Categoria: Ascolto della Parola

  • DIO PADRE TIENE IL CONTO ANCHE DEI NOSTRI CAPELLI (Mt 10,26-33)

    Gesù invia i suoi discepoli “tra le pecore perdute della casa d’Israele”. Matteo riassume nel discorso apostolico sia il messaggio da annunciare, che l’azione da compiere e lo stile del comportamento. Il discepolo è chiamato a continuare la missione di Gesù, vivendo in intima relazione con Gesù, l’unico insostituibile Maestro della comunità. Il discepolo, colui che è stato chiamato a seguire Gesù, è totalmente coinvolto in un destino come quello di Gesù.

    I segni dell’annunciatore del Regno: curare gli ammalati, scacciare i demoni, risuscitare i morti, rivelare a tutti la misericordia e il perdono. Tutto questo superando indicibili difficoltà: chi rifiuta,     chi lo considera indemoniato, e con la prospettiva della morte. Viene così tracciato il programma di azione per ogni apostolo di ogni tempo.

    Dopo aver annunciato la missione, come segno di misericordia, Gesù invita a programmare così la missione: conoscere i destinatari del messaggio, il contenuto del messaggio e il modo di comportarsi nel mondo:

    • Gesù contempla un popolo sbandato e privo di guide sicure e pastori.
    • Mette in evidenza che il primo compito dell’apostolo è l’annuncio.
    • Dà le regole fondamentali di vita dell’inviato, dell’apostolo.
    • Presenta i rischi della missione: non sarà una marcia trionfale nel mondo. Ci saranno persecuzioni, contrasti materiali, bisogno di fuggire per salvarsi. Ci accorgiamo che anche oggi la vita cristiana richiede una coraggiosa scelta quotidiana di testimonianza.

    Il rapporto discepoli – Gesù. È necessario mantenere la relazione con il Maestro sino a lasciarsi coinvolgere totalmente nel suo destino di morte e di vita. I discepoli verranno perseguitati fino ad essere uccisi da chi crede in questo modo di dare gloria a Dio. Gesù assicura che nessuno riuscirà mai, neppure uccidendo i suoi inviati, a far tacere il messaggio del Vangelo. Non devono mai fermarsi nel portare l’annuncio. Se sono chiamati a fuggire, fuggano, ma per portare l’annuncio ad altri. Nel compiere la propria missione, non devono lasciarsi cogliere dalla paura. Per ben tre volte è ripetuto questo invito.

    Vengono indicate alcune forme in cui il coraggio deve concretamente manifestarsi: il coraggio nella persecuzione, il coraggio di parlar chiaro, il coraggio di non aver vergogna di Cristo di fronte agli uomini. E alle forme di coraggio si aggiungono i motivi che devono sostenerlo: la certezza di essere nelle mani del Padre e anche la certezza che gli uomini nulla possono fare per toglierci la vera vita. Nessuno può togliere loro la vita, cioè spezzare la loro relazione con Dio. È un coraggio – come si vede – che nasce dalla fede e dalla libertà: la condizione è di amare Cristo al di sopra di ogni altra cosa.

    Non abbiate paura: voi valete più di molti passeri. Di fronte a queste parole proviamo paura e commozione insieme: la paura di non capire un Dio che si perde dietro le più piccole creature: i passeri e i capelli del capo; la commozione di immagini che mi parlano dell’impensato di Dio, che fa per noi ciò che nessuno ha fatto, ciò che nessuno farà: ci conta i capelli in capo e ci prepara un nido nelle sue mani. Per dire che noi valiamo per Lui, che ha cura di noi, di ogni fibra del nostro corpo, di ogni cellula del cuore: innamorato di ogni nostro dettaglio. 

    Nemmeno un passero cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Neppure un passero, cadendo a terra, è abbandonato da Dio: non cade a terra perché Dio l’ha voluto (fatalismo tipicamente pagano), ma anche quando cade a terra non è abbandonato dal Padre! Allo stesso modo, anche i capelli della nostra testa, che perdiamo ogni giorno senza accorgercene, sono tutti contati, tutti sotto lo sguardo di Dio. Da una tale contemplazione nasce la fiducia che scaccia il timore: Dio vede come ci vede un padre, che ci guarda sempre con amore e non ci abbandona mai, neanche quando cadiamo.

    Molte cose, troppe accadono nel mondo contro il volere di Dio. Ogni odio, ogni guerra, ogni violenza accade contro la volontà del Padre, e tuttavia nulla avviene senza che Dio ne sia coinvolto, nessuno muore senza che Lui non ne patisca l’agonia, nessuno è rifiutato senza che non lo sia anche lui, nessuno è crocifisso senza che Cristo non sia ancora crocifisso. Dio si colloca tra disperazione e fiducia. Dio sta nel riflesso più profondo delle lacrime, per moltiplicare il coraggio. Non uccide gli uccisori dei corpi, dice che qualcosa vale più del corpo. Non placa le tempeste, dona energia per remare dentro qualsiasi tempesta. E noi proseguiamo nella vita per il miracolo di una speranza che non si arrende, di cuori che non disarmano.

    Quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo sulle terrazze, sul posto di lavoro, nella scuola, negli incontri di ogni giorno annunciate che Dio si prende cura di ognuno dei suoi figli, che nulla vi è autenticamente umano che non trovi eco nel cuore di Dio. Per essere rinnegatori di Gesù, è sufficiente credere al “così fa tutti”, al “così dicono tutti”, all’ignavia pigra di chi non vuole essere disturbato. La paura è la più grande minaccia alla fede cristiana: essa induce al dubbio e il dubbio al rinnegamento del Signore e del vangelo. Se invece nel cristiano c’è un’umile fiducia, c’è una forza invincibile!

    Voi valete! Per Dio, io valgo. E se una vita vale poco, niente comunque vale quanto una vita. L’immagine dei passeri e dei capelli contati, di queste creature fragili, ci porta ai più fragili tra i fratelli, agli anziani, agli ammalati, agli handicappati, a quanti non possono più lavorare e produrre, e si sentono inutili e impotenti. Proprio a loro Gesù dice: “Non temere: voi valete di più”. Anche se la vostra vita fosse leggera come quella di un passero o fragile come un capello, voi valete di più, perché esistete, siete amati da Dio che si intreccia con la vostra vita.

    Signore, abbiamo combinato poco nella nostra esistenza e adesso non riusciamo più a combinare niente. E lui risponde: “Voi valete di più, non perché producete, lavorate, avete successo, ma perché esistete, gratuitamente come i passeri, debolmente come i capelli, nelle mani di Dio. Dove voi finite, comincia Dio”.

    Bisogna allora preoccuparsi che non venga spezzato questo legame con il Padre, quella relazione vitale ed eterna che si ha con lui e che lui vuole mantenere per l’eternità. C’è Gesù che ci aspetta: bisogna mantenere la relazione con lui. Lui farà da avvocato, nostro difensore che presenterà tutto quello che abbiamo fatto. Il Padre e il Figlio vogliono la nostra salvezza. Questa è la nostra certezza nella fede, che vince tutte le paure.

  • NELLA FRAGILITÀ DI DIO IL SEGRETO DELLA VITA (Gv 6,51-58)

    Per i contemporanei di Gesù di Nazaret era normale considerarlo di origine puramente umana, non quindi “disceso dal cielo”. Così la prima comunità credente, chiamata a credere che il Padre non manda un Messia qualsiasi, ma il proprio Figlio. Forse anche oggi tante persone collocano Gesù tra i profeti o i liberatori falliti della storia. Nella situazione di incredulità e di rifiuto da cui è circondato, Gesù guarda al futuro e dice che, malgrado tutto, diventerà “Pane della vita”. Lo diventerà perché, pur essendo Figlio, si è fatto Figlio dell’uomo, si è fatto “carne”, un essere debole. Sarà pane per gli altri nella totale debolezza, quando si donerà per la vita del mondo.

