Categoria: Ascolto della Parola

  • PRENDERE LA CROCE DI CRISTO E’ ABBRACCIARE IL GIOGO DELL’AMORE – Mt 16,21-27

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    PRENDERE LA CROCE DI CRISTO E’ ABBRACCIARE IL GIOGO DELL’AMORE – Mt 16,21-27
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    Il cammino di Cristo è il cammino della Chiesa

    Questa pagina del Vangelo ci scandalizza, e di fatto costituisce un ostacolo alla nostra fede.

       Il piccolo gruppo che ha scelto di stare con Gesù ha bisogno di essere formato. Certamente l’hanno appena riconosciuto come il Messia e sanno che la sequela comporta il distacco dalle tradizioni dei padri. Ma cosa vuol dire accogliere Gesù? All’inizio sono di scena Gesù e Pietro, mentre i discepoli sono in ascolto. Cosa significa per Gesù essere il Messia inviato da Dio? E cosa significa essere “la sua Chiesa”? I discepoli hanno bisogno che Gesù si riveli più apertamente in modo da sentirsi davvero “la sua Chiesa”. All’inizio non solo c’è incredulità nelle folle, ma anche negli stessi discepoli: si può infatti accettare che Gesù sia Messia, ma rifiutare che Egli debba soffrire. Anche noi, con l’aiuto del Padre, abbiamo bisogno di penetrare sempre più nel mistero di Cristo, accettando che sia Lui a rivelarsi, non costruendoci un nostro Gesù: dobbiamo essere “Chiesa” come vuole Lui. Immedesimiamoci ora nei discepoli che stanno seguendo Gesù. 

      Primo annuncio della passione-resurrezione. (16,21-23) Terminato il vagabondaggio libero e felice sulle strade della Palestina, lungo le sponde del lago, ecco che all’orizzonte si staglia Gerusalemme. Per la prima volta si profila la follia della croce, follia d’amore, amore fino a morirne. Dio sceglie di non assomigliare ai potenti, ma ai torturati e uccisi del mondo. Potere vero per Lui è amare, è servire, è la supremazia della tenerezza e i poteri del mondo saranno impotenti contro di essa: il terzo giorno risorgerò.

      Gesù già sapeva di essere in pericolo, quando ha cominciato a toccare le tradizioni del suo popolo e la legge del sabato, accusando i detentori del potere di essere guide cieche. Il rifiuto sarebbe stato fatale e la morte inevitabile. L’adattarsi alla concezione messianica corrente, avrebbe comportato la rinuncia a compiere fino in fondo la volontà del Padre. Gesù si prepara e tutto predispone, sapendo che questa fine “è necessaria”. Gesù prevede che la sua passione e morte avverrà in una delle feste di pellegrinaggio che portavano a Gerusalemme. Guai però a pensare che questo “doveva” annunciato da Gesù come volontà del Padre, esprima il desiderio del Padre che Gesù soffrisse e morisse per espiare i nostri peccati. Il destino di morte e sofferenza che Gesù annuncia non è frutto di un capriccio divino, ma di una volontà che se è misteriosa , è anche paterna, e che Gesù accoglie inaugurando un modo diverso di essere Messia. E’ una bestemmia immaginare Dio come un Padre perverso, cattivo!

      La necessità della morte di Gesù è perché, nel nostro mondo, colui che appare giusto viene odiato dagli altri, chi “ama fino alla fine” viene detestato; chi fa soltanto il bene, dicendo sempre la verità, dà fastidio e dunque “merita” di essere eliminato. Così Gesù decide di continuare senza tentennamenti la sua missione, andando a Gerusalemme, nella certezza che la sua fedeltà lo porterà alla morte.

      Gesù-Pietro. Pietro è un vero ostacolo nel cammino di Gesù alla fedeltà del Padre. Appare come emissario di Satana, tentatore. E’ difficile credere ad un Messia sofferente: Pietro reagisce con un rifiuto, che rivela la sua poca fede. Gesù,però, nel suo amore, vuole strappare Pietro dal potere di Satana, si prende cura di lui, facendogli riprendere il suo posto di discepolo “dietro di Lui”. Solo rimanendo dietro a Gesù può entrare nei pensieri di Dio e capire le parole di Gesù. Pietro si era messo davanti, diventando ostacolo e causa d’inciampo. Questo vale per tutti coloro che vogliono andare dietro a Gesù.  In questo momento però Gesù è solo nel compimento della sua missione.

      La sequela. I discepoli, già chiamati, sono messi di fronte ad una scelta definitiva, dopo aver preso coscienza delle condizioni che la chiamata impone. Ma perché seguirlo? Perché andare dietro a Lui e alle sue idee? Semplice: per essere felice. Le condizioni sono da vertigine:

    – La prima: rinneghi se stesso. Parole pericolose se capite male. Non vuol dire mortificarsi, buttar via i talenti. Gesù non vuole dei frustati al suo seguito, ma gente dalla vita realizzata. Rinnega te stesso vuol dire: non sei tu il centro dell’universo, il mondo non ruota attorno a te, impara a sconfinare oltre, Non mortificazione, ma liberazione.

    – Seconda condizione: prenda la sua croce e mi segua. Non è l’esortazione alla rassegnazione: soffri con pazienza, accetta, sopporta le inevitabili croci della vita. Gesù non dice: “sopporta”, dice “prendi”. Non è Dio che manda la croce. E’ il discepolo che la prende , attivamente. La croce nel Vangelo indica la follia dell’amore di Dio. Sostituiamo croce con amore: ed ecco: Se qualcuno vuol venire con me, prenda su di sé il giogo dell’amore, tutto l’amore di cui è capace e mi segua. La parola centrale del brano: Chi perderà la propria vita così, la troverà. L’accento non è sul perdere, ma sul trovare.

       Seguimi, cioè vivi una esistenza che assomigli alla mia, troverai la vita, realizzerai pienamente la tua esistenza. L’esito finale è trovare la vita. Quella cosa che tutti gli uomini cercano, in tutti gli angoli della terra, in tutti i giorni che è dato loro di gustare: la fioritura della vita: realizzare pienamente se stessi. Perdere per trovare. E’ la fisica dell’amore: se dai ti arricchisci, se trattieni ti impoverisci. Noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo donato. La sequela è vita donata e vissuta nella sofferenza, ma anche di sicura speranza. Si è se stessi quando si è aperti a Dio e ai fratelli con assoluta gratuità, senza giustificazioni di sorta. Bisogna guardare sempre avanti ed essere colmi di speranza, mentre ci si dona.

  • CRISTO MI CHIEDE: CHI SONO IO PER TE – Mt 16,13-20

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    CRISTO MI CHIEDE: CHI SONO IO PER TE – Mt 16,13-20
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    Come i discepoli, anche noi siamo in cammino per conoscere il mistero di Gesù. Ogni giorno siamo chiamati a decidere, ad accogliere Gesù come il Cristo, il Figlio del Dio vivente.

