Categoria: Ascolto della Parola

  • L’UNICO PANE CHE DA’ LA VITA E’ QUELLO DISCESO DAL CIELO

    L’UNICO PANE CHE DA’ LA VITA E’ QUELLO DISCESO DAL CIELO

    Parrocchia di Fontane
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    L’UNICO PANE CHE DA’ LA VITA E’ QUELLO DISCESO DAL CIELO
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    Gv 6,41-51

    In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».

    Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.

    Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.

    Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

    La storia di Elia ci aiuta ad interpretare il Vangelo di questa domenica: ci annuncia che Dio stesso si fa pane e vicinanza, angelo e carezza per noi, perché non ci arrendiamo, profeti troppe volte stanchi, al deserto che ci assedia. Elia, il più grande dei profeti, vuole morire. E’ stanco e scoraggiato, così stanco e disperato che dice: ora basta, Signore, prenditi la mia vita. Quante volte lo scoraggiamento ci ha fatto dire: non ce la faccio più, non serve a niente essere buoni, non cambia nulla, non vale la pena di vivere il Vangelo. Un angelo gli porta pane e acqua: queste cose quotidiane risvegliano le sue forze e gli restituiscono la sua dignità e la sua libertà. Ritorna così la voglia di camminare e di ricominciare

    Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Il mistero di Gesù e la sua storia sono espressi per immagini: pane, vivo, discesa, cielo. Quattro parole che non spiegano il mistero, ma lo fanno vibrare nella vita: mistero gioioso da godere e da assaporare. Il pane è simbolo di tutto ciò che è buono per noi e ci mantiene in vita.

    Era normale che i contemporanei di Gesù di Nazaret, lo ritenessero di origine puramente umana. Come può uno noto a tutti come figlio di Giuseppe e Maria, pretendere di essere piovuto dal cielo! Non riescono a convincersi dell’origine divina di Gesù. Protestano, mormorando: tu vuoi cambiarci la vita, facendo quello che fa il pane, che scompare nell’intimo del nostro corpo. Dio, se è veramente onnipotente, dovrebbe fare ben altro: miracoli potenti ed evidenti!

    Nel libro dell’esodo, si racconta che Mosè chiese a Dio di vedere il suo volto, ma gli fu concesso di vedere il Signore di striscio, non faccia a faccia. Gesù invece contempla continuamente e direttamente il volto del Padre. Gesù – e solo Gesù – è il “pane”, cioè la rivelazione, la Parola e la sapienza di cui l’uomo ha fame. Il popolo ebreo attendeva il dono abbondante della manna, Gesù afferma che è Lui che porta a compimento questa attesa.

    Non mormorate tra voi… Non sprecate parole a discutere di Dio, tuffatevi invece nel suo mistero. Il cammino della fede è questo: penetrare continuamente nel mistero della persona di Gesù. E’ un pane che discende dal cielo verso di noi, adesso, in questo momento, continuamente.

    Il movimento decisivo della storia è discendente. L’origine della fede in Cristo è l’iniziativa del Padre che vuole che tutti gli uomini si incontrino con il suo Figlio Gesù, inviato a rivelarci definitivamente il suo amore, diventando così sorgente di vita per tutti. Nessuno può arrivare a Gesù, se il Padre non lo attira. Non si diventa cristiani se non per questa attrazione. Nessuno può far sorgere dentro di sé il movimento della fede, senza la chiamata del Padre. 

    A noi è chiesta la docilità nell’ascoltare e nel lasciarsi istruire. Noi possiamo scegliere di non prenderlo come cibo, Lui però discende instancabilmente, ci avvolge di forze, e nutre la parte più bella di vita. Si dà e scompare. Gesù, il pane che mangiamo, ci fa vivere. Allora viviamo di Dio, mangiamo la sua vita, sogniamo i suoi sogni, preferiamo quello che Lui preferiva. 

    Subito sorge una domanda: di che cosa ci nutriamo, di quali pensieri? Stiamo mangiando generosità, bellezza, o ci nutriamo di egoismo, intolleranza, paure…? Se accogliamo pensieri degradati, questi ci fanno come loro. Se accogliamo pensieri di vangelo e di bellezza, questi ci trasformano in custodi della bellezza e della tenerezza: in pane che salverà il mondo.

    Dio in noi: il nostro cuore lo assorbe, lui assorbe il nostro cuore, e diventiamo una cosa sola. Questo è il senso di tutta la storia: portare cielo nella terra, Dio nell’uomo, vita immensa in questa piccola vita.

    Noi non siamo ancora e non saremo mai Il Cristo, ma siamo questa infinita possibilità. Non basterà questa vita, ma Lui ha promesso. Cominciamo, uniti a Gesù, a essere angeli, pane e acqua, – come nel racconto di Elia – a diventare per gli altri: carezza, compagnia nel deserto e oltre il deserto fino al monte di Dio.

  • IL SIGNORE E’ IL PANE CHE NUTRE L’ESISTENZA SENZA FINE

    IL SIGNORE E’ IL PANE CHE NUTRE L’ESISTENZA SENZA FINE

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    IL SIGNORE E’ IL PANE CHE NUTRE L’ESISTENZA SENZA FINE
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    Gv 6, 24-35

    In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».

    Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo».

    Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».

    Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».

    Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».

    Mentre Gesù è sul monte tutto solo per evitare una regalità che per Lui non aveva senso, i discepoli, disorientati, lasciano la folla, s’imbarcano e decidono di tornarsene a Cafarnao, anche se è notte e il mare agitato. Vivono un momento di crisi e sembrano ritornare ad un mondo senza Gesù. Gesù viene però incontro ai discepoli, li rassicura, non annulla le difficoltà, ma aiuta a superarle, e così, con la sua presenza, possono raggiungere un porto sicuro: Cafarnao.

    Ora  è la gente che cerca Gesù, lo insegue sull’altra riva del lago, che si riempie di barche e di illusioni. Gesù aiuta le persone a vagliare i motivi di questa ricerca. Domenica scorsa il vangelo ci presentava Gesù che distribuiva il pane, oggi si distribuisce Lui stesso come pane, come un pane che si distrugge per dare vita. Gesù vuole svegliare le persone per saziare un’altra fame, vuole che cerchino un pane diverso. Immaginiamo di essere noi, comunità cristiana sempre in ricerca, coloro che oggi si mettono ad ascoltare Gesù.

    Gesù vuole aiutarci a superare la banalità della vita quotidiana, perché cerchiamo sempre quel che è essenziale e porta in alto. La folla si era fermata sul segno prodigioso del pane. Ma un Messia che risolve la materialità della vita, i problemi di quaggiù, non è per Gesù sufficiente. Gesù mette a confronto due cibi: uno che perisce, uno che è sorgente di vita eterna. La gente, imbevuta di mentalità legalista, pensa al “compiere le opere”, non alla fede in Lui, l’inviato del Padre. Non siamo come al tempo di Mosè, con il dono della manna, che però non aveva eliminato la morte delle persone, Lui, Gesù, è il vero pane che viene dal cielo, ed è sorgente di vita per tutti. La sua persona è sorgente della vera vita definitiva. Non è possibile avere questa vita senza Gesù.

    E’ questo il centro del messaggio di tutta la Bibbia: il progetto di Dio è quello di rendere l’uomo capace di fare quello che Lui fa, di agire come Lui agisce, di comportarsi come Gesù ha mostrato e come si è comportato. Per questo non ci dona delle cose, ma se stesso, e così ci dà tutto. Dalle mani di Gesù fluisce una vita illuminata e inarrestabile. Ci chiama ad essere come Lui: nella vita, datori di vita. La pienezza della vita è un pezzo di Dio in noi. L’uomo è l’unica creatura che ha Dio nel sangue e nel respiro. C’è in noi una vita che è istinto di conservazione e una che è istinto di dono. Vita di terra e vita di cielo intrecciate fra di loro. Gesù è colui che nutre di cielo la porzione di eternità, che la mano viva del Creatore continua a seminare in noi.

    La nostra fede corre il pericolo di essere illusoria, quando amiamo i favori di Dio, più che Dio stesso. Amo i doni che attendo, più che il Donatore. La gente ricorda a Gesù che Mosè ha dato la manna al popolo d’Israele. Gesù precisa che è Dio che ha fatto quel dono e che ancora dà. Dio non chiede, Dio dà. Dio non pretende, Dio offre, Dio non esige nulla, Dio dona tutto. Dio dà la vita al mondo. Dà per primo, senza pretendere niente in cambio, dà in perdita. Dio dà continuamente vita.

    “Io sono il pane della vita”. Io nutro. Non dono cose, ma dono me stesso. Gesù entra in noi e fa scorrere la nostra vita vita verso l’eterno: “chi mangia non avrà fame, chi crede non avrà sete, mai!”. L’uomo nasce affamato, ed è la sua fortuna. A noi spetta aprirci, accogliere, dire di sì, acconsentire, credere. Al cuore della fede sta la fiducia in Dio, che ha il volto di Cristo, il volto di uno che sa soltanto amare. E’ questa fiducia che cambia la vita per sempre: sentirsi amato teneramente, costantemente, appassionatamente. E sapere che lo stesso amore avvolge ogni creatura.

    Così si presenta Gesù, con una pretesa assoluta: io posso colmare tutta la tua vita. Io sono il divino che fa fiorire l’umano! Io sono un pane che contiene tutto ciò che serve per mantenere la vita: amore, libertà, coraggio, pace, bellezza. Dio è amore e riversa amore; Dio è luce e dilaga luce da Lui; Dio è eterno e l’eternità si insinua nell’istante. Dio fa vivere. Come ha saziato per un giorno la fame, così colma tutta la nostra vita. Una vita continuamente da assimilare, una calda corrente d’amore da far continuamente entrare in noi.

  • LA CONDIVISIONE E’ IL VERO PANE

    LA CONDIVISIONE E’ IL VERO PANE

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    LA CONDIVISIONE E’ IL VERO PANE
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    Gv 6,1-15

    In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.

    Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».

    Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.

    Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.

    E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.

    Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

    La moltiplicazione dei pani è qualcosa di così importante da essere l’unico miracolo presente in tutti e quattro i vangeli. Giovanni lo colloca su un monte. L’attenzione è rivolta al significato del miracolo. Si nota subito che sullo sfondo c’è la prima Pasqua del popolo ebreo (“era vicina la Pasqua”). Come con Mosè c’è il passaggio del Mar Rosso così Gesù passò “all’altra riva del mare”. Il monte Sinai, casa di Dio, ora Gesù (“salì sul monte”). Nel libro dell’esodo, la manna avanzata marciva, qui il pane dato da Gesù non può andare perduto : “dodici ceste di pezzi avanzati”. Nella nuova Pasqua, il cibo non è più l’agnello, ma il pane (Gesù) che viene spezzato e distribuito. La molta erba fresca richiama i pascoli, il buon pastore. Infine i numeri, 5 pani e 2 pesci formano il numero 7, simbolo di pienezza. Il pane è d’orzo, pane di primizia, perché l’orzo è il primo dei cereali che matura.

       C’è numerosa folla che segue Gesù per i miracoli  di guarigione degli ammalati, che lo cerca per quello che fa, ma non sembra credere in Lui, Figlio di Dio. C’è però anche la piccola comunità dei suoi discepoli, che sale sul monte con Gesù e si pone a sedere accanto a Lui. 

       Nel racconto è solo Gesù che agisce. A Gesù nessuno chiede nulla, è Lui che per primo si accorge e si preoccupa: “Dove potremo comprare il pane per loro”? Alla sua generosità corrisponde quella di un ragazzo: nessuno gli chiede nulla, ma lui mette tutto a disposizione. Diventa così modello del vero discepolo: ragazzo senza nome e senza volto, che dona ciò che ha per vivere, che con la sua generosità innesca la spirale prodigiosa della condivisione, vero miracolo. Né Filippo, né Andrea superano la prova: dimostrano di essere schiavi delle cose del mondo, pensando che siano solo a loro disposizione. Così anche oggi la società pensa che la sua forza sia nel denaro, ritenendo impossibile la condivisione. Gandhi afferma: “Nel mondo c’è pane sufficiente per la fame di tutti, ma insufficiente per l’avidità di pochi”. Il problema del nostro mondo non è la penuria di pane, ma la povertà di quel lievito che incalza e spinge a condividere. Per una misteriosa regola divina, quando il mio pane diventa nostro pane, accade il miracolo. La fame finisce non quando mangiamo a sazietà, ma quando condividiamo, fosse pure il poco che abbiamo, quando a vincere è la generosità.

      Gesù esulta per il coraggio di questo ragazzo, e così compie il miracolo. Con il suo gesto, si colloca sull’alone profetico di Eliseo, portandolo però alla sua pienezza, quando il pane sarà celebrazione della sua Pasqua e della vita della comunità credente. Più che chiamare questo miracolo, moltiplicazione dei pani, parliamo di distribuzione dei pani (“li distribuì…”): un pane che non finisce mentre lo distribuivano, che non viene a mancare; e mentre passa di mano in mano, resta in ogni mano. Come cristiani siamo chiamati a fornire al mondo questo lievito, che ci chiama a fare di tutto ciò che abbiamo, doni di amore agli altri. 

      “Prese i pani, rese grazie e li distribuì…”: tre verbi che ci ricollegano subito ad ogni celebrazione eucaristica, in modo però che tutta la nostra vita diventi sacramento: “prendere, rendere grazie, donare”. Noi non siamo i padroni delle cose. Se ci consideriamo tali, profaniamo le cose: l’aria, l’acqua, la terra, il pane … Tutto quello che incontriamo non è nostro, è vita che ci viene data in dono, che domanda cura (“niente deve andare perduto”) e condivisione. Impariamo ad accogliere e a benedire gli uomini, il pane, Dio, la bellezza, la vita e poi a condividere. Accoglienza, benedizione, condivisione saranno dentro di noi sorgenti di Vangelo e di felicità.

       Volevano farlo re. La folla è religiosa solo in apparenza: vuole Dio a sua disposizione, un fornitore di pane a buon mercato, uno che plachi tutte le fatiche, i pianti, le paure che popolano il cuore. Gesù ci guida però dalla fame di pane alla fame di Dio. Per questo il pane che distribuisce prefigura il dono del suo corpo, principio della nostra vita nuova. Vuole porre la sua vita nella nostra vita.

  • LA COMPASSIONE DI GESU’: SGUARDO D’AMORE

    LA COMPASSIONE DI GESU’: SGUARDO D’AMORE

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    LA COMPASSIONE DI GESU’: SGUARDO D’AMORE
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    Mc 6, 30-34.

    In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.

    Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.

    Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

    Gesù, pur avendo molte cose da fare, non ha fretta, trova il tempo di ritirarsi, solo, sul monte a pregare. Il ritmo della sua giornata non trascura il momento della solitudine, della preghiera, della comunicazione col Padre.

    I discepoli ritornano dal loro giro missionario: hanno sperimentato la potenza della Parola, ma anche la fatica e il rifiuto. Raccontano le opere prodigiose da loro compiute e quanto hanno insegnato, suscitando tanto entusiasmo. Gesù li invita al riposo, in un luogo solitario, in sua compagnia: quasi lo sguardo di una madre che accoglie la stanchezza, gli smarrimenti, la loro fatica. Invece di buttare i suoi discepoli dentro la fornace del mondo, li porta via con sé. C’è un tempo per agire e un tempo per ritemprare le forze e ritrovare i motivi nel fare. Così per noi: se vogliamo far bene tutte le cose, ogni tanto smettiamo di farle, stacchiamo e riposiamoci. 