    La mia carne per la vita del mondo. Costruendo la sua omelia eucaristica, Giovanni non pensa soltanto all’eucarestia sacramento, ma all’intera esistenza di Gesù e, nel contempo, al progetto di vita del discepolo. Gesù viene dal cielo, Gesù è colui che si offre per la vita del mondo. Sono questi due aspetti che definiscono Gesù nella sua persona e nella sua missione. Il testo ci parla della vita che Gesù è chiamato a percorrere per divenire, malgrado il rifiuto degli uomini, segno vero dell’amore del Padre, il quale vuole che il mondo si salvi per mezzo del Figlio. Per realizzare e aprire agli uomini la via della vita, Gesù deve donarsi in tutta la sua debolezza fino alla morte.

    Gesù ripete per otto volte: “Chi mangia la mia carne vivrà in eterno”. Gesù insiste sul perché mangiare la sua carne: per semplicemente vivere, per vivere davvero. Altro è vivere, altro è solo sopravvivere. Gesù possiede il segreto che cambia la direzione, il senso, il sapore della vita.

    La vita eterna non è una specie di “trattamento di fine rapporto”, di liquidazione che accumulo con il mio lavoro e di cui potrò godere alla fine dell’esistenza. La vita eterna è già iniziata: una vita diversa, profonda, giusta, che ha in sé la vita stessa di Gesù. Si è fatto uomo per questo, perché l’uomo si faccia come Dio. La nostra persona diventa il luogo della presenza di Dio, dove l’amore trova casa. Amare crea una dimora. E vale per Dio e per l’uomo. Gesù vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, che nel cuore metta radici il suo coraggio, perché ci incamminiamo a vivere l’esistenza umana come l‘ha vissuta lui. Noi mangiamo e beviamo la vita di Cristo, quando cerchiamo di assimilare il nocciolo vivo e appassionato della sua esistenza, quando ci prendiamo cura con combattiva tenerezza degli altri, del creato e anche di noi stessi. Facciamo nostro il segreto di Cristo, e allora troviamo il segreto della vita.

    Il mangiare carne umana è nell’A.T. segno di situazioni spaventevoli e della maledizione di Dio. Bere il sangue degli animali è ancor oggi severamente proibito tra gli Ebrei. Il sangue è vita, e la vita appartiene a Dio. Per questo, nei sacrifici, doveva essere sparso sull’altare del Signore, a cui appartiene la vita.

    Gesù parla di “masticare” la sua carne, di bere il suo sangue: è un vero annuncio di morte e resurrezione. Il sangue infatti non può essere bevuto se prima non è sparso, e la carne non può essere mangiata, se non viene ucciso. Gesù è però cosciente di “dare la sua cane per la vita del mondo”. Attraverso il suo sacrificio e la sua morte, diventerà per gli altri sorgente di vita. Il credente è chiamato ad accogliere come “donato”, Gesù. Dio vuole che quella vita donata di Gesù sia anche totalmente dell’uomo: “chi mangia me, vivrà per me”, cioè dimora in me, è in comunione con me e con il Padre, non può morire perché ha in sé la vita eterna, perciò vivrà in eterno. Per avere fin d’ora quella vita eterna, che sarà piena nella resurrezione, è necessario entrare in comunione con Gesù. Bisogna passare dall’ascolto, allo spezzare insieme il pane per accogliere totalmente Gesù “donato fino alla morte”, ma vivo.

    Prendete e mangiate! Parole che ci sorprendono: Gesù vuole stare nelle nostre mani come dono, nella nostra bocca come pane, nell’intimo nostro come sangue, respiro: vuole che tutta la sua vita, la sua vicenda umana diventi la nostra: il suo respiro, le sue mani di carpentiere, le sue lacrime, tutta la sua vita fino alla sua carne inchiodata, fino al sangue versato, diventa la nostra. Mangiare e bere Cristo, significa essere in comunione con il suo segreto di vivere: l’amore. Cristo possiede il segreto della vita che non muore. E vuole trasmetterlo.

    Qui è il miracolo, lo stupore: Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore e diventiamo una cosa sola, con la stessa vocazione: non andarcene da questo mondo senza essere diventati un pezzo di pane buono per qualcuno.

    Nell’accogliere quel pane, sentiamo che Gesù vuole soffiare via la pula della nostra vita perché appaia il chicco, togliere la crusca perché appaia la farina. Dio non ci domanda offerte, doni, sacrifici, ma offre, dona, perde se stesso dentro le sue creature, come lievito dentro il pane, come il pane dentro il corpo. Noi lo assorbiamo, diventiamo una cosa sola con Lui. Come si è incarnato nel grembo di Maria, così continuamente desidera incarnarsi in noi, ci fa tutti gravidi di Vangelo, incinti di luce.

    Ma la vita eterna ci interessa? Domanda il salmo responsoriale: “C’è qualcuno che desidera la vita?” C’è qualcuno che vuole lunghi giorni felici, per gustarla? (Salmo 3). Noi dovremmo essere cercatori di vita, affamati di vita, non rassegnati, non disertori. Mangiando Gesù, veniamo in possesso del segreto della vita che non muore e lo trasmettiamo agli altri.

    Allora, il dono di Gesù, annunciato nella sinagoga di Cafarnao, non fu accolto dai discepoli, che si tirarono indietro. Il pane che Gesù donava andava oltre quello che le folle cercavano, desiderando solo di saziare la loro fame fisica. Inoltre questa presenza di Dio e la ricchezza del suo dono erano nascoste sotto apparenze comuni e quotidiane (pane e vino). Infine la paura di fronte ad un progetto di vita che domanda di vivere come Gesù: un’esistenza per la salvezza di tutti.

    Oggi è la festa non tanto della contemplazione dell’Eucarestia, ma del “prendete e mangiate”.

    Che dono è quello che nessuno accoglie?

    Che regalo è se ti offro qualcosa e tu non lo gradisci e lo abbandoni in un angolo?

  • LA TRINITÀ SPECCHIO DEL NOSTRO CUORE PROFONDO – Gv 3,16-18

    Il dialogo tra Gesù e Nicodemo si conclude con l’annuncio della passione: “Il Figlio dell’uomo dev’essere innalzato”, come Mosè aveva innalzato il serpente nel deserto,  e l’invito alla fede: coloro che credendo guarderanno verso di Lui, avranno la vita eterna, cioè saranno salvati.

    Ora l’evangelista presenta la sua riflessione alla luce della Pasqua, contemplando Gesù innalzato in croce e nella gloria. Subito siamo invitati a contemplare l’amore di Dio che si fa dono, e si concretizza nel dare e mandare il proprio Figlio, l’Unigenito. (In due righe è sintetizzata la parabola dei vignaioli omicidi, che troviamo nei vangeli sinottici).

    L’amore di Dio Padre va oltre la persona del Figlio, per estendersi senza riserve, al mondo intero. Dio ama tutti, e li ama nella situazione concreta in cui si trovano, in particolare coloro che sono lontani, e corrono il pericolo di cadere sotto il giudizio della condanna. Dio affida al Figlio il compito di impedire che il mondo perisca, far sì che abbia la vita eterna, cioè salvarlo. Il Figlio, presentandosi come “luce”, illumina gli uomini, rivelando l’amore del Padre che vuole che ogni singola persona possegga la vita e divenga destinatario della salvezza. 

    Per raccontare la Trinità, Gesù sceglie nomi di famiglia, di affetto: Padre e Figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito è nome che dice respiro: ogni vita riprende a respirare quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata. Essendo noi fatti a immagine e somiglianza di Dio, il racconto è al tempo stesso racconto dell’uomo. Cuore di Dio e dell’uomo è la relazione ecco perché la solitudine ci pesa e ci fa paura, perché è contro la nostra natura. Ecco perché quando amiamo o troviamo amicizia stiamo così bene, perché siamo di nuovo immagine della Trinità.

    All’origine del disegno di salvezza c’è Dio Padre. Grazie a Gesù, il Padre si è fatto conoscere al mondo, ed è iniziata la comunicazione tra Dio e l’uomo. La Trinità: un dogma che può sembrare lontano e non toccare la vita. Invece è rivelazione del segreto di vivere, della sapienza sulla vita, sulla morte, sull’amore, e mi dice: in principio a tutto c’è il legame. Dio non è una definizione, ma una manifestazione da accogliere. Dio è estasi, un uscire-da-sé in cerca di oggetti da amare, in cerca di un popolo, anche se dalla testa dura, del quale farsi compagno di viaggio. Dio è un infinito movimento di amore.