    A Cesarea, situata alle sorgenti del Giordano, in terra pagana, ai margini di Israele, città fondata trent’anni prima dal tetrarca Filippo, figlio di Erode il grande, città che porta in sé il nome dell’imperatore, lì dove Cesare era venerato come divino, Gesù pone alla sua comunità la domanda cruciale. Già da tempo egli fa vita comune con questi uomini, perciò desidera sapere cosa essi hanno compreso di lui. Chi regna veramente nella loro vita?

    “Secondo la gente chi è il Figlio dell’uomo?”. Gesù interroga i suoi, quasi per un sondaggio d’opinione. La risposta della gente è univoca, bella e sbagliata insieme: dicono che sei un profeta! Una creatura di fuoco e di luce, come Elia o il Battista. Agli occhi della gente è un profeta carismatico, un “uomo di Dio”. Gesù però non è un uomo del passato, fosse pure il più grande di tutti, che ritorna. 

    Ecco che Gesù non si sofferma su ciò che dice la gente, Lui sa che la verità non risiede nei sondaggi d’opinione.  “Ma voi, chi dite che io sia?”. Il discepolato nasce con la risposta personale a questa domanda. Non si crede per sentito dire. Voi amici, che ho scelto uno a uno, che cosa sono io per voi? 

    Chi sono io per te?. In questa domanda c’ è il cuore pulsante della fede. Gesù non cerca formule o parole, cerca relazioni: Quando mi hai incontrato? Che importanza ho nella tua vita? Gesù vuole sapere se Pietro è innamorato di Lui, se gli ha aperto il cuore. Cristo è vivo, solo se è vivo dentro di noi. Il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio. Nella vita non conta tanto ciò che dico di Cristo, ma ciò che vivo di Lui: il mio rapporto con Gesù, il mio Signore e il mio Dio, che cerco di amare come Lui mi ama. La vita è un continuo provare ad amare, e poi provarci ancora.

    Le domande di Gesù nel vangelo sono scintille che accendono qualcosa, mettono in moto trasformazioni e crescite. Nella vita, più che le risposte contano le domande, che ci obbligano a guardare avanti e ci fanno camminare. Solo se amiamo le domande, la risposta comincerà a sorgere in noi vera.

    Pietro, a nome di tutti i discepoli, afferma: Tu sei il Figlio di Dio. Lo spazio in cui è risuonato l’atto di fede non è quello della gente, ma quello dei discepoli. Per la comunità di Matteo è già iniziata la fine dei tempi, in Gesù Dio offre definitivamente la salvezza. Anche se è un Figlio dell’uomo rifiutato, emarginato, bestemmiato, destinato alla morte, Lui ha annunciato il Regno con pienezza di potere sulla legge e sul perdono. Per i discepoli il Figlio dell’uomo è Gesù stesso: Il Messia, l’atteso Figlio dell’uomo, non è soltanto un discendente di Davide, non è uno degli antichi profeti che ritorna tra il suo popolo. Il Cristo è il Figlio stesso di Dio. Dio Padre non ha mandato un semplice uomo come salvatore, ma suo Figlio. Attraverso Pietro è il Padre stesso che ha parlato.

    Questa fede è dono del Padre: La Chiesa è formata unicamente da coloro che hanno questa fede in Gesù. Però dire che Gesù è Figlio di Dio, è ancora qualcosa di incompleto. E’ la Croce che toglie ogni possibilità di errore. Per questo Gesù ordina di tacere. 

    “Tu sei Kefa e su questa kefa io costruirò la mia chiesa”. Tu sei Pietro, e su di te, come una pietra, io costruirò la mia chiesa. Pietro appare come un masso roccioso messo a fondamento e Gesù come il costruttore. La Chiesa appartiene a Cristo: “La mia chiesa”, che è come una casa costruita sulla roccia, anche se poggia apparentemente sulla fragilità degli uomini. Una stabilità sicura, ma tormentata, con sempre la presenza dei peccatori: per questo la comunità ha bisogno di “legare e sciogliere”: necessità del perdono.  Gesù sta costruendo la chiesa: è Lui la “pietra viva rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio”. Di questa costruzione Pietro è la prima pietra. Egli, per grazia, partecipa alla saldezza della roccia che è Cristo. 

    Certo Pietro con le sue debolezze sembra non essere roccia che offre garanzie, eppure la beatitudine di Gesù  lo costituisce roccia salda nella fede che ha confessato. Pietro è roccia per la Chiesa e per l’umanità nella misura in cui trasmette che Dio è amore, che la sua casa è per ogni uomo; che Cristo, crocifisso, è ora vivo. Forse saranno proprio la debolezza e la fragilità nella sua sequela di Gesù che permetteranno a Pietro, autorità suprema tra i Dodici, di essere esperto della misericordia del Signore. Pietro ha sperimentato la misericordia del Signore, ha conosciuto veramente il Signore e perciò può annunciarlo e testimoniarlo in modo credibile.

    “A te darò le chiavi del regno; ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli…”. Non solo Pietro, ma chiunque professi la sua fede in Gesù, Figlio di Dio, ottiene il potere di diventare una presenza trasfigurante anche nelle esperienze più squallide e alterate dell’uomo. Il cammino è dalla nostra povertà originaria verso una divina pienezza, per essere immagine e somiglianza di Dio, “figli di Dio”. Interiorizzare Dio e fare cose di Dio: questa è la salvezza. 

    Tutti possiamo  essere roccia che trasmette solidità, forza e coraggio a chi ha paura. Tutti siamo chiave che apre le porte belle di Dio, che può socchiudere le porte della vita in pienezza.

  • E DIO SI ARRESE ALLA FEDE INDOMITA DI UNA MADRE – Mt 15,21-28

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    E DIO SI ARRESE ALLA FEDE INDOMITA DI UNA MADRE – Mt 15,21-28
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    Il solco tra coloro che si riuniscono attorno a Cristo e coloro che lo rifiutano si approfondisce. Nasce così il nuovo popolo di Dio. Contemporaneamente si arriva allo scontro – rottura con coloro che si ritenevano gli interpreti ufficiali della Legge (scribi e farisei di Gerusalemme). Gesù, nel momento del pericolo, abbandona momentaneamente il territorio d’Israele, non la missione, per continuarla invece altrove: si rifugia nel territorio di Tiro e Sidone. Gesù, pur non uscendo da Israele, va verso i pagani. Rimane il suo impegno di essere venuto per “andare innanzitutto tra le pecore perdute del popolo d’Israele, chiamato a convertirsi e a portare l’annuncio del Vangelo a tutti.

    Ecco però che una donna cananea esce dai territori pagani per incontrarsi con Gesù, per invocarlo e chiedergli di guarire sua figlia. Il suo agire sollecita nei discepoli la nascita di un interrogativo che accompagnerà per diversi anni la vita della chiesa. A quali condizioni i pagani possono far parte del popolo che si raccoglie attorno a Gesù? La fede fa saltare ogni distinzione tra cristiani di origine ebraica e pagani che si fanno cristiani? L’evangelista invita a guardare Gesù, come modello di autentica conversione.