    Gesù vuole bene ai suoi discepoli, non li vuole spremere, li vuole felici con tutti gli altri: riposatevi, prendete del tempo per vivere. Questo è importante anche per ciascuno di noi.  Accogliamo questo suggerimento:

    Prenditi tempo per pensare / perché questa è la vera forza dell’uomo

    Prenditi tempo per leggere / perché questa è la base della saggezza

    Prenditi tempo per pregare / perché questo è il maggior potere sulla terra

    Prenditi tempo per ridere / perché il riso è la musica dell’anima

    Prenditi tempo per donare / perché il giorno è troppo corto per essere egoista 

    Prenditi tempo per amare ed essere amato / perché questo è il privilegio dato da Dio

    Prenditi tempo per essere amabile / perché questo è il momento della felicità

    Prenditi tempo per vivere!

    Il mondo è un immenso dramma, e Gesù, invece di ributtare i suoi dentro i campi sterminati della missione che urge, li conduce nel deserto. Quasi a perdere tempo! In questo tempo in disparte, il Signore concede ciò che ha veramente promesso: “Ne scelse Dodici, perché stessero con Lui”. Stare con Gesù è l’esperienza fondamentale di ogni inviato. Solo dopo aver accolto la sua persona, prima ancora che il suo messaggio, li manderà a predicare. Stanno con Gesù per imparare da Lui il cuore di Dio. Poi si ritorna tra la folla, portando la bellezza del vero amore che Dio ha acceso.

    Sbarcando, vide molta folla ed ebbe compassione di loro. Gesù è preso da un dilemma fra la stanchezza degli amici e lo smarrimento della folla. Partito con un programma importante, ora è pronto a cambiarlo. Partiti per restare soli e riposare, i Dodici imparano ad essere a disposizione dell’uomo sempre. Non appartengono a se stessi, ma al dolore e all’ansia di luce della terra. Il popolo non può rimanere senza pastore. Gesù accoglie e ne soddisfa le esigenze.

    I discepoli imparano da Gesù a commuoversi. Il ricordo che porteranno con sé dalla riva del lago è lo sguardo di Gesù che si commuove. Per Lui, guardare e amare sono la stessa cosa. Questo tesoro anche noi siamo chiamati a salvare: il miracolo della compassione. Quanto più noi siamo feriti dalla vita, tanto più il cuore di Gesù segue le nostre tracce, lungo tutti i sentieri in cui ci smarriamo: non per rimproverarci, ma per parlare al nostro cuore. Gesù sa che nell’uomo non è il dolore che annulla la speranza, neppure il morire, ma l’essere senza conforto nel giorno del dolore.

    Gesù invita noi ad avere questo stesso sguardo di commozione e tenerezza, a non privare il mondo della nostra compassione, consapevoli che ciò che possiamo fare, è solo una goccia nell’oceano, ma è questa goccia che può dare significato a tutta la nostra vita.

  • I DISCEPOLI PARTONO FORTI DI UN AMICO E DI UNA PAROLA

    I DISCEPOLI PARTONO FORTI DI UN AMICO E DI UNA PAROLA

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    I DISCEPOLI PARTONO FORTI DI UN AMICO E DI UNA PAROLA
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    Mc 6, 7-13.

    In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.

    E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».

    Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

    E’ giunto il momento che anche i discepoli si mettano all’opera. Finora si sono limitati a seguire Gesù, a stare con Lui. Ora sono coscienti che la vita apostolica è fatta di successi e insuccessi, di accoglienza e di rifiuto. Questo è quanto capiterà lungo la storia anche alla comunità cristiana impegnata nell’annuncio.

    Marco ci fornisce i tratti essenziali della fisionomia del discepolo: che cosa deve fare, come presentarsi al mondo, come comportarsi quando si è accolti e quando si è rifiutati.

    A differenza della folla che ascolta e torna a casa, il discepolo rimane con Gesù, fa vita comune e itinerante con Gesù ed è inviato in missione. Il discepolo deve essere consapevole di essere inviato da Dio e non da una decisione propria, mandato per un progetto in cui come discepolo è coinvolto, ma di cui non è il regista.

    1. Cosa fare: predicare la conversione e operare prodigi. Viene messa in evidenza la pratica dell’Unzione degli infermi, radicata nell’attività degli stessi apostoli. “Ungevano con olio molti infermi”. Le mani dei discepoli sui malati annunciavano: Dio è già qui, è vicino col suo amore ad ogni persona, guarisce la vita.

    2. Come presentarsi: l’apostolo è povero, totalmente affidato alla provvidenza. Deve apparire come un bisognoso, perché risalti meglio il senso dell’annuncio. Solo se povero, il missionario garantisce la credibilità della sua predicazione. Contemporaneamente l’apostolo deve sapere con certezza che non gli mancherà niente.

    Prese a mandarli a due a due. Ogni volta che Dio chiama, ti mette in viaggio. Viene ad alzarti dalla vita installata, accende obiettivi nuovi, apre sentieri. A due a due e non ad uno ad uno. Il primo annuncio che i Dodici portano è senza parole, è l’andare insieme, l’uno a fianco dell’altro, unendo le forze.