    Nel vangelo il verbo amare si traduce con il verbo dare. Amare equivale a dare, il verbo delle mani che offrono: “Dio ha tanto amato il mondo da dare...”. Da sempre Dio non fa altro che considerare ogni uomo e donna più importanti di se stesso. Noi, creati a sua somigliante immagine, “abbiamo bisogno di molto amore per vivere bene” (Maritain).

    Dio ha amato il mondo… e non soltanto gli uomini, ma il mondo intero, terra e messi, piante e animali. E se Lui lo ha amato anche noi vogliamo amarlo, custodirlo e coltivarlo, con tutta la sua ricchezza e bellezza, e lavorare perché la vita fiorisca in tutte le sue forme, e racconti Dio come frammento della sua Parola. Il mondo è il grande giardino di Dio e noi siamo i suoi piccoli “giardinieri planetari”. 

    Davanti alla Trinità, ci sentiamo piccoli ma abbracciati, come i bambini: abbracciati dentro un vento in cui naviga l’intero creato e che ha nome amore.  Siamo in cammino verso un Padre che è la fonte della vita, verso un Figlio che ci innamora, verso uno Spirito che accende di comunione le mie solitudini: ci sentiamo piccoli, ma abbracciati dentro un vento in cui naviga l’intero creato e che ha nome comunione. Vivere la vita eterna è vivere una vita che possiede il carattere della “definitività”, una vita indistruttibile, la cui sorgente è in Dio. Chi la possiede, anche se materialmente muore, in realtà non perisce: continua a vivere la vita di Dio che è in lui.

    Alla fine dei tempi avrà luogo il giudizio finale: in base alla condotta degli uomini, il giudizio ultimo deciderà se raggiungeremo la vita o la perderemo definitivamente. Il comportamento da cui dipendono queste due alternative consiste nella risposta all’inviato di Dio. Solo credendo nel Figlio, si possiede la vera e definitiva vita, e già germinalmente siamo dei salvati, e perciò non possiamo cadere in un giudizio di condanna. Il messaggio di Gesù richiede però una risposta da parte dell’uomo. Chi non si decide a favore dell’amore di Dio, si condanna da solo. Chi non accoglie la sua luce rimane nelle tenebre. Chi ha avuto una vita gravemente difforme dalla vita umana di Gesù, e anzi in contraddizione con essa, non conoscendo l’amore, costui è già giudicato e condannato: non c’è per lui vita eterna. 

    La festa della Trinità di Dio, più che a speculazioni, dovrebbe indurci a fare esperienza della Trinità stessa. E la chiesa è il luogo in cui, per quanto possibile a noi umani, ci è dato di fare esperienza del cuore di Dio e del rapporto di comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Dio è amore, e noi abbiamo creduto (vissuto) all’amore che Dio ha per noi. 

     Possiamo domandarci:

    • Pensando di essere davanti al Signore, ci sentiamo giudicati?
    • Ripensiamo ai momenti in cui ci siamo sentiti amati dal Signore.
    • Qual è il desiderio più grande della santissima Trinità riguardo al nostro modo di vivere?
  • LO SPIRITO, VERO CUORE DEL MONDO – Gv 20,19-23

    Nella solennità di Pentecoste si leggono due racconti del dono dello Spirito Santo. Gli Atti degli Apostoli (2,1-11) ci raccontano la discesa dello Spirito santo sugli apostoli e Maria, la madre di Gesù, il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua. Il vangelo di Giovanni narra il dono dello Spirito ai discepoli la sera del giorno di Pasqua. Questa differenza è in realtà una sinfonia con la quale la chiesa testimonia lo stesso evento letto in modi diversi, ma non discordanti. 

    La Parola di Dio racconta in quattro modi diversi il venire dello Spirito Santo, per dirci che Lui, il respiro di Dio, non sopporta schemi:

    • Lo Spirito viene come presenza che consola, leggero e quieto come un respiro, come il battito del cuore (vangelo)
    • Lo Spirito viene come energia, coraggio, rombo di tuono che spalanca le porte e le parole (Atti).
    • Lo Spirito viene con doni diversi per ciascuno: bellezza e dignità per ogni cristiano (S. Paolo).
    • Del tuo Spirito, Signore; è piena la terra” (salmi): tutta la terra, niente e nessuno esclusi. Ed è piena, non solo sfiorata dal vento di Dio, ma colmata.

    I discepoli, pur credendo a Gesù, hanno paura di dire la loro fede. Le porte erano chiuse per paura dei Giudei…Quando agiamo seguendo le nostre paure, la vita si chiude. La paura è la paralisi della vita. I discepoli hanno paura anche di se stessi, di come, durante la passione, hanno rinnegato Gesù. Ora però sono di nuovo riuniti insieme. Gesù, salito al Padre, viene in mezzo ai suoi. Viene per essere presente. Viene in questa comunità dalle porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e si respira dolore, una comunità che si sta ammalando. Gesù prende contatto con le loro paure, i loro limiti. Innanzitutto rende visibile la realtà della sua presenza, diventando l’unico punto di riferimento per la comunità. D’ora in avanti i discepoli sapranno gioire, anche quando dovranno soffrire a causa della loro fede in Gesù.

    Il Signore è in mezzo a noi! La più grande tentazione vissuta da Israele nel deserto fu proprio quella di chiedersi: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”. Ecco la poca fede o la non fede di cui siamo preda anche noi che ci diciamo credenti. Gesù è in mezzo a noi sempre, non ci abbandona. Se mai siamo noi che lo abbandoniamo.

    L’Abbandonato ritorna e sceglie proprio coloro che lo avevano abbandonato, e li manda. Lui avvia processi di vita, non accuse, gestisce la fragilità e la fatica dei suoi con un metodo umanissimo: quello del primo passo nella direzione giusta. Come Gesù è inviato dal Padre, così ora Gesù manda i discepoli nel mondo. Sui discepoli l’impegno a “dare la vita” come Gesù, ad amare come egli ha amato sino alla fine. I segni della passione ricorderanno ai discepoli fin dove deve giungere il loro amore. In quel corpo di gloria restano le tracce del suo vissuto umano, della sua sofferenza-passione, dell’aver amato fino a dare la vita per gli altri.

    Per realizzare questa missione, devono essere resi uomini nuovi, ricreati dalla forza dello Spirito santo. Gesù, che l’aveva consegnato, donato sul Calvario (“rese lo spirito”), ora lo dona come Risorto. È il suo Spirito, il suo “soffio”. Come all’inizio della creazione, Dio soffiò il suo alito di vita, e fece il primo essere vivente, così Gesù soffiò sui discepoli e li rese soggetti capaci per una missione.

    Lo Spirito è il respiro di Dio. In quella stanza chiusa, senza respiro, ora si respira il respiro di Cristo, entra il respiro ampio e profondo di Dio, l’ossigeno del cielo, che rende capaci di amare e aprire e spalancare orizzonti. Gesù soffia su di loro il suo respiro, che non è più alito di uomo, ma Spirito Santo.  Il Respiro del Risorto diventa il respiro del cristiano: noi respiriamo lo Spirito Santo. Questo soffio che entra dentro di noi e si unisce al nostro soffio, ha come effetto il perdono dei peccati. Lo Spirito ci stringe a Dio in modo che non siamo più orfani: è un amore quotidiano e gratuito (non lo dobbiamo meritare). Ci è chiesto di non rifiutare il dono, perché il Padre dà sempre lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono. È il dono dell’amore, della gioia, che ci fa respirare in comunione con i fratelli. 