    Pochi personaggi del Vangelo sono simpatici come questa donna: è una madre, non prega per sé, ha immaginazione, non si arrende ai silenzi o al rifiuto, intuisce sotto il no di Gesù la sua impazienza, di dire di sì, per insegnare ai suoi discepoli. E’ una madre pagana, che non conosce Jahvè, che adora Baal e Astarte. Gesù, uomo degli incontri, ci viene presentato come trasformato dall’incontro con lei. Lui, che era venuto innanzitutto per Israele, ora è sollecitato a convertirsi, a cambiare mentalità: sconfina oltre Israele, il suo cuore si apre alla fame e al dolore di tutti i bambini, di tutte le madri: Lui è pastore di tutto il dolore del mondo, anche di coloro che non hanno fede, chiamato ad accogliere come figli i cagnolini di Tiro e Sidone, ad aprirsi ad una dimensione universale. Questa conversione deve essere vissuta soprattutto dai discepoli. La vera fede domanda di credere che per il cuore di Dio non ci sono figli e cani, che la sofferenza di un uomo conta di più della sua religione. Nel dialogo con la donna emerge con chiarezza il sogno di Dio. Come la donna, rompendo col passato, si dirige verso Gesù, verso il mondo della fede, così i discepoli  sono chiamati a convertirsi per rivelare il vero volto di Dio, che è più attento alla vita e al dolore dei suoi figli che non alla fede che professano.

    Donna, grande è la tua fede!”. Lei che non va al tempio, che prega un altro Dio, Per Gesù è donna di grande fede. Una fede messa alla prova. Tre ostacoli sono posti sulla strada della sua richiesta: barriere che però non scoraggiano la donna, ma fanno montare la sua fede, come una diga  fa crescere la potenza delle sue acque imbrigliate.

    • Gesù non le rivolse neppure una parola. Sembra ignorarla.
    • Poi: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele”.
    • Infine: “Non è bene prendere il pane dei figli per darlo ai cagnolini”.

    Il gioco delle domande e delle risposte tra Gesù e la donna verte sul posto che i pagani hanno nel disegno di Dio. I figli sono gli ebrei, i cagnolini sono i pagani. Una frase dà la volta al dialogo: non puoi fare delle briciole di miracolo per questi cani di pagani? La donna accoglie la priorità di Israele, ma ricorda che anche i pagani hanno l loro posto. Nel cuore di Dio non ci sono figli e cani.

    Partita con coraggio, prostrandosi davanti a Gesù, dice: “Signore aiutami”. In lei c’è la certezza che Gesù può salvarla e ha la volontà di strappargli il miracolo. Nel suo amore di mamma spera contro ogni speranza. Essa sa che anche i cagnolini fanno parte della famiglia e lo accetta. Si umilia e domanda di far parte della nuova famiglia di Gesù. Ha vinto! La sua fede è autentica, sincera, umile, è coraggiosa, ed è sostenuta da una perseverante speranza. Non si può chiedere di più. E’ più che degna di far parte del popolo di Dio.

    Quante volte anche noi abbiamo fatto l’esperienza amara di non sentirci esauditi da Dio! Dio sembra lontano, tacere …! Ma non sarà anche per noi, per purificare la nostra fede, per provocare un atto di maggior coraggio, una confidenza più piena e totale nel Dio che alla fine sa Lui meglio di noi quello che ci convenga? 

    Da questo dialogo fra stranieri prima brusco e poi rasserenante emerge un sogno: la terra vista come un’unica grande casa, una tavola ricca di pane, una corona di figli. Una casa dove non ci sono noi e gli altri, uomini e no, ma solo figli e fame da saziare. Dove ognuno, come Gesù, impara da ognuno. Sogno che abita Dio e ogni cuore buono.

    La fede è come un grembo che partorisce il miracolo: avvenga come tu desideri! E’ i sogno del mondo che dobbiamo fare nostro: La terra come una grande casa, una tavola ricca di pane, e intorno tanti figli:una casa dove nessuno è disprezzato, nessuno ha più fame.

    In quel giorno i discepoli capirono che basta la fede per diventare parte del nuovo popolo di Dio.

  • ASSUNZIONE DELLA B.V. MARIA – 2020

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    ASSUNZIONE DELLA B.V. MARIA – 2020
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    Una breve riflessione su: Ap 11,19-12,10; 1Cor 15-27; Lc 1,39-56.

    L’Assunzione di Maria al cielo in anima e corpo è l’icona del nostro futuro, anticipazione di un comune destino: annuncia che l’anima è santa, ma che il Creatore non spreca le sue meraviglie: anche il corpo è santo e avrà, trasfigurato, lo stesso destino dell’anima. Perché l’uomo è uno.

    Nel libro dell’Apocalisse, il segno della donna nel cielo, vestita di sole, evoca non solo Maria, ma anche l’intera umanità, la Chiesa di Dio, ciascuno di noi, anche me, piccolo cuore ancora vestito di ombre, ma affamato di sole. Contiene la nostra comune vocazione: assorbire luce, farsene custodi (vestita di sole), essere nella vita datori di vita (stava per partorire): vestiti di sole, portatori di vita, capaci di lottare contro il male (il drago rosso). Indossare la luce, trasmettere vita, non cedere al grande male.

    La festa dell’Assunta ci chiama ad aver fede nell’esito buono, positivo della storia: la terra è incinta di vita e non finirà fra le spire della violenza: il futuro è minacciato, ma la bellezza e la vitalità della Donna sono più forti della violenza di qualsiasi drago.

    Maria è la donna del viaggio compiuto in fretta, perché l’amore ha sempre fretta, non sopporta ritardi; va’, portata dal futuro che prende carne e calore in lei. Donna in viaggio, che è sempre figura di una ricerca interiore, di un cammino verso un mondo nuovo sulle tracce di Dio e sulle speranze del cuore. Donna continuamente in viaggio verso altri.

    L’Assunta è la festa della nostra comune migrazione verso la vita. Siamo umanità dolente, ma incamminata; umanità ferita, caduta, eppure incamminata; umanità che ben conosce il tradimento, ma che non si arrende, che ama con la intensità cielo e terra.

    Maria Assunta ci aiuti a camminare occupati dell’avvenire di cielo che è in noi come un germoglio di luce. Ad abitare la terra come lei, benedicendo le creature e facendo grande Dio. 