    Ordinò loro di non prendere nient’altro che un bastone … Solo un bastone a sorreggere il passo e un amico a sorreggere il cuore. Un bastone per appoggiarvi la stanchezza, un amico per appoggiarvi il bisogno di comunione, per non sentirsi soli. Il primo annuncio dei Discepoli è senza parole: è la loro vita stessa, un evento di amicizia, un germe di comunità, la vittoria sulla solitudine. La povertà dei discepoli fa risaltare la potenza creativa dell’amore. Le cose, il denaro, i mezzi, lungo  i secoli hanno spento la creatività della chiesa. Il discepolo vive, dipendendo dal cielo e dagli altri, di pane condiviso e di fiducia.

    Il discepolo vive di fiducia in Dio che non fa mancare nulla e di fiducia negli uomini che apriranno le loro case. Il punto di approdo del discepolo è la casa: luogo dove la vita nasce ed è più vera. Il Vangelo deve essere significativo proprio lì, nella casa, deve parlare e guarire nei giorni delle lacrime e in quelli della festa: quando il figlio se ne va, quando l’anziano perde il senno o la salute …

    3. Come comportarsi quando si è accolti e quando si è rifiutati. E’ l’atmosfera drammatica della missione. Al rifiuto i discepoli non oppongono risentimenti, ma solo un po’ di polvere scossa dai sandali, per illuminare le persone in modo che si rendano conto del rifiuto del messaggio della salvezza. Al discepolo è affidato un compito, non garantito il successo. E non bisogna deprimersi per una sconfitta, per un rifiuto: c’è un’altra casa poco più avanti, un altro villaggio, un altro cuore. All’angolo di ogni strada germoglia l’infinito.

    Il discepolo non è solo un maestro, ma un testimone che, dalla parte della verità, della libertà e dell’amore, si impegna nella lotta contro il Male.

  • LO SCANDALO DI VEDERE DIO COME UNO DI NOI

    LO SCANDALO DI VEDERE DIO COME UNO DI NOI

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    LO SCANDALO DI VEDERE DIO COME UNO DI NOI
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    Mc 6, 1-6.

    In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.

    Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.

    Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.

    Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

    Bilancio di una missione. Dopo il rifiuto e la volontà di morte del potere religioso, l’entusiasmo delle folle è sempre in crescendo: accorrono a Gesù sempre più numerose persone, provenienti da ogni parte della Palestina. Lo seguono e lo aspettano ovunque; infine, mentre si reca da Giairo, lo seguono e lo pigiano da ogni parte. Ma cosa pensa tutta quella gente di Gesù? Il nostro brano ci presenta la reazione della gente all’agire e al rivelarsi di Gesù.

    L’episodio di Nazaret (sua patria: villaggio che sarebbe stato ignorato dalla storia, se lì non fossero vissuti Gesù, Maria e Giuseppe) prefigura il rifiuto dell’intero Israele. Gli ascoltatori passano dallo stupore iniziale allo scandalo. Lo stupore è un atteggiamento di partenza, l’atteggiamento di chi resta colpito e quindi costretto ad interrogarsi; ma è un atteggiamento neutrale che può sfociare sia nella fede, sia nell’incredulità.

    Cinque domande contengono lo scandalo della fede: da dove gli vengono queste cose… questa sapienza … questi prodigi? Però né la sapienza, né i miracoli fanno nascere la fede: è vero il contrario: è la fede che fa fiorire i miracoli. Gli abitanti di Nazaret passano dallo stupore al rifiuto. Chi è quest’uomo? Non è il carpentiere? E’ la normalità che contesta la profezia. Quest’uomo che conosciamo bene, la sua concreta fisionomia, le sue umili origini, il suo modo umile di apparire, non può essere Dio. E’ la sua umanità che impedisce di credere. Dio non può essere presente nelle vesti di un carpentiere, nella sua concreta fisionomia, nelle sue umili origini di un operaio senza cultura, senza studi. 

    Il rifiuto può trovare la sua origine, persino nel desiderio di difendere la grandezza di Dio. L’incredulità è nell’incapacità di riconoscere Dio nell’umiltà dell’uomo Gesù.

    Il popolo d’Israele ha sempre rifiutato i profeti di Dio: è un fatto scontato che anche Gesù sia rifiutato. E’ questo lo scandalo della fede: la forza della Parola di Dio si riveste di debolezza e di quotidiano, la potenza di Dio sta tutta nell’impotenza della croce. Con grande sorpresa si scopre una grande incredulità in chi si pensava credente. 

    Anche Gesù, deluso, si meraviglia dell’agire dei suoi compaesani, Però, subito, il Dio rifiutato non si arrende, si fa guarigione; l’amante respinto continua ad amare; l’amore non è stanco, è solo stupito, non nutre rancori, continua ad inviare segnali di vita. Qualsiasi sia l’atteggiamento del popolo (ascoltino o non ascoltino) Dio ha deciso di farsi compagnia del suo popolo. Dio, amore respinto, continua ad amare. Il Dio rifiutato si fa ancora guarigione. L’amore non è stanco, è solo stupito; non mostra rancore, continua ad inviare segnali di vita. 