    Ciò che è accaduto a Gerusalemme, avviene sempre, avviene per ciascuno: siamo perennemente immersi in Dio come nell’aria che respiriamo. C’è una stretta relazione tra lo Spirito, la comunità dei discepoli, il perdono. Per riunire tutti gli uomini, gli apostoli ricevono il potere di rimettere tutti i peccati. Potere di discernere chi davvero si allontana da un mondo di peccato per aderire a Cristo, da chi non vuole aderire o di nuovo si allontana, dopo averlo accolto. Il perdono è affidato a tutti i credenti che hanno ricevuto lo Spirito. Perdono vuol dire: piantare attorno a noi oasi di riconciliazione, piccole oasi di pace in tutti i deserti della violenza, creare strade di avvicinamenti, riaccendere il calore, riannodare fiducia. Quando le oasi si saranno moltiplicate, conquisteranno il deserto. Il perdono dei peccati che ci viene donato, domanda che anche noi lo doniamo agli altri. 

    La Pentecoste è la festa di questa liberazione che La Pasqua ci ha donato, che ci raggiunge nella nostra vita quotidiana con le fatiche, le cadute, il male che ci imprigiona.

    • Le nostre chiusure, paure…
    • Il nostro rapporto con lo Spirito Santo…
    • Pentecoste: la potenza della resurrezione di Cristo raggiunge ogni credente…
  • UN DIO CHE SE NE VA, PER RESTARE ANCORA PIÙ VICINO – Mt 28,16-20

    16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. 17Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. 18E Gesù, avvicinatosi, disse loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. 19Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, 20insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

    Il brano è stato definito la “chiave interpretativa” di tutto il Vangelo di Matteo, nel quale Gesù Risorto non appare subito a tutti i discepoli, ma solo alle donne, che dovranno dire loro dove Gesù li vuole incontrare. Nel Vangelo di Matteo viene testimoniata un’unica e sola apparizione di Gesù risorto in Galilea, su una montagna, come ultimo e definitivo saluto ai suoi discepoli. L’esperienza si realizza nell’ascolto della Parola di Gesù. Prima della passione Gesù aveva detto: “Quando sarò risuscitato, vi precederò in Galilea”. Apparendo alle donne, Gesù le aveva invitate a ricordare ai discepoli questa Parola.

    Obbedienti, ci sono andati all’ultimo appuntamento sul monte in Galilea. Il monte è il luogo dove Gesù aveva subito l’ultima prova, dove si era manifestato trasfigurato ad alcuni dei suoi, come Figlio prediletto del Padre. Ora, ancora su un monte, parla di sé in quanto Figlio, unito al Padre dallo Spirito Santo, dicendo che il Padre gli ha dato ogni autorità e potere.

    Sono andati tutti, anche quelli che dubitavano ancora. Sono una comunità ferita, che ha conosciuto il tradimento, l’abbandono. Sono rimasti undici uomini impauriti e confusi, e un piccolo nucleo di donne tenaci e coraggiose. Avevano seguito Gesù per tre anni sulle strade di Palestina, non avevano capito molto, non lo avevano amato molto. È da questa poca fede che ora i discepoli devono ripartire per poter seguire il Maestro, perché tutti, compreso Pietro, sono sprofondati nel mare della loro povertà e hanno abbandonato il Signore. La poca fede è dentro tutti (dentro la chiesa), ma si prostrano in adorazione.

    Non sono chiamati apostoli, ma discepoli, perché devono ascoltare il grande Maestro, Gesù, in Galilea, dove erano stati chiamati. Lì devono ritornare perché la Galilea è la terra voluta da Dio come luogo dell’evangelizzazione: Galilea delle genti, dei pagani. In Galilea aveva avuto inizio la missione di Gesù, che aveva cominciato ad insegnare e a far miracoli, inaugurando la sua prima missione a Israele. Ora Gesù risorto, affida ai suoi discepoli l’inizio della nuova missione: sono inviati a fare discepoli e a battezzare tra tutti i popoli della terra.

     Gesù si avvicina. Di solito erano le persone che si avvicinavano a Gesù, per rivolgergli qualche domanda o per cercare una guarigione. Qui è Gesù che si avvicina ai discepoli, come nella trasfigurazione. Gesù compie un atto di enorme fiducia; si avvicina, non è ancora stanco di tenerezza. Si avvicina, si fa loro incontro, fino all’ultimo non molla i suoi. Il primo dovere di chi ama è di essere insieme con la persona amata. In Gesù, è Dio che si rende presente, si affianca ad ogni persona afflitta dall’ignoranza, dalla malattia, dalla sofferenza, dal peccato. Gesù proprio a queste persone fragili affida l’annuncio del Vangelo: ai dubitanti affida la bella notizia, la parola di felicità, li manda a portare vita ad ogni vita che langue. Devono raggiungere tutti gli uomini nello spazio e nel tempo, gioire delle diversità delle persone e immergerle nell’oceano dell’amore di Dio.

    La fede, nei vangeli, è sempre un faticoso riconoscimento che si realizza solo in una relazione di amore, carica di fiducia e di abbandono nel Signore. Il dubbio qui si riferisce non solo all’esperienza di Gesù risorto, ma soprattutto all’inizio di una vita nuova, di emarginazione dall’ebraismo ufficiale, con quel popolo cioè in cui erano cresciuti, per aprirsi ad una missione universale.

    Lo sguardo di tutti i discepoli ora è su Gesù, che ha ricevuto ogni potere in cielo e in terra, è il Signore di tutti. Gesù, dopo aver compiuto la sua missione di servo umile e sofferente, ora è costituito Signore e Messia. Gesù risorto, salito al Padre, non è andato in qualche luogo remoto del cosmo, non ha lasciato soli i discepoli, ma si è fatto più vicino di prima, è con loro nella proclamazione dell’annuncio del Regno in tutto il mondo. Se prima era con i discepoli, ora è dentro di loro. Sarà con loro, senza condizioni, anche quando dubiteranno, e non riusciranno a insegnare nulla a nessuno. Sarà con loro anche dentro le loro solitudini, gli abbandoni, le cadute, la morte. Nei giorni in cui crederanno e in quelli in cui dubiteranno. Nulla mai li separerà da questa presenza.

    Insegnando ad osservare: chiamati a insegnare a vivere i comandamenti, a mostrare come si vive il Vangelo, a trasmettere vita, valori, energia, strade per vivere in pienezza.

    L’accenno al battesimo, ci porta alla vita della chiesa apostolica, nella sua organizzazione per effondere i doni di Dio. Ogni persona è messa in rapporto con ciascuna delle tre Persone divine. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo: Dio uno e trino. Con Gesù è tutta la Trinità presente nella storia. Ora si apre un’”altra storia”, tutta ancora da scrivere, dove c’è una presenza di Gesù, l’Emmanuele, il Dio con noi: sarò con voi sino alla fine del tempo.     

     Fate discepoli tutti i popoli. Immergete ogni creatura dentro l’oceano dell’amore di Dio, fatela entrare nella vita di Dio, rendendola consapevole che in questo oceano siamo, ci muoviamo, respiriamo. La missione tende a conquistare gli uomini e a metterli, individualmente e comunitariamente, in relazione con Cristo.

    In questa festa dell’Ascensione, mentre contempliamo Gesù nella gloria, accogliamo l’invito dei due angeli a non fermarci a “guardare il cielo”, ma a vivere la missione che Gesù continuamente affida a ciascuno di noi. Questo ci pone alcuni importanti interrogativi:

    • Sappiamo vivere l’Ascolto della Parola, in modo che ci porti all’incontro con Cristo? I nostri momenti di preghiera ci fanno vivere questa esperienza?
    • Il nostro cammino nella fede. L’annuncio del Vangelo, vissuto dentro la fragilità della nostra vita.
    • Chi sono le persone (tutto il mondo)  a cui oggi siamo chiamati a portare l’annuncio del Vangelo?
    • Come realizzare il compito di insegnare quanto Gesù ha detto (catechesi)?
  • È L’AMORE CHE HA CAMBIATO E CAMBIA LA STORIA (Gv 14,15-21)

    Vangelo della Domenica VI di Pasqua

    15Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. 16Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, 17lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi. 18Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi. 19Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. 20In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi. 21Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

    Annunciando il suo ritorno al Padre, Gesù aveva richiesto ai discepoli, per vincere la tristezza, di credere in Dio e anche in lui. Per i discepoli, la partenza di Gesù, avrebbe coinciso con l’inizio del loro intenso impegno nell’annuncio del vangelo. Ma come realizzarlo senza Gesù? Questo li turba e li rattrista. Gesù cerca di far loro comprendere che la separazione non significa disunione, e offre loro un mezzo formidabile: la preghiera. Essa darà loro la capacità di continuare ad agire come Gesù, il Maestro. La preghiera vera porta a vivere in stretta unione con Gesù e il vero discepolo è colui che continua l’opera di Gesù per la salvezza di tutti gli uomini, una salvezza che si concretizza nell’amore sino alla fine. È l’amore che ha cambiato e cambia la storia.