  • LA MANO TESA DI DIO QUANDO CREDIAMO DI AFFONDARE – Mt 14,22-33

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    LA MANO TESA DI DIO QUANDO CREDIAMO DI AFFONDARE – Mt 14,22-33
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    Gesù saluta i cinquemila appena sfamati, uno ad uno: fa fatica a lasciare la gente, non vuole andarsene finché non li ha salutati tutti, così come noi facciamo fatica a lasciare la casa di amici cari dopo una cena in cui abbiamo condiviso il pane e l’affetto. Era stato un giorno speciale, di fervore e solidarietà, un moltiplicarsi di mani, la fame dei poveri saziata, era il suo sogno realizzato. Gesù congeda la folla: è una separazione che non è rottura della comunione costruita mediante la condivisione del pane. È semplicemente un momentaneo e necessario distacco.

    Gesù sente il bisogno di rimanere solo, di vivere continui contatti con il Padre. Sta vivendo un momento difficile che fa presagire la rottura con il suo popolo. Per continuare nella missione ha bisogno di pregare, di rivedere, in dialogo con il Padre, le sue scelte di fondo per vivere sempre in conformità alla volontà del Padre. 

    Nel ritmo incalzante della sua giornata, Gesù ha sempre trovato il tempo per la preghiera, o al mattino presto o alla sera tardi. Nella preghiera si rivolge sempre a Dio, invocandolo col nome di Padre. La sua preghiera è del Figlio obbediente, del Servo del Signore. Consapevole di essere uomo, si confrontava col Padre e con la sua Parola per ritrovare costantemente nitidezza e il coraggio della propria via.

    Intanto i discepoli stanno vivendo una notte assai dura. Nell’essere costretti ad imbarcarsi, traspare la loro riottosità a lasciare la folla e soprattutto Gesù. Nel momento del pericolo si sentono abbandonati, lasciati soli a lottare contro le onde per una lunga notte. I discepoli stanno agendo come se Gesù fosse davvero assente. Pur in mezzo alle onde grosse e il vento forte non sono turbati: da buoni pescatori sono esperti del mare. La barca, simbolo della comunità e della vita, avanza per l’impegno dei rematori che non si arrendono, e si sostengono l’un l’altro. Dio non agisce al nostro posto, non devia le tempeste, ma ci sostiene dentro le burrasche della vita. Non ci evita i problemi, ci dà forza dentro essi.

    Appena vedono Gesù, i discepoli pensano che sia il suo fantasma, lo prendono come uno che viene dal mondo dei morti, non da un contatto con Dio. Lo spavento è enorme, urlano persino dalla paura.

    Gesù li invita a non temere, ad aver fiducia, c’è Lui: “Io sono” è il nome di Dio pronunciato sul Sinai. La parola di Gesù li calma.

    La sorpresa è quanto avviene tra Gesù e Pietro. Pietro sembra un bambino che chiede alla mamma di insegnargli a camminare. Il bambino cammina sempre guardando verso qualcuno. Così Pietro, verso Gesù. Ma quando fa caso al vento, entra la paura e affonda. Nasce allora la preghiera: “Signore salvami”. La mano di Gesù lo afferra e gli dice: “uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. È l’immagine della nostra vita di discepoli chiamati ad imparare a vivere nella fede e nella preghiera gli urti della storia, in un mondo tempestoso. In un mondo agitato, dobbiamo imparare a camminare nella storia, come bimbi, verso un incontro con il nostro Signore che è sempre “colui che viene”: viene per essere con noi nella barca.

    “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sull’acqua”. Pietro domanda due cose: una giusta e una sbagliata. Chiede di andare verso il Signore, richiesta bella, perfetta: andare verso Dio. Ma poi sbaglia chiedendo di andarci camminando sulle acque. A che cosa serve questa esibizione di potenza fine a se stessa, clamorosa ma sterile? Questo intervento divino non ha come scopo il bene delle persone. I miracoli non servono alla fede. Dio infatti non si impone mai, si propone. I miracoli si impongono e non convertono. La strada per l’incontro è il cammino verso il Calvario, la follia della croce, il cammino di colui che sa farsi prossimo.

    “Uomo di poca fede”, perché hai dubitato?”. Pietro è uomo di poca fede non perché dubita del miracolo, ma proprio in quanto lo cerca. Pietro si rivela uomo di poca fede non quando è travolto dalla paura delle onde, del vento e della notte, ma prima, quando chiede questo genere di segni per il suo cammino di fede. Quando Pietro guarda al Signore e alla sua parola: “Vieni”, può camminare sul mare. Quando guarda a se stesso, alle difficoltà, alle onde, si blocca nel dubbio.

    Così noi, se guardiamo al Signore e alla sua Parola, avanziamo anche nella tempesta; se guardiamo a noi stessi, ai nostri limiti, alle difficoltà, iniziamo la discesa nel buio. Rimaniamo paralizzati. Tuttavia nella paura nasce un grido: Signore salvami!

    Ringraziamo Pietro per questo suo intrecciare fede e dubbio: Pietro, dentro il miracolo, dubita: Signore affondo; dentro il dubitare, crede: Signore, salvami! Dubbio, fede, grido: un oscillare tra fede grande che sfida la tempesta, e fede piccola. Gesù ci raggiunge, non puntando il dito sui nostri dubbi, ma sostenendo la mano per afferrarci. Il grido di paura diventa abbraccio tra noi e  Dio. Ora sappiamo che qualsiasi nostro affondamento può essere redento da una invocazione e gridata nella notte, gridata nella tempesta come Pietro, dalla croce come il ladro morente.

  • IL PANE CONDIVISO TRA TUTTI DIVENTA PANE DI DIO – Mt 14,13-21

    Dopo la morte di Giovanni il Battista, Gesù si ritira, lontano dal territorio di Erode Antipa, in un luogo deserto. La fine del Battista diventa per Gesù, annuncio e presagio della sua morte. Come al tempo di Giovanni la “Parola” convocava la gente nel deserto, così ora è Gesù stesso che, recandosi nel deserto, convoca là, ai limiti di Israele, le folle. Egli se ne va da solo con i suoi discepoli, ma al suo giungere: “vide molta folla e ne sentì compassione”. Dalla compassione verso queste folle “stanche, sfiduciate, come pecore senza pastore”, la “Parola” (Gesù) si fa evento, guarigione: “guarì i loro ammalati”. Gesù è il buon pastore, che non si occupa di sé, ma di chi ha bisogno, raduna i dispersi, divenendo centro del nuovo popolo di Dio che si raccoglie nel deserto per iniziare un cammino nuovo, una vita più umana.

    Il ritirarsi e la compassione (13-14). Una sera, in riva al lago, cinquemila uomini con donne e bambini: l’amore per Gesù li ha condotti nel deserto. Scesa ormai la notte, non se ne vanno e restano lì con Gesù, prese da qualcosa che Lui solo ha e nessun altro sa dare. I discepoli, uomini pratici, dicono: congedali perché vadano a comprarsi da mangiare. Il maestro ribatte: date loro  voi stessi da mangiare. Due atteggiamenti opposti, riassunti in due verbi: comprare o dare. Comprare, dicono gli apostoli. Ed è la nostra mentalità: se vuoi qualcosa, lo devi pagare. È la logica dove trionfa l’eterna illusione dell’equilibrio del dare e dell’avere. In questo sistema chiuso, Gesù introduce il suo verbo: date voi stessi da mangiare. Non già: vendete, scambiate, prestate; ma semplicemente, radicalmente: date. E sul principio della necessità comincia a spuntare, a sovrapporsi un altro principio: la gratuità, l’amore senza calcoli, dare senza aspettarsi niente. Solo la gioia, forse.