    I discepoli, che stanno accompagnando Gesù, devono imparare dal Maestro come si vivono le situazioni di rifiuto. Gesù vede se stesso come il Servo di Dio, rifiutato dai suoi (Is 53,3…), come colui che ha faticato invano, che per nulla e invano ha consumato le sue forze. Ma già si intravede la nuova piccola famiglia, il segno della speranza.

  • GESÙ, IL SIGNORE DELLA VITA CHE PORTA SALVEZZA

    GESÙ, IL SIGNORE DELLA VITA CHE PORTA SALVEZZA

    Parrocchia di Fontane
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    GESÙ, IL SIGNORE DELLA VITA CHE PORTA SALVEZZA
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    Mc 5, 21-43.

    In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.

    Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.

    E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».

    Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.

    Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

    Il vangelo oggi ci sollecita ad esaminare la nostra fede. Chiamati da Gesù ad essere destinatari della salvezza, siamo invitati ad imparare a vivere di fede per essere salvi. Gesù si presenta come colui che salva una donna, e colui che vince la morte.

    Il racconto dei due miracoli, l’uno dentro l’altro, è intrecciato dal motivo della fede. I due protagonisti hanno sperimentato l’impossibilità di essere salvati dagli uomini: la loro fede però – di Giairo e dell’emorroissa non è ancora perfetta.

    Giairo, spinto da una grande necessità, si reca da Gesù e si presenta, lui capo della sinagoga, come uomo di fede: si getta ai piedi di Gesù in umile preghiera. Sua figlia sta per morire, ma Giairo crede  che Gesù la può salvare, impedendo alla morte di afferrarla. Per questo chiede a Gesù un gesto di benedizione più che sufficiente per trasmettere alla figlia quella forza che Gesù ha e che nessun altro possiede: la vita.

    Una donna si avvicina a Gesù, mentre sta andando alla casa di Giairo, circondato da grande folla. La donna con continue perdite di sangue, per la legge, è impura e rende impuro tutto ciò che tocca: cose o persone. Da qui il suo agire nascosto, ma anche la sua volontà di guarire. Tanta gente pigiava Gesù da ogni parte, ma solo quella donna “lo toccò”, mossa dalla sua fede. Non poteva presentarsi davanti a Gesù dicendo davanti a tutti chi era. Guai se l’avesse fatto! Era impura. L’esclusa scavalca la legge, perché crede in una forza più grande della legge.

    La donna guarita aveva però bisogno di essere guarita dalla sua paura. Il racconto passa così dall’emorroissa che va da Gesù, a Gesù che dialoga con l’emorroissa. Gesù si era accorto della fede della donna, ma la vedeva piena di paura per quanto aveva fatto e schiava della condanna della legge. Gesù la libera, dà pubblicità all’accaduto, la chiama “figlia”, ora fa parte della comunità di salvezza, purificata e libera da tutti i tabù della legge. Lei, l’esclusa dalla legge, ora è la figlia amata. Dio non bada al puro o all’impuro, ma alla fede. 

    Ora vediamo Gesù e Giairo. E’ ancora la fede al centro del racconto. “Tua figlia è morta”. Due parole sono ora a confronto: quella degli annunciatori di morte, per i quali non c’è nulla da fare contro la morte; e quella di Gesù: “continua a credere”. La fede è l’unico antidoto alla disperazione.

    “La bambina non è morta, ma dorme”. “E lo deridevano”.Le risa dei presenti dicono la loro non fede nella parola di Gesù. Dopo la commozione, Gesù cacciò tutti fuori di casa. Costoro restano fuori, con i loro flauti inutili, fuori dal miracolo, con tutto il loro realismo. La morte è evidente, ma l’evidenza della morte è un’illusione, perché Dio inonda di vita anche le strade della morte. Il cimitero – ricordiamolo – è la casa dei dormienti, è la casa di Giairo, dove i figli e le figlie di Dio non sono morti, ma dormono, in attesa della mano che li rialzerà. Gesù entrerà nella morte, perché là va ogni suo amato. Lo farà per essere con noi e come noi, perché possiamo essere con Lui e come Lui. Dio non ha creato la morte. Dio è il Dio dei vivi, non dei morti.

    “Gesù prende con sé”, crea la nuova comunità (padre e madre, i tre discepoli testimoni). Ricompone la cerchia degli affetti attorno alla bambina, perché ciò che vince la morte non è la vita, ma l’amore. Gesù, la vita, non sopporta i segni della morte. La morte cede la sua preda di fronte a Colui che è con il Padre, donatore di vita, e quindi salvatore. Dio non ha creato la morte. 

    “Talità kum: bambina alzati”. E’ solo la bambina che può risollevarsi. E lei si alza e si mette a camminare. Alzarsi e risvegliarsi. I verbi di ogni nostro mattino, della nostra piccola resurrezione quotidiana. Non era lecito per la Legge toccare un morto, Gesù ci insegna che bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle salvare. Gesù è la mano che ci prende per mano. La sua mano nella nostra mano, docilmente s’intreccia con le nostre vite, il suo respiro con il nostro, la sua forza con le nostre forze.