    “Se mi amate”: tutto comincia da una parola carica di delicatezza e di rispetto. Gesù vuole entrare nel nostro cuore, nel luogo più importante e intimo , nel vero santuario della nostra vita. E lo fa con estrema delicatezza: “se”. Possiamo accogliere o rifiutare, in piena libertà. Quando amiamo, tutte le azioni si caricano di gioiosa forza, di calore nuovo, di intensità inattesa. Lavori con slancio, con facilità, come il fiorire di un fiore spontaneo. Ma, se lo amiamo, saremo trasformati in un’altra persona: diventeremo come Gesù.

    Per la prima volta, Gesù chiede esplicitamente di essere amato. Si fa mendicante di amore, rispettoso della nostra libertà, attendendo con speranza il nostro “sì”. Gesù cerca spazi nel nostro cuore, spazi di trasformazione: se lo amiamo, diventiamo come Lui.

    Osservate i miei comandamenti”. Amare Gesù è pericoloso. Se lo amiamo, lo prendiamo come misura del nostro vivere: diventiamo come lui. La nostra vita sarà trasformata: avrà il sapore della libertà, della pace, del perdono. Delle relazioni buone, della bellezza del vivere.

    “Miei” comandamenti. I suoi comandamenti riassumono tutta la vita di Gesù, condensata in un unico comandamento: “amatevi come io vi ho amato”. Non dobbiamo tanto preoccuparci di amare Dio, ma di amare gli altri come ama Dio. Il riferimento è alla persona di Gesù e alla parola che Lui ci ha lasciato, che esprime la sua volontà. Amiamo Dio se siamo disponibili a far sì che la nostra vita sia conforme a ciò che vuole Dio. Il suo amore che ci raggiunge deve diffondersi, espandersi come amore per gli altri; e tutto questo lo viviamo nella gioia di vivere dell’amore di Dio padre, come Gesù.

    “Non vi lascerò orfani”. Non lo siamo ora e non lo saremo mai: Gesù non ci abbandona e non si separa da noi. Questa presenza di Gesù non è da conquistare o da raggiungere, non è lontana. Ci è donata e non verrà mai meno. Noi siamo già in Dio, come un bimbo nel grembo di sua madre. Il bimbo non può vederla, ma ha mille segni della sua presenza, che lo avvolge, lo scalda, lo nutre, lo culla. L’amore vero è la passione di rimanere uniti alla persona amata.

    Non dimentichiamo che è Dio che per primo cerca casa in noi; a noi spetta di lasciarci amare: e questo è facile e bello. Da lì nasce la passione di fare ciò che fa Dio (comandamenti), di respirare a fondo la vita di Dio, in modo da assomigliare sempre più a Dio, con la passione di agire con Lui nella storia, di essere le sue mani, un frammento del suo cuore. Gesù è venuto per farci vivere, “perché abbiano la vita in abbondanza” (Gv 10,10). La sua è anche la nostra missione: essere tutti nella vita, datori di vita.

    Sappiamo vivere come Gesù, in modo che le persone vedendoci, non possano sbagliare, vedendo la presenza di Gesù e l’amore di Dio Padre? Gesù si perde dietro la pecora smarrita, dietro ai pubblicani, le prostitute… ama per primo, ama in perdita, ama senza aspettare di essere ricambiato…

     Il Padre ci manderà lo Spirito Santo (“Paraclito”): un difensore, sostenitore… Difensore della causa di Gesù: sarà accanto ai discepoli nella loro missione di essere testimoni della verità. Continuerà l’opera di Gesù: rivelatore del Padre e del suo progetto di salvezza. Sarà presente nell’urto che l’annuncio del Vangelo creerà con il mondo, scatenando una forte ostilità. Il mondo che non può accogliere lo Spirito, né riconoscere la sua presenza. 

    Gesù assicura che, pur assente fisicamente, non li abbandonerà. La presenza dello Spirito santo, dono del Padre e insieme suo, non li farà sentire orfani. Ci sarà una nuova “esperienza” di Gesù, che il mondo non conoscerà e che invece i discepoli vivranno, fino a vederlo con gli occhi della fede e dell’amore, con gli occhi del cuore. Gesù sarà il vivente, e i discepoli che vivono della sua stessa vita avranno questa conoscenza di Lui. È il veniente a noi, senza apparizioni, ma nella fede. Il segno della nostra accoglienza è quanto più vivremo una pienezza di vita di amore, quanto più questo flusso d’amore si trasformerà in amore verso gli altri, quanto più vivremo la gioia di un amore che sa donarsi a tutti.

  • IN GESÙ IL CUORE DELL’UOMO TROVA CASA (Gv 14,1-12)

    Vangelo della domenica V di Pasqua

    1«Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. 2Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; 3quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. 4E del luogo dove io vado, voi conoscete la via». 5Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». 6Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. 7Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». 8Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». 9Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? 10Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. 11Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse. 12In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre.

    Siamo all’inizio del discorso di addio di Gesù, dopo l’Ultima Cena. Avendo Gesù, dopo aver lavato loro i piedi, annunciato il tradimento da parte di uno dei Dodici e la sua partenza ormai prossima, i discepoli sono ora invasi da paura. Gesù non sarà più in mezzo a loro e con loro: sono dunque nell’incertezza, sapendo che uno di loro è un traditore e che Pietro, “la roccia”, verrà meno nella sua saldezza. E’ notte nei loro cuori, è l’ora della prova della fede, e la crisi della fede è la crisi della comunità, in cui sembra impossibile aver fiducia.

    Gesù invita a non aver paura, e ha una proposta chiara per aiutarli a vincere la paura: abbiate fede nel Padre e anche in me. Il contrario della paura non è il coraggio, è la fede nella buona notizia che Dio è amore e non ti molla. Con forza Gesù invita anche noi a un “no” gridato alla paura e un “sì” consegnato alla fiducia. Sono due atteggiamenti fondamentali anche nei nostri rapporti umani. Noi tutti ci umanizziamo per relazioni di fiducia, a partire dai nostri genitori; diventiamo adulti perché costruiamo un mondo di rapporti edificati sulla fiducia. Se oggi la fede è in crisi, è anche perché è entrato in crisi l’atto umano dell’aver fiducia negli altri, nel mondo, nel futuro, nelle istituzioni, nell’amore. In un mondo di fiducia rinnovata, anche la fede in Dio troverà nuovo respiro.

    Le parole di Gesù risultano incomprensibili ai discepoli, in particolare a Tommaso, e non chiare come a Filippo (Che senso deve avere la partenza di Gesù?). Gesù, prima di sviluppare a lungo il tema dell’amore, li rincuora nel senso della fede. Dal momento che credono in Dio, sono chiamati  a credere anche in Lu. Credere in Dio e credere in Gesù ormai si identificano,sia perché Gesù e il Padre sono “uno”, sia perché Gesù, il Figlio, è il perfetto e definitiva rivelatore del Padre.

    Poi rivela la meta: la casa in cui si crea questa famiglia, un luogo di permanenza, una dimora  e si realizzerà con la sua partenza, risultato del suo infinito amore sino alla morte. 

    “Vi prederò con me, perché siate dove sono io”: c’è un luogo in principio a tutto; un luogo caldo e familiare, un casa il cui segreto basta a confortare il cuore. Lì abita Qualcuno che ha desiderio di noi, nostalgia di noi, che non sa immaginarsi senza di noi e ci vuole con sé. “L’amore è passione di unirsi con l’amato” (San Tommaso d’Aquino). È Dio stesso che dice a ognuno di noi: il mio cuore è a casa solo accanto al tuo. 