    Il pane per Israele (15-21). L’idea guida del racconto è la condivisione. Il racconto ha il tono di una celebrazione di cui sono protagonisti Gesù e i discepoli insieme. I discepoli vengono educati al senso del “dono”. Il limite, che per i discepoli sembra invalicabile, da Gesù è affidato al Padre.  Pensano che ognuno debba arrangiarsi da solo. Se non le congeda Gesù, le folle non se ne andranno. Ma Gesù non le manda via, non ha mandato mai via nessuno. Intenerisce questo Gesù che non vuole allontanare da sé nessuno, che li vuole tutti intorno a sé anche a mangiare. E’ un Dio dal volto materno, che nutre e alimenta ogni vita. Quante volte lo si vede nel vangelo, intento a condividere il pasto con gli altri, e contento di questo. Così tanto amava mangiare con gli altri, che ha fatto di questo mangiare insieme, il simbolo di tutta la sua vita: “quando me ne andrò e non potrò più riunirvi e darvi il pane, spezzarlo e condividerlo insieme, voi potrete unirvi a me e mangiare me”.              

    Gesù chiede innanzitutto che gli sia portato il poco che hanno. I discepoli sono subito disponibili al volere di Gesù, pronti a dare quel poco. Lo offrono a Gesù, fidandosi, senza calcolare, senza attendere qualcosa per sé. È poco, ma è tutto, è la loro cena. Ora non c’è più bisogno che ognuno si aggiusti da sé: questo per Gesù è disumano, mentre quando c’è generosità e gratuità nel dono, allora c’è vera umanità, fratellanza, comunione.

    Gesù comanda che si mettano a mensa (farli sedere) sdraiarsi sull’erba. A questo punto il racconto assume un colore eucaristico. Gesù presiede la mensa. Gesù prega e ringrazia, moltiplica i pani, li spezza  e li consegna ai discepoli perché li distribuiscano. Lo stesso verbo “dare” vale per Gesù e i discepoli. È un dare insieme, come avviene in ogni celebrazione eucaristica, è un passarsi a vicenda il dono. È un’immagine della Chiesa: è Cristo che dona la Parola e la vita, ma tutto passa fra le mani degli uomini che lo rappresentano. Gesù “pronunziò la benedizione”: è questo l’atteggiamento più autentico dell’uomo di fronte a Dio, alle cose e ai fratelli. Benedire significa riconoscere che le cose sono un dono di Dio e, quindi, ringraziare: doni di Dio da gustare nella gioia. Ma anche da condividere, perché Dio li ha creati per tutti i suoi figli, non solo per alcuni. Quello che si compie si fa “dono gratuito”, un dono destinato a tutti che vengono coinvolti nella fratellanza, nella comunione. È un dono che costruisce comunione, che fa comunità. Dare non è perdita, ma guadagno. Quei pochi pani e pesci bastano per tutti, perché condivisi. Dio ferma la fame del mondo attraverso le nostre mani quando imparano a donare. La fame invece comincia quando io tengo il mio pane per me. Sfamare la terra è un miracolo possibile solo quando si vive la condivisione  Chi condivide, convoca Dio, lo provoca, mette il pane nelle sue mani, e allora basterà per tutti e se ne avanzerà. 

    L’Eucaristia celebra questa universale condivisione, il cui atto più alto e significativo fu vissuto da Cristo. Egli è qui e ora, il segreto e il contenuto, il ricordo e il futuro. Gesù ci invita alla sua mensa, per celebrare fraternamente il dono di Dio nell’ampiezza universale del dono. Tutti mangiano e ne rimane per tutti e per sempre. Gesù, il Dio con noi, supera così il limite dello spazio e del tempo, e rende possibile la sua presenza ogni volta che i cristiani spezzano il pane e vengono sanati dai loro mali.

  • GESÙ, NEL TESORO NASCOSTO,CI DA’ LA CERTEZZA DELLA FELICITÀ – Mt 13,44-51

    Gesù, con le immagini delle parabole ci vuole aiutare a comprendere in qual modo Dio può regnare in coloro che accolgono e aderiscono alla buona notizia del Vangelo che Lui ha portato.

    Ci vengono presentate 4 brevi parabole conclusive: tesoro nascosto, perla preziosa, pesca, scriba che tira fuori dal tesoro, cose nuove e cose vecchie. Ci aiutano a rispondere ad un interrogativo: se Dio è misericordia infinita, cosa ci resta da fare? Viviamo senza far nulla? Già tanto ci pensa Gesù! Le prime due parabole riguardano la decisione, le ultime due la responsabilità di portare avanti questa decisione durante la vita con coerenza.

    Il Regno di Dio è un bene così grande che chi si imbatte nell’annuncio del Regno che si è fatto vicino, chi ne capisce l’inestimabile valore, sente di dover fare qualsiasi sacrificio pur di possederlo. Un contadino e un mercante trovano tesori. Tesoro, parola rara, parola da innamorati, da avventure grandi, da favole. Oggi, parola di vangelo e nome di Dio.

    Accade, senza aver programmato ad un bracciante agricolo, uno che lavora a giornata in un campo non suo. Mentre arava o zappava si imbatte per caso in un tesoro mai sognato. Folgorato dalla scoperta: lo stupore, la meraviglia e poi la gioia furono immensi: aveva deciso: quel tesoro sarebbe stato suo.

    Accade anche ad un mercante, che possiede un emporio, con punti di vendita sparsi qua e là: uno che traffica preziosi, un intenditore appassionato e determinato, uno che è sempre in cerca di novità, uno che gira il mondo dietro un sogno.

    Le due modalità non sono in contraddizione: l’incontro con Dio è possibile a tutti trovarlo o essere trovati da Lui, sorpresi da una luce, come sulla via di Damasco, oppure da un Dio innamorato di normalità. Entrambe le parabole hanno come veri protagonisti gli oggetti, il tesoro e la perla, che si impadroniscono dei due uomini, li afferrano e causano le loro azioni. Il tesoro è ciò in cui uno fa consistere la felicità. Questo tesoro c’è in tutto il mondo (dove Dio semina), e c’è in ogni uomo che è il campo di dio, c’è nel cuore di ogni uomo.

