle esperienze più squallide, più impure, più alterate dell’uomo

    Preghiera. Per pregare, bisogna volere la stessa cosa: come un’orchestra che, prima di suonare, accorda gli strumenti per l’esecuzione di una musica. Così i cristiani nella preghiera: “accordarsi” per ottenere.Preghiera che è innanzitutto esperienza del “Dio con noi”. Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro. È tra noi, ad una condizione: che siamo uniti fratelli nel suo nome, dove il giusto e il peccatore, il violento e l’inerme si tengono per mano. Non solo è presente nella preghiera, ma anche nell’uomo e nella donna che si amano, nella complicità festosa di due amici, in chi lotta per la giustizia, in  una madre abbracciata al suo bimbo, Dio è lì. Cristo è anima e vita di tutto ciò che esiste, presenza trasformante dell’io e del tu che diventano noi. Questa è l’esperienza della comunione nella vita della comunità, come spazio della presenza di Cristo. Già nell’A.T. troviamo: Se due siedono insieme per parlare della Torà, la shekinà (la presenza di Dio) è in mezzo a loro. In continuità, Gesù annuncia dove si può vivere questa presenza. Viviamo così la nostra preghiera: rivolti al Padre, uniti insieme con Gesù nella preghiera, viviamo nell’oggi la gioia della sua presenza.