    I due miracoli dunque attirano l’attenzione sulla fede di chi li domanda. Non sono miracoli che danno la fede: non servono là dove c’è chiusura e ostinazione. Gesù non compie miracoli dove gli uomini hanno già deciso e pretendono di essere loro a stabilire le modalità dell’agire di Dio. Il miracolo è dono della libera iniziativa di Dio. Non è raro che siamo ciechi di fronte ai molti segni che Dio compie, non abbiamo il cuore aperto a decifrarli e il coraggio per deciderci, e allora continuiamo a pretendere altri miracoli. Non ci accorgiamo dei molti segni che Dio ha già seminato lungo la strada della storia e della nostra vita.

  • UN GRANELLO DI LUCE NEL BUIO DELLA PAURA

    UN GRANELLO DI LUCE NEL BUIO DELLA PAURA

    Parrocchia di Fontane
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    UN GRANELLO DI LUCE NEL BUIO DELLA PAURA
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    Mc 4,35-41

    In quel tempo, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.

    Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».

    Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

    E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

    Gesù ha un potere sovrano sulle forze della natura. E’ il primo di 4 miracoli del “libretto dei miracoli”. Gesù si presenta come dominatore della natura e della stessa morte. Lui solo può salvare. Guardando il modo di reagire dei discepoli e il comportamento della folla, anche noi siamo sollecitati a vagliare la nostra fede.

    Ci viene presentata una notte di tempesta e di paura sul lago, e Gesù che dorme.  Anche il nostro mondo è in piena tempesta, geme di dolore, e Dio sembra dormire. L’angoscia spesso ci porta a contestarlo: Non ti importa di noi? Perché dormi? Svegliati! Sembra di risentire il grido presente in tanti salmi, nel libretto di Giobbe … Poche esperienze sono umane come questa paura di morire e di vivere nell’abbandono.

    Le barche non sono state costruite per stare ormeggiate al sicuro nei porti. Era stato Gesù a comandare di prendere il largo. Improvvisamente gli apostoli si trovano in una situazione di nessuna speranza: la barca, ormai riempita dall’acqua, stava per affondare. Solo allora gli apostoli guardano a Gesù che dorme e, con tono di rimprovero, lo svegliano. Non conoscevano Gesù. Ancora non riuscivano a immaginarsi che insieme a Gesù non si può affondare.

    Perché avete così tanta paura? Dio non è altrove e non dorme. E’ già qui, sta nelle braccia forti degli uomini sui remi, sta nella presa sicura del timoniere, è nelle mani che svuotano l’acqua che allaga la barca. Dio è presente, ma a modo suo: vuole salvarci, ma lo fa chiedendoci di mettere in campo tutte le nostre capacità. Non interviene al nostro posto, ma insieme a noi, non ci esenta dalla traversata, ma ci accompagna nell’oscurità. Non ci custodisce dalla paura, ma nella paura. Come Il Padre non ha salvato Gesù dalla croce, ma nella croce.

    Noi  vorremmo che il Signore gridasse subito all’uragano: “Taci” e alle onde “Calmatevi” e alle nostre angosce: siano finite. Vorremmo essere esentati dalla lotta, invece Dio risponde chiamandoci alla perseveranza, moltiplicandoci le energie. La sua risposta è tanta forza quanta ce ne serve per il primo colpo di remo. E ad ogni colpo Lui la rinnoverà. Per questo ci invita alla fede: molto più dei passeri e dei gigli del campo noi siamo nei pensieri di Dio che conta i nostri capelli e tutte le paure che portiamo nel cuore. Lui è vicino e fa argine alle nostre paure. Lo troveremo nei riflessi più profondi delle nostre lacrime.

    Dopo la calma, gli apostoli appaiono più spaventati di prima, e sentono Gesù come un mistero. Ecco la loro domanda: Chi è costui? Nasce dalla meraviglia di fronte alla potenza di Gesù. Gesù li aveva provocati a sua volta con una domanda: “Perché siete così paurosi”? La fede matura sa rendere le persone tranquille anche nelle difficoltà.

    Si può essere persone di poca fede in due modi: quando non si ha il coraggio di lasciare tutto per seguire Gesù; e c’è poca fede anche quando, avendo lasciato tutto per Gesù, pretendiamo una continua presenza chiara del Signore, consolante, e accompagnata da continue verifiche. Questa è una fede ancora immatura, perché confonde il “silenzio di Dio” con la sua assenza. Porta ad un agire poco coraggioso, incapace di scelte nuove, rischiose: scelte dettate dalla cautela del buon senso, non di chi si affida alla potenza di Dio. Il vero discepolo si sente al sicuro in compagnia del Signore, anche quando le difficoltà sono grandi e il Signore sembra dormire. Gesù constata la situazione di fede dei discepoli, e capisce che c’è un lungo cammino per educarli alla vera fede.

    Nel Gesù che dorme tranquillo sul cuscino c’è certamente una allusione a Giona che dormiva nella stiva della nave durante una furiosa tempesta. Quando fu svegliato e gettato in mare, ritornò la calma e tutti furono salvi. La salvezza non viene forse a noi perché Gesù è morto ed è stato gettato sotto terra? Non dobbiamo dimenticare che Dio Padre ci salva per mezzo della morte e resurrezione del suo Figlio, Gesù.