    Tesoro e perla: nomi bellissimi che Gesù sceglie per dire la rivoluzione felice portata nella nuova vita del vangelo. La fede è una forza vitale che ti cambia la vita e la fa danzare. La gioia è il primo tesoro che il tesoro ti regala. Entrarvi è come entrare in un fiume di gioia. È il movente che fa camminare, correre, volare: mette fretta, per cui vendere tutti gli averi non porta con sé nessun sentore di rinuncia. Si vende tutto, per guadagnare tutto. Si lascia molto, ma per avere di più. Non si perde niente, lo si investe. L’accento della parabola non è sul fatto che trova il tesoro, è sul fatto che il campo non è ancora suo finché non investe tutto in quel campo. Investire tutto nell’amore e nella misericordia che diventano i principi della nostra vita.

    Dio vuole che il dono diventi nostra conquista. Noi talvolta agiamo come se la rinuncia fosse la condizione per una gioia successiva che Dio darà in base ai nostri sforzi. L’ordine è inverso. La gioia di un innamoramento di un “che bello” deve precedere le rinunce; altrimenti queste generano tristezza, disamore. È l’invito affettuoso del Padre ai suoi figli, il volto di un Dio attraente, il cui obiettivo non è essere finalmente obbedito o pregato da questi figli sempre ribelli che noi siamo, ma che adopera tutta la sua pedagogia per crescere dei figli felici.

    Un tesoro ci attende. E lo Spirito Santo è questo soffio divino che fa nascere i cercatori d’oro. Il tesoro non si compra, è un dono. L’uomo compra il campo. Il tesoro, la perla, i pesci sono nascosti. Sopra c’è la superficie, l’apparenza, uno strato che impedisce di vedere fino in fondo. Vi è una realtà più profonda, sommersa, un mondo che nemmeno si può immaginare che esista, finché non lo si scopre. Bisogna cercare sapientemente. E poi rinunciare a tutto il resto e vendere quanto si possiede.

    La parabola della rete mette l’accento sulla separazione nel momento del compimento finale: in quel giorno il male sarà totalmente eliminato, il popolo di Dio apparirà puro e senza macchia. Questa immagine ci spaventa e non vorremmo trovarla nelle parole di Gesù: facciamo fatica a pensarla come Vangelo, come buona notizia. Fondamentale è fin d’ora appartenere e vivere da figli del Regno.

    Accogliere la novità che è Gesù e che dà senso nuovo a tutta la vita: siamo in cammino verso l’incontro con Lui, il nostro vero Tesoro . Dobbiamo esercitarci a spogliarci di ciò che abbiamo fino alla morte, quando ci sarà chiesto di dire ‘amen’ allo spogliarci della nostra stessa vita.

    Chiediamoci: Dio è per me un tesoro o soltanto una fatica? E’ perla della mia vita o solo un dovere? Mi sento contadino fortunato, mercante ricco perché conosco il piacere di credere, il piacere di amare Dio: una festa del cuore, della mente, dell’anima. Dico grazie a Chi mi ha fatto inciampare in un tesoro, in molte perle, lungo molte strade, in molto giorni della mia vita. Tesoro e perla è Cristo per me? Lui che è presente in me e mi fa vivere da figlio di Dio.Vivo con coerenza il tesoro che ho scoperto? Aver seguito Cristo è stato l’affare migliore della mia vita? Mi sento contadino fortunato, mercante ricco? Tutto questo non è un vanto, ma una responsabilità. Discepolo è colui che ha capito queste cose.

  • UNA SPIGA DI GRANO VALE DI PIÙ DELL’INTERA ZIZZANIA – Mt 13, 24-43

    Il Regno che si è reso presente, ha un avvenire sicuro e positivo? Com’è la sua reale situazione nel mondo? Con queste tre parabole Gesù ci spiega come si sviluppa il Regno.

    Si parla di un seme buono: L’attenzione è però rivolta all’ostacolo: la zizzania. Riuscirà il nemico del padrone del campo a rovinargli il raccolto? La risposta è no! Il seme buono raggiungerà il suo scopo: l’oppositore non riuscirà a intralciare lo scopo del padrone del campo. Il seme buono è chiamato a crescere insieme alla zizzania (un’erba cattiva che poteva distinguersi dal grano solo al momento della spigatura). La quantità di zizzania presente, mette in evidenza la presenza di forze avverse, un nemico che ha fatto questo… Quando si accorgono, la reazione del padrone e dei servi è diversa. Il padrone vuol salvare tutto il grano, proprio tutto. Tutto è rinviato al futuro. Il giudizio non è per l’oggi, avverrà in quel giorno.

    Al tempo di Gesù c’era il movimento farisaico, che pretendeva essere il popolo santo, separato dalla moltitudine di peccatori. E c’erano gruppi di monaci, che si ritiravano nella solitudine del deserto a vivere in rigida santità, rifiutando tutti coloro che erano ritenuti impuri. E c’era la stessa predicazione di Giovanni Battista che annunciava il Messia come colui che avrebbe – finalmente – separato il grano dalla paglia. Gesù viene e sembra fare il contrario. Non si separa dai peccatori ma va con loro, non li abbandona ma li perdona. Tollera persino nella cerchia dei dodici un traditore e, comunque, si circonda di discepoli che sono pronti ad abbandonarlo. Comprendiamo, a questo punto, tutta la forza polemica della parabola. C’è un netto contrasto tra la politica di Dio – paziente e tollerante – e l’intolleranza e rigidezza di molti suoi servi.

    La parabola racconta due modi di guardare: i servi vedono soprattutto le erbacce, il negativo, il pericolo; il Padrone, invece, fissa il suo sguardo sul buon grano, la zizzania è secondaria. Dobbiamo conquistare lo sguardo positivo di Dio innanzitutto verso noi stessi: io non sono le mie debolezze, ma le mie maturazioni; io non sono creato a immagine del Nemico e della sua notte, ma a immagine del Creatore e del suo giorno. Nessun uomo coincide con il suo peccato o con le sue ombre. Ma se non vedo la luce in me, non la vedrò in nessuno. Davanti a Dio una spiga di buon grano conta di più di tutta la zizzania del campo. Il bene è più importante del male, il peso specifico del bene è superiore, il bene vale di più. E la spiga di domani, il bene possibile è più importante del male presente, del peccato di ieri. 

    Non preoccupiamoci prima di tutto della zizzania, dei difetti, delle debolezze, ma di coltivare una venerazione profonda per le forze di bontà, di generosità, di attenzione, di accoglienza, di libertà che Dio ci consegna. Facciamo che queste erompano in tutta la loro forza, in tutta la loro bellezza, in tutta la loro potenza e vedremo le tenebre scomparire.

    Questo è il messaggio della parabola: venera la vita che Dio ha posto in te, proteggila, porta avanti ciò che hai di positivo e la zizzania avrà sempre meno terreno: Tu pensa al buon grano, ama i tuoi germi di vita, custodisci ogni germoglio buono, sii indulgente con tutte le creature e anche con te stesso. E tutto il tuo essere fiorirà nella luce.