    Come si arriva? In mezzo a tanti sentieri, ad uno sventaglio di strade, Gesù dice: la strada sono io.

    Non c’è allora un sentiero, ma una persona da percorrere: seguire le sue orme, compiere i suoi gesti, preferire le persone che lui preferiva, opporsi a ciò cui lui si opponeva, rinnovare le sue scelte. La sua strada conduce a un modo nuovo di custodire la terra e il cuore. È un discorso che va oltre la morte come un passaggio da questo mondo a Dio, a quella casa preparata, e vivere da vero discepolo, seguendo Gesù. E’ il sogno più grandioso mai sognato: finalmente si realizza la conquista di amore e libertà, di bellezza e comunione: con Dio, con il cosmo, con l’uomo.

    La verità è il “Sì” di Dio a tutte le sue promesse. Gesù è questo “Sì”, perché ci rivela perfettamente il senso di quello che Dio ha rivelato e perché lo ha realizzato. Con la sua vita donata, Gesù ci rivela in modo perfetto e definitivo il volto d’amore del Padre e il vero volto dell’uomo.

    La verità non è una definizione o un’idea, cose da sapere, ma una persona: una vita che ha visto che Dio è amore e che oggi la tenerezza di questo amore passa per le nostre mani. Una persona che produce vita, che con i suoi gesti procura libertà. Persona, sempre coraggiosa e amabile.

    La verità è: “Vita – donata”. Non c’è vera vita dove non è possibile vincere la morte. Ora solo Gesù l’ha vinta e la vince in noi. Lui ci fa vivere. Il mistero della nostra esistenza si spiega solo con il mistero di Dio. La mia vita si capisce solo con la vita di Gesù. Più il Vangelo entra nella mia vita, più io vivo. San Paolo affermava: “Per me vivere è Cristo”. Ogni parola del Vangelo ascoltata, assaporata, assimilata, imprime in me il volto di Gesù. Gesù è via nella conoscenza del Padre: mi fa vivere la gioia dell’amore che unisce il Padre e il Figlio. Conoscendo, facendo esperienza di Gesù, io allo stesso tempo faccio esperienza del Padre.

    Gesù, con amarezza, constata che i discepoli non sono ancora a questo punto di fede. Per loro Gesù è un grande profeta. Sono lontani dal pensare che ora il Padre ci parli definitivamente per mezzo del Figlio e, tanto meno, che basti vedere il Figlio per contemplare il Padre.

    Interviene Filippo: “mostraci il Padre e ci basta”. E’ bello che gli apostoli chiedano, che vogliono capire come noi. Anche Mosè sul monte Sinai aveva chiesto di vedere il volto di Dio,  (Es 33,18-23) ma non l’ottenne. Il vangelo dice: “Nessuno ha mai visto Dio, il figlio unigenito, che è sempre accanto al Padre, lo ha rivelato (Gv 1,18). Siamo invitati a guardare quello che Gesù ha fatto (le sue “opere”).

    Anche noi siamo chiamati a guardare a Gesù: come è vissuto, come ha amato, come ha accolto, come è morto; e arriviamo a capire Dio, e in quel momento si dilata la nostra vita.Il ritorno di Gesù al Padre non è allora un chiudersi della sua opera, sarebbe un fallimento, ma è un aprirsi su un avvenire ancora più impegnativo (“Chi crede … ne farà di più grandi”). Questo si compirà per mezzo dei discepoli, della chiesa, anche di noi oggi. Eliminiamo i pensieri di tristezza del presente, e proiettiamoci verso il futuro, pieni di speranza. Tutto dipende da noi, che, sostenuti dallo Spirito Santo, ogni giorno, siamo resi soggetti capaci per la missione.

  • GESÙ, IL PASTORE CHE CONDUCE VERSO LA VITA SENZA CONFINI (Gv 10,1-10)

    Commento al Vangelo IV domenica di Pasqua

    1«In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. 4E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. 5Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». 6Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro. 7Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. 8Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

    Peccato è pensare di non aver bisogno della luce (Spirito Santo) per credere. Gesù desidera aprire i nostri occhi perché arriviamo alla fede in Lui, Figlio di Dio e lo contempliamo nel suo amore con l’immagine del buon pastore. Credere in Gesù è credere che Dio Padre, nel suo amore, ci ha donato come Messia il Figlio suo perché, credendo in Lui e accogliendolo come Salvatore e Signore, potessimo con Lui e in Lui avere la vita eterna.

    Gesù si trova A Gerusalemme per celebrare la festa della Dedicazione del tempio, dopo la guarigione in giorno di sabato di un cieco nato, c’è uno scontro tra Gesù e alcuni farisei. Grazie alla fede, donata da Gesù che lo ha cercato, il cieco giunge a vedere, mentre le guide religiose appaiono cieche, incapaci di riconoscere in Lui, la missione di Dio. Anche noi siamo chiamati a fare la grande scelta: rifiutare o accogliere Gesù, ben sapendo che l’accoglienza ci coinvolge nel suo destino di morte e resurrezione.

    Gesù allora racconta questa parabola del pastore, ma non capirono quello che diceva loro.

    Sulle montagne attorno a Gerusalemme non mancavano certamente i recinti per le pecore: avevano muriccioli tutto intorno e una porta stretta, per contare le pecore quando entravano o uscivano. I pastori erano soliti affidare, di notte, le loro pecore ad un custode. Al mattino si presentavano al custode che apriva loro la porta del recinto ed essi chiamavano le loro pecore. Le pecore conoscevano la voce del loro astore e perciò non seguivano gli estranei. Mentre uscivano, i pastore le contava per essere sicuro che ci fossero tutte. Di notte c’era la possibilità che, scavalcando il recinto, ladri e banditi facessero razzia di pecore.

    Recinto (aulè) richiama il luogo dove si trovava la Tenda del convegno durante l’Esodo, poi i cortili del tempio. Il portinaio (thuroròs), il custode delle porte del tempio. Gesù quindi fa riferimento alle istituzioni di Israele. Dio è conosciuto come il “custode e pastore d’Israele”. (“Il Signore è il mio pastore” …salmo 23). Le istituzioni di Israele consideravano la Legge come un sistema chiuso in sé stesso: si entra e basta! Le pecore sono allora l’intero popolo di Israele, dominato, tiranneggiato dai suoi dirigenti mediante interpretazioni normative che erano un peso gravoso, che sessi non osavano neppure muovere con un dito. Ma ecco il pastore vede una porta … Egli si presenta alla porta e chiama le sue pecore per nome e le fa uscire per andare altrove. Chiama le sue, che, come i discepoli, rispondono seguendolo. ( Gli uditori non comprendono e Gesù allora spiega …)

    Gesù è il Pastore e il Padre il guardiano che gli apre. Il Padre gli ha dato le pecore, le ha messe nelle sue mani. Il Padre riconosce Gesù come pastore unico del gregge. La porta non è quella dell’ovile, ma del tempio: nessuno può entrare nella casa di Dio e incontrarsi con Dio se non per mezzo di Gesù. Gesù è il vero e unico luogo d’incontro con Dio. Gesù è l’unico mediatore di salvezza, l’unico che può liberarci (come con Mosè dalla schiavitù alla libertà), per mezzo suo si può fare esperienza di libertà, si può accedere alla vita.

    Il buon pastore  chiama le sue pecore, ciascuna per nome. Io sono un chiamato, con il mio nome unico pronunciato da Gesù come nessun altro sa fare, con il mio nome sicuro sulla sua bocca, tutta la mia persona sicura con lui. E le conduce fuori. Non le porta da un recinto all’altro, dalle istituzioni del vecchio Israele a nuovo schemi migliori. Il nostro non è un Dio dei recinti chiusi, ma degli spazi aperti, di liberi pascoli. Non un pastore di retroguardia, ma una guida che apre cammini e inventa strade, è davanti a noi e non alle spalle. Non un pastore che rimprovera e ammonisce per farsi seguire, ma uno che precede e seduce con il suo andare, che affascina con il suo esempio: pastore di futuro, pastore di libertà e di fiducia.