  • DIO, SEMINATORE CHE NON SI STANCA MAI DI NOI

    DIO, SEMINATORE CHE NON SI STANCA MAI DI NOI

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    DIO, SEMINATORE CHE NON SI STANCA MAI DI NOI
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    Mc 4,26-34

    In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

    Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».

    Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

    Le parabole sono raccontate da Gesù in modo che gli ascoltatori cambino il loro modo di pensare. Contengono infatti un messaggio che corregge ciò che tutti pensano o sono portati a pensare e annuncia una novità apportata da Gesù non a livello di idee, ma come qualcosa che cambia il modo di vivere.

    Gesù, narratore di parabole, sceglie sempre parole di casa, di orto, di lago, di strada. Racconta storie di vita e le fa diventare storie di Dio. Così il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nel terreno. L’infinito di Dio raccontato da un minuscolo seme, il futuro nella freschezza di un germoglio di senape.

    Le parole antitetiche “dormire – alzarsi, notte – giorno fanno percepire la lunghezza dell’attesa. Il contadino sa che dopo aver seminato il seme nella terra, non può intervenire, perché non sa come il tutto avvenga. E la terra fa da sé, con calma, secondo le sue leggi. La crescita non dipende dal contadino. Il racconto fa passare, diluite nel tempo, quasi al rallentatore, le varie fasi del crescere. Ma la sua attesa non è certo inattiva, è soprattutto un essere  “subito” pronto per il tempo della mietitura.  Il Signore ci invita a non avere  nessuna ansia pastorale, ma solo sollecitudine e attesa.

    Nel Regno accade ciò che succede nella vita profonda di ogni essere. Dio è il seminatore infaticato della nostra terra, continuamente immette in noi e nel cosmo le sue energie in forme germinali: il nostro compito è portarle a maturazione. Siamo un pugno di terra in cui Dio ha deposto i suoi germi vitali. Nessuno ne è privo, nessuno è vuoto, perché la mano di Dio continua a creare. 

    Che dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Gesù sottolinea un miracolo infinito di cui non ci stupiamo più: alla sera vedi un bocciolo, il giorno dopo si è aperto un fiore. Senza alcun intervento esterno. La fede è credere che l’intera creazione, il bene crescono e fioriscono per una misteriosa forza interna che è da Dio. Nonostante le nostre resistenze e distorsioni, nel mondo e nel cuore, il seme di Dio germoglia e si arrampica verso la luce.

    Il terreno poi produce spontaneamente. Non fatica né il seme né il terreno. Così la lucerna quando è accesa, così il sale, per dare sapore ai piatti. E’ la legge della vita: per stare bene, anche l’uomo deve dare. Quando è maturo il frutto si dà, si consegna. Così l’uomo è maturo quando, come  effetto di una vita armoniosa, è pronto a donarsi, a consegnarsi, a diventare anche lui pezzo di pane buono per la fame di qualcuno.

     C’è una meravigliosa dinamica di crescita:

    Dio ama racchiudere il grande nel piccolo,

    l’universo nell’atomo, l’albero nel seme,

    l’uomo nell’embrione, la farfalla nel bruco,

    l’eternità nell’attimo, l’amore in un cuore,

    se stesso in noi.

    La seconda parabola sottolinea la sproporzione: sembra impossibile che da un seme così minuscolo, granello di senapa, possa derivare un albero tanto rigoglioso: anche qui c’è da stupirsi, da meravigliarsi! Proprio ciò che ai nostri occhi è piccolo, può avere una forza impensabile. La Parola di Dio può apparire fragile, debole, eppure ha una forza di fecondità incredibile.

    Gesù è sempre ottimista. Guarda avanti e vive di certezze, e le vuole infondere in noi. Egli si sente come un piccolo seme tra gli uomini, un seme seminato dal Padre; ma sa già che dopo essere andato sottoterra germoglierà e non rimarrà solo. Le immagini di grandezza non sono per l’oggi, ma per il futuro lontano. Però è certo che un giorno il Regno apparirà in tutta la sua grandezza come potenza che salva.

    Noi non salveremo il mondo. Ma, dice Gesù, un altro è il vostro compito: gli uccelli verranno e vi faranno il nido. All’ombra della nostra vita verranno per riprendere fiato, trovare ristoro, fare il nido. Se abbiamo aiutato anche una sola persona a stare un po’ meglio, la nostra vita è realizzata. Non dimentichiamo che Dio sceglie i mezzi poveri: il suo Regno cresce per la misteriosa forza segreta delle cose buone, per l’energia propria della bellezza, della tenerezza, della verità, della bontà.

    Il seme ci invita ad avere occhi profondi e a compiere i gesti propri di Dio. Mentre il nemico semina morte, noi come contadini pazienti e intelligenti, contadini del Regno dei cieli, seminiamo grano buono: semi di pace, giustizia, coraggio, fiducia. Lo facciamo scommettendo sulla forza della prima luce dell’alba, che appare minoritaria, eppure è vincente.

    Dio è all’opera in seno alla storia insieme a noi, in silenzio e con piccole cose.

  • L’EUCARESTIA CI TRASFORMA: IN QUEL PANE L’AMORE CERCA CASA

    L’EUCARESTIA CI TRASFORMA: IN QUEL PANE L