    Quale dei due sguardi è il nostro? Quello opaco e triste dei servi che vedono il mondo e le persone invasi dal male, che giudicano con durezza? Quello positivo e solare del Signore che intuisce, dovunque, spighe, pane e mietiture fiduciose, e che ha messo la sua forza nella mitezza? L’uomo violento che è in me dice: strappa tutto ciò che è immaturo, sbagliato, puerile, cattivo. Il Signore dice: abbi pazienza, non agire con violenza, perché il tuo spirito è capace di grandi motivazioni positive. Adottiamo lo stile di Dio, che per vincere la notte, accende ogni giorno il suo mattino, per far lievitare la massa immobile, immette un pizzico di lievito. Dobbiamo liberarci dai falsi esami di coscienza negativi, centrati sul male: non preoccupiamoci della zizzania, di difetti, delle debolezze. La nostra coscienza chiara, illuminata e sincera deve scoprire prima di tutto ciò che di vitale, bello buono, promettente, Dio ha seminato in noi: un amore grande, ideali forti, desideri positivi, bontà, generosità, coraggio. Dobbiamo amare noi stessi, venerare la parte luminosa del cuore: viene da Dio! Dobbiamo portare a maturazione il buon grano che Dio ha seminato in noi.  La morale del Vangelo cerca in me la fecondità del frutto buono, prima che l’assenza di difetti, la distruzione delle erbacce. Anche il giudizio finale avrà come argomento non la zizzania, ma il buon grano, la parte migliore di me: ho avuto fame… Agli occhi di Dio, il bene è più forte, più importante del male.

    Il granello di senape. Sproporzione tra il microscopico granello e la pianta di 4 metri: Gesù contempla la potenza racchiusa nella piccolezza del seme. Gesù è ottimista e vuole infondere in noi questo sguardo. È Lui il piccolo seme, che dopo essere stato per tre notti e tre giorni nel cuore della terra, germoglierà come un popolo colmo della potenza dello Spirito di Dio, capace di espandersi su tutta la terra. Un invito al suo piccolo gruppo ad aver fiducia e speranza.

    Il lievito. Si tratta di una donna che sta per allestire un banchetto (come Abramo, Gedeone, Anna, madre di Samuele). Viene messa in evidenza l’azione invisibile del Regno, capace di trasformare il mondo intero: finché tutto sia trasformato. Il Regno è una realtà invisibile, come tutto l’agire di Dio nella storia.I figli del Regno devono lavorare per trasformare il mondo: i cattivi, la zizzania devono diventare buon seme. Devono ricordarsi che nessuna comunità è pura, e che solo alla fine splenderanno.

  • LA GIOIA DI DIO SEMINATORE CHE AVVIA LA PRIMAVERA DEL MONDO (Mt 13,3b-23)

    Discorso parabolico (Mt 13)

    È il terzo discorso di Gesù. Il termine “parabolico” indica il genere letterario: servendosi di immagini e similitudini, Gesù ci parla del Regno dei cieli o di Dio. Ad esso ci si può avvicinare solo attraverso esempi concreti che fanno riflettere. Gesù ha deciso di presentare il regnare di Dio mediante immagini concrete, capaci di rimanere impresse nei suoi ascoltatori. Gesù invita ad aguzzare lo sguardo e ad allargare il cuore, per cogliere negli eventi quotidiani i segni della presenza di Dio, del suo agire.

    Una introduzione solenne ambienta la parabola sulla riva del mare di Galilea, luogo che rievoca la chiamata dei primi discepoli. Il mare sembra riflettere l’orizzontalità delle parole di Gesù e l’universalità dell’uditorio. Il mare è quell’elemento della creazione che è già stato educato all’ascolto delle parole di Gesù e ha assistito alla vittoria del Regno sui demoni, e ora sui discepoli e le folle che devono ascoltare. Gesù più che insegnare, racconta delle parabole, più che insegnare, annuncia. Gesù, mentre racconta sta seduto, è cioè in una posizione dialogante, che lascia le persone libere di avvicinarsi o di andarsene. La parabola non impone niente con forza, ma propone in modo velato la verità, mette l’ascoltatore di fronte alle proprie responsabilità e ne rispetta la libertà di scelta. Gesù parla in parabole perché queste sembrano essere in grado di superare gli ostacoli frapposti dall’uditorio e le difese di chi ascolta. Dio non cessa di parlare, nonostante l’incredulità degli ascoltatori.


    La parabola ci rivela Gesù, amante della vita, dei campi di grano, delle distese di spighe e di papaveri, di fiordalisi, di margherite, di viti. Gesù osserva un seminatore e nel suo gesto intuisce qualcosa di Dio. È un seminatore che percorre un campo arato a passi lenti, compiendo un gesto largo della mano. Sembra che il suo gesto sia eccessivo, esagerato, in quanto lancia il seme non solo nel buon terreno preparato per la semina, ma anche sulla strada, sui rovi, sull’asfalto.

    Gesù parla di un seme scelto, a cui è affidato un compito ben preciso: produrre altri semi. Tenendo conto dei piccoli appezzamenti di terreno presenti in Palestina, comprendiamo come qualche seme sarebbe andato perduto. Erano gli incerti del mestiere del seminatore. Gesù sta parlando come i profeti: la strada, le rocce, le spine sono esemplificazioni di alcuni ostacoli che il il seme può incontrare per raggiungere lo scopo per cui è stato seminato. Nonostante i vari problemi, il raccolto ci sarà e il successo supererà l’insuccesso. Dio parla di un frutto uguale al cento per uno, cosa inesistente, irrealistica, nessun chicco di frumento si moltiplica per cento. Un’iperbole che dice la speranza altissima di Dio in noi.

    Non è dunque un contadino maldestro nel lavoro; ma un contadino prodigo inguaribile, imprudente e fiducioso, che vede vita e futuro ovunque: anche la sterpaglia si può trasformare in giardino. La parabola racconta una fiducia: verrà il frutto, il piccolo seme avrà il sopravvento. Contro tutti  rovi e le spine, oltre i sassi e i passanti, c’è sempre una terra che accoglie  e fiorisce. E anche se la risposta per tante volte è negativa, alla fine spunterà un germoglio. Il Seminatore, uno dei nomi più belli di Dio. La sua gioia non è raccogliere, ma seminare. Per quanto noi siamo aridi, sterili, spenti, Dio continua a seminare in noi, senza sosta. Contro tutti i rovi e le spine, contro tutti i sassi e predatori, Lui vede in ciascuno, una terra capace di accogliere e di fiorire. Gesù ci presenta il volto di  un Dio contadino che diffonde a piene mani i suoi germi di vita, fecondatore instancabile delle nostre vite, ostinato nella fiducia, un Dio seminatore. 