       A chi va con Lui, che è la porta, il passaggio, Gesù promette di far fiorire la vita in pienezza: l’uomo diventa Figlio di Dio, e vive di vita divina, dona eternità a tutto ciò che di più bello portiamo nel cuore. Ciò è possibile perché Lui, buon pastore, dà la vita per le pecore, non solo quella smarrita, ma anche per quelle che restano nel recinto, cioè fa del suo vivere, del suo esistere sino alla morte, un dono che è vita per tutti. Cristo è questa soglia spalancata che mette nella terra del vero amore. Lui è venuto perché abbiamo la vita piena, abbondante, gioiosa. Vita che profuma di coraggio e di libertà. Cristo non è venuto a pretendere, ma ad offrire, non chiede niente, dona tutto. Questa è anche la nostra vocazione: essere datori di vita.

       Da questa conoscenza reciproca tra pastore e pecore, nasce il vero rapporto di amore. Le pecore giungono a riconoscere il pastore come colui che ha cura di loro perché le ama. Ascoltando il pastore, si vive un’esperienza meravigliosa: ci si sente amati da Dio, compresi, perdonati da un amore che è sempre misericordia.

    Tutt’altro è il modo di vivere del “pastore salariato”, che svolge il suo compito solo per il salario. Era la maniera di agire dei maestri della legge che concepivano la loro relazione con il popolo in termini di profitto, di potere, di dominio, non di servizio; di privilegio, non di donazione. Chiediamo che a partire dai pastori, ma anche tutto il gregge (la chiesa) viva questo amore gratuito, in modo da non sfigurare il volto di Cristo buon pastore.

      Soffermiamoci nella contemplazione di Cristo buon pastore, nella pienezza di vita che siamo chiamati a vivere, e nel nostro rapporto d’amore con Cristo.

  • IL DIFFICILE CAMMINO DELLA FEDE (Lc 24,13-35)

    Gesù, il compagno di viaggio che non riconosciamo

    13Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, 14e conversavano di tutto quello che era accaduto. 15Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. 17Ed egli disse loro: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?». Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». 19Domandò: «Che cosa?». Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. 21Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro 23e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l’hanno visto». 25Ed egli disse loro: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! 26Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». 27E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. 28Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno gia volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. 32Ed essi si dissero l’un l’altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». 33E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». 35Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

    La strada di Emmaus è metafora della nostra vita: racconta di cammini di delusioni, di sogni in cui avevamo tanto investito e che hanno fatto naufragio. Ci racconta di Dio che ci incontra non in chiesa, ma nei luoghi della vita, nei volti, nei piccoli gesti quotidiani.

    Gesù aiuta i due discepoli diretti ad Emmaus a capire quanto è avvenuto a Gerusalemme, ricordando quanto hanno detto i profeti. Gesù aiuta a dissipare ogni dubbio per costituire i discepoli, testimoni della sua resurrezione.

    Sulla via di Emmaus ci viene presentata la partenza e il ritorno di due discepoli a Gerusalemme, dove raccontano la loro esperienza. I due non conoscono soltanto quello che era capitato a Gesù, ma anche l’esperienza che le donne, recatesi al sepolcro, avevano avuto quella stessa mattina. Tutto era sembrato fantasticherie e frutto di delirio. Per loro Gesù era morto, e apparteneva ormai ad un tempo che non poteva più ritornare. Per i due discepoli, che abbandonano Gerusalemme, tutto era finito. Si chiudeva una storia, si ritorna a casa. Si abbandona la città d Dio, si esce dalla storia, si rientra nella normalità del quotidiano.

    Mentre se ne stanno andando, Gesù li raggiunge. Dio non accetta che ci arrendiamo, che abbandoniamo il campo. Con Dio c’è sempre un dopo. Egli è per le strade del mondo, rallenta i suoi passi al ritmo dei nostri, quando sulla nostra fede scende la sera. Il Signore ci raggiunge nelle nostre vicende quotidiane.

    I discepoli però non lo riconoscono, mentre si fa compagno di strada. Hanno dimenticato il vero Gesù, che li invitava a guardare al futuro oltre la morte, li invitava alla speranza. Per loro, con la sepoltura, erano finite le sue parole di speranza. Gesù però è lì accanto a loro e cammina con loro.

    Il cammino che deve fare ognuno di noi e ogni comunità per riconoscere Gesù presente.

    1. Ricordare i fatti (24,17-24) I due non avevano capito la Croce. L’avevano vista come un incidente, non la pienezza dell’amore. Il pellegrino li aiuta a elaborare la loro tristezza, mentre raccontano quello che è accaduto. Sente che continuano ad amarlo, anche se disillusi. Li aiuta nella ricerca, dà loro la possibilità di sfogarsi, rasserenarsi e focalizzare meglio il problema. Gesù aveva suscitato il loro entusiasmo e la loro speranza: “speravamo che Egli avrebbe liberato Israele da tutti i suoi nemici”. Le cose erano andate diversamente e ora sono già passati tre giorni dalla sua crocifissione e nessuno l’ha più visto. Quello che non capiscono è la Croce. Per loro sembra assurdo, non vedono la mano di Dio posata sulla Croce: è così nascosta da sembrare assente. Eppure la mano di Dio più è nascosta e più è potente. E la mano è posata dove tutto sembra impossibile e assurdo, proprio sulla Croce.

    2. Confrontare i fatti con le Scritture (24,25-27). Nell’idea dei due discepoli, il Messia non poteva morire sconfitto, doveva trionfare sui nemici. Solo confrontando le Scritture si può scoprire che la Croce non è un incidente, ma la pienezza dell’amore. I discepoli si sono fermati alla tomba, non hanno creduto all’annunzio delle donne che affermavano di aver ricevuto la rivelazione che Lui era vivo. I due camminatori ascoltano: Il Messia doveva morire”: qualcosa di già compiuto, in obbedienza ad un disegno divino e dove, mediante la sofferenza, Cristo è entrato nella gloria. La sua passione è stata un vero “esodo”, una vera pasqua, un passaggio da questo mondo al Padre, dove Dio ha esaltato il Figlio e lo ha fatto sedere accanto a sé nella gloria.

    Il primo miracolo si compie già lungo la strada: non ci bruciava il cuore, mentre ci spiegava le Scritture? Trasmettere la fede è accendere i cuori, contagiare di calore e passione. E dal cuore acceso dei due pellegrini escono le parole più belle che sappiamo: resta con noi, Signore, perché si fa sera: quando scende la sera nel cuore, alla fine di una giornata, alla fine della vita. Resta con noi e con quanti amiamo, nel tempo e nell’eternità. Domandiamoci: a che punto siamo nel cammino della nostra fede, nell’ascolto della Parola di Dio, illuminata da Cristo, che ne è l’interprete? La resurrezione la croce presente nella nostra vita, nella nostra storia?

    3. Spezzare insieme il pane (24,28-35) I due discepoli ora sentono che quel viandante (Gesù) è loro amico e non vogliono che li lasci. Gesù da invitato, diventa invitante: compie il gesto inconfondibile dell’Ultima cena, della moltiplicazione dei pani. Da allora Cristo vuole entrare anche in noi, rimanere con noi, trasformarci, cambiandoci il cuore, gli occhi, il cammino. Il cuore del Vangelo è spezzare anche noi per i fratelli il nostro pane, il nostro tempo, condividere con loro il cammino della vita,, speranze e smarrimenti.

    Nel momento in cui lo riconoscono nello “spezzare il pane” (è il suo Corpo spezzato), Lui si rende invisibile. Non sparisce, è ancora presente, davvero è vivo, è ancora con loro, è risuscitato e tutti i discepoli di tutti i tempi , possono entrare in comunione con Lui, spezzando il “suo Pane”.

    La fuga triste da Gerusalemme diventa corsa gioiosa: non c’è più notte, né stanchezza, né distanza; il cuore è acceso e gli occhi vedono. Subito vogliono comunicare la loro esperienza agli altri discepoli, ma devono prima ascoltare altri che raccontano la loro esperienza. Nessuno è messo a tacere. Al di sopra di tutte le testimonianze c’è però l’apparizione a Pietro, come i primi cristiani dicevano nel credo: “è stato risuscitato secondo le Scritture e si è fatto vedere a Pietro” (1Cor 15,4-5a). Quali riflessioni per la nostra comunità? Gesù continua ad essere in cammino con tutti quelli che sono in cammino, è sulla nostra strada.