    Il seminatore getta il seme, ma è il terreno che permette alla pianticella di crescere. Noi siamo chiamati a portare a maturazione i germi divini. Il primo errore lo compiamo quando siamo strada, persone che non si fermano mai. La Parola di Dio chiede un minuto di sosta: chi corre sempre, è derubato dalla fame di infinito che costituisce la nostra dignità. Il secondo errore, terreno sassoso, è il cuore poco profondo, che non medita, che si accontenta di sensazioni e non approfondisce. Il terzo errore, le spine, è l’ansia delle ricchezze, del benessere, del quotidiano. Spine che soffocano la fiducia e ci fanno credere che in noi non ci sia spazio per far germogliare un seme divino. Il centro della parabola non sono però gli errori dell’uomo, il protagonista è un Dio generoso, che non priva nessuno dei suoi doni. Per quanto io sia arido, spento, sterile, Dio continua a seminare in me senza sosta, vede una terra capace di accogliere e fiorire: vede vita e futuro ovunque.

    Siamo invitati a farci terra buona, terra madre, accogliente per il piccolo germoglio. Come una madre, che sa quanto tenace e desideroso sia il seme che porta in grembo, ma anche quanto fragile, vulnerabile e bisognoso di cure. Essere madri di ogni parola d’amore nel mondo. Accoglierla dentro di sé con tenerezza, custodirla, difenderla con energia, allevarla con sapienza.

    Ognuno di noi è un seminatore che cammina nel mondo gettando semi, spesso senza accorgercene.  Cosa vorremmo che producessero: tristezza o germogli di sorrisi? Paura, scoraggiamento, o forza di vivere? È grande questo Dio seminatore: ci invita a credere nella bontà e nella forza della Parola, più che nei risultati visibili, credere che Dio trasforma la terra e le sue persone anche quando non ne vedo i frutti. Ci chiama ad amare la sua promessa, la Parola, più ancora della realizzazione della promessa, i suoi esiti.

    La parabola da una parte è fortemente responsabilizzante: attraverso di noi, Dio vuole moltiplicare frutti di vita, tuttavia in noi si può interrompere il corso delle sue meraviglie, a volte anche per nostra distrazione. Dall’altra ci ricorda che questo seme viene sempre, dovunque e comunque gettato: Dio non si stanca di seminare anche sui sassi, dove a noi sembra sprecata la semina, perché Dio ha fiducia che anche un solo seme potrà dar frutto.  

    Per i discepoli, per tutti, sembra incombere la possibilità di non capire, di non interpretare correttamente le parole di Gesù. Vediamo Gesù Maestro paziente con i suoi discepoli: non li rimprovera, li accoglie anche nella loro poca fede e durezza di cuore. Così, con noi.

  • DIFFONDERE LA COMBATTIVA TENEREZZA DI DIO (Mt 11,25-30)

    Da Giovanni (Mt 11) si passa a Gesù, che appare come colui che porta a compimento la Legge e i Profeti. Giovanni l’aveva annunciato. Il modo di vivere di Gesù, spesso insieme con i peccatori, la maniera di osservare il digiuno e il sabato, i suoi gesti contrari alla Legge, avevano suscitato perplessità, anche per quanto riguardava il senso dei miracoli. La parola di Gesù stava dividendo gli uditori.

    Al termine del discorso missionario, non avviene la partenza dei discepoli, ma è Gesù stesso che parte: il vero inviato è Lui, che vive subito, in anticipo, le difficoltà che aveva annunciato avrebbero incontrato i discepoli. Gesù sta vivendo un periodo di insuccessi, di difficoltà: contestato dall’istituzione religiosa, rifiutato dalle città attorno al lago, in un momento di scoramento e di crisi per un fallimento nella missione, eppure fa sgorgare dal suo cuore un inno di lode gioiosa e convinta a Dio. Gesù ha come un sussulto di stupore, gli si apre uno squarcio inatteso, un capovolgimento: Padre, ho capito e ti rendo lode. Attorno a Gesù il posto sembrava vuoto, si erano allontanati i grandi, i sapienti, gli scribi, i sacerdoti, ed ecco il posto lo riempiono i piccoli: poveri, malati, vedove, bambini, i preferiti da Dio. Ti ringrazio, Padre, perché hai parlato a loro, e loro hanno capito. I piccoli sono le colonne segrete della storia. Dio sta al fianco dei piccoli, porta quel pane d’amore di cui ha bisogno ogni cuore stanco. 

    Ci troviamo con una delle più belle pagine del vangelo di Matteo:

    • un ringraziamento al Padre (25-26),
    • un soliloquio sul rapporto tra Padre e Figlio (27),
    • un invito a mettersi alla scuola di Gesù maestro (28-30).

    Gesù, rifiutato percepisce, malgrado tutto, la presenza del Padre che non cessa di rivelarsi e di continuare la sua opera di salvezza. Il risultato della predicazione del vangelo è folle! Aderiscono ad esso i poveri, gli ultimi, le vittime e gli scarti della società, quelli che non contano, mentre rigettano questo dono i saggi, gli intellettuali, i nobili, le élites di questo mondo, che non hanno compreso l’importanza di Cristo, della sua parola, dei suoi miracoli.

    Inoltre su questi piccoli era stato caricato un giogo, costruito dagli esseri umani, pieno di comandi e precetti, osservanze, intransigenze religiose, rigidità morali, insegnamenti non traducibili in vita. Gesù propone il suo giogo fatto di accoglienza, di amore, di misericordia: un giogo che certo non è senza fatiche, ma altro è faticare in quanto obbligati da precetti, altro è faticare per amore e ricevendo amore. 

    Mentre rimaniamo incantati di Gesù che si stupisce di Dio, di questa meraviglia che lo invade e lo rende felice, sentiamo che Gesù ci invita a fare un passo in avanti. “Venite a me, voi tutti stanchi ed oppressi, ed io vi darò ristoro”. Gesù è venuto per mostrare, per raccontare la rivoluzione della tenerezza di Dio. Gesù è il ristoro. Non un nuovo sistema di pensiero, non una morale migliore, ma il conforto di vivere. Ci invita ad imparare dal suo modo di amare. Gesù non viene con obblighi e divieti, ma col dono del regno, che è innanzitutto pace e gioia nello Spirito. Il maestro è il cuore. La legge di Gesù è l’amore: prendete su di voi l’amore, prendetevi cura, con tenerezza e serietà di voi stessi, degli altri, del creato, diffondete la tenerezza di Dio. L’amore non vieta mai ciò che all’uomo dà gioia e vita. E’ l’ossigeno. Dove la vita si è fermata, la attende, la impregna di sé e le ridona respiro.

    Questo “giogo” va accolto con gioia, confidando nell’amore di Dio che è sempre preveniente e mai va meritato. Il giogo di Gesù è imparare da Lui, diventare suoi discepoli, seguire lui “mite e umile di cuore”.

    C’è un cambio di prospettiva che ci viene richiesto: prima era il Padre a rivelare ai piccoli i misteri nascosti, ora è il Figlio che rivela il Padre a chi vuole. Il Padre si può conoscere solo attraverso il Figlio. Il Padre si rivela agli umili che seguono Gesù.

    Illuminati da queste esperienze, i nostri incontri devono diventare racconti di speranza e di libertà.