  • ERA MORTO, ORA E’ VIVO

    Domenica II di Pasqua “In albis” – “Un incontro che si fa missione” ebeato chi crede senza aver visto”

    Gesù l’aveva annunciato nel suo discorso d’addio, dopo l’Ultima Cena: tra poco il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. Ora siete tristi, ma vi vedrò e il vostro cuore gioirà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia.

    Come i primi discepoli, anche noi, siamo invitati a rivivere la stessa loro gioiosa esperienza: passare dalla tristezza alla gioia pasquale. E’ un cammino impegnativo che domanda un continuo progredire dal pianto, alla paura, dall’esigenza di toccare alla scoperta, al “vedere e credere”.

    (Leggiamo tutto il capitolo 20 del Vangelo di Giovanni).

    Il primo giorno della settimana è il giorno della resurrezione del Signore, ma è anche quello in cui il Risorto si rende presente in mezzo ai suoi: il giorno dell’intervento decisivo di Dio che, risuscitando Gesù, ha vinto la morte. Gesù si rende presente: rende visibile la realtà della sua presenza: “mostrò le mani …”. Gesù è di nuovo con loro, diventa l’unico punto di riferimento.

    Dopo gli incontri al sepolcro con Maria Maddalena, con Pietro e il discepolo che Gesù amava, noi ci soffermiamo nella riflessione sul brano che la liturgia propone per questa domenica: l’apparizione ai discepoli, dove scoppia la gioia pasquale, che subito si fa missione. Con Tommaso infine siamo noi, chiamati nella pienezza della fede, a vivere la beatitudine: “Beati quelli che credono, senza aver visto”. E’ una visione paradossale: insieme segni di passione e di gloria, segni dell’amore vissuto fino all’estremo. Gesù è il vivente, è risorto da morte, ma non cessa di essere il Crocifisso. Il Crocifisso è risorto, ma il Risorto è il Crocifisso. Croce senza Pasqua è cieca, Pasqua senza croce è vuota. E’ il paradosso della nostra fede cristiana. Ogni discepolo è chiamato come Gesù a dare la vita, ad amare sino alla fine. I segni della passione nelle mani e nel costato di Gesù risorto, ci ricorderanno fin dove deve giungere l’amore.

    Un incontro che si fa missione (20,19-23). Assomigliamo tanto a questi discepoli che hanno paura dei giudei, noi pieni di paure nel vivere e soprattutto nel dire la nostra fede.

    Venne Gesù a porte chiuse”. La sera di Pasqua Il Signore entra in quella stanza chiusa, porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e si respira paura. Soffiò e disse loro: ricevete lo Spirito Santo. Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, inaffidabili, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, che scuote le porte chiuse del cenacolo: come il Padre ha mandato me anch’io mando voi. Voi come me. E li manda come sono, poca cosa davvero, un gruppetto allo sbando. Per essere abilitati a questa missione, devono essere ricreati, rigenerati: occorreva una nuova creazione per opera dello Spirito Santo. Ora c’è in loro “un di più”: c’è il suo Spirito, il suo respiro, ciò che fa vivere: a coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati. Ecco Gesù, quale Risorto alita, soffia su questa comunità gioiosa, perché credente in Lui, il suo respiro: per vivere Dio ha bisogno di comunicare il suo stesso perdono. Accogliendo la vita del Padre la chiesa è chiamata come il Padre ad abbracciare ogni figlio che ritorna e anche quello che non capisce, a cercare ogni pecora che si perde. Dio è misericordia : “oggi devo fermarmi a casa tua”. Prima missione: donare il perdono, come atto creativo di Dio che riapre il futuro .

    Otto giorni dopo Gesù è ancora lì e viene ad incontrare i suoi. L’abbandonato ritorna da quelli che sanno solo abbandonare. Li ha inviati per le strade, e li trova ancora lì in quella stanza chiusa. Sta in mezzo a loro: è lì, vivo. Accompagna con delicatezza infinita la loro piccola fede, gestisce l’imperfezione di tutti. Anche per noi, la fede non nasce da una rievocazione, ma da una presenza. Anche a noi non ci chiede di essere perfetti, ma di essere autentici. Nei nostri dubbi, ancora ci verrà incontro.

    Beato chi crede senza aver visto (20,24-29)

    L’esperienza di Tommaso è un po’ l’esperienza di noi tutti. Tutti abbiamo i nostri dubbi. Nei vangeli non è solo Tommaso a dubitare, ma un po’ tutti: pensiamo agli Undici apostoli e in particolare ai due discepoli di Emmaus. La sua è l’esperienza tipica che hanno vissuto gli apostoli e i discepoli, prima di dire: noi l’abbiamo visto e ne diamo testimonianza.

    Tutto avviene ancora (otto giorni dopo) nel giorno del Signore, il “primo giorno”, giorno della pienezza … anticipo del giorno definitivo. Tommaso, di fronte all’annuncio della comunità, vuole l’esperienza diretta: ha bisogno di vedere visibilmente Gesù. Gesù misteriosamente è già presente e si rivolge subito a Tommaso, che Lui stesso aveva educato alla libertà interiore, a dissentire, ad essere rigoroso e coraggioso, vivo e umano. Non si impone, ma propone: metti qui il tuo dito e guarda le mie mani, tendi la tua mano e mettila nel mio fianco. Gesù rispetta la fatica e i dubbi; rispetta i tempi di ciascuno e la complessità del credere; non si scandalizza, si ripropone. Che bello se anche noi fossimo formati, come nel cenacolo, più all’approfondimento della fede che all’ubbidienza; più alla ricerca che al consenso! Quante energie e quanta maturità sarebbero liberate! Gesù si espone a Tommaso con tutte le ferite aperte. Offre due mani piagate dove poter riposare e riprendere il fiato del coraggio.

    La Croce non è un semplice incidente di percorso da superare con la Pasqua, è il perché, il senso. Metti, tendi, tocca. Il Vangelo non dice che Tommaso l’abbia fatto, che abbia toccato quel corpo. Che bisogno c’era? Che inganno può nascondere chi è inchiodato al legno per te? Non le ha toccate, lui le ha baciate quelle ferite, divenute feritoie di luce. Mio signore e mio Dio. La fede se non contiene questo aggettivo mio non è vera fede, sarà religione, catechismo, paura. Mio dev’essere il Signore, come dice l’amata del Cantico.

    Le parole di Tommaso “Signore mio e Dio mio” sono l’espressione piena della fede personale e comunitaria del credente: di chi ha visto, udito e toccato, di chi riconosce che Gesù, il Signore, lo ha amato sino alla fine (contemplazione delle mani e del costato: segni della passione in Gesù risorto).

    Su questa fede ed esperienza apostolica è fondata la nostra fede e la beatitudine. Una beatitudine alla nostra portata: noi che tentiamo di credere, noi apprendisti credenti, non abbiamo visto e non abbiamo toccato mai nulla del corpo assente del Signore. Solo accettando di non vedere, di non toccare, potremmo accostarci alla vera gioia che nasce nel buio lucente di Pasqua.

    Conclusione (20,30-31).

    I segni scelti dall’evangelista nel suo Vangelo sono sufficienti per capire chi è Gesù e credere in Lui: vangelo scritto perché “voi” (ciascuno di noi) crediate e abbiate vita. La nostra fede si fonda sulla testimonianza di questi testimoni. Giovanni ci invita a vedere l’intera vicenda di Gesù come “segno”, primo passo verso la fede. Il segno deve essere confrontato con la Parola di Dio: si guarda a Gesù e si ascolta Dio che ci dice che Gesù è il vero Messia, un maestro inviato da Dio. Sono così invitato ad accogliere la sua rivelazione che mi dice che Lui è il Figlio di Dio e che posso invocarlo dicendo: Signore mio e Dio mio.

    Oggi tocca a noi accogliere il messaggio del Vangelo e dare la nostra adesione di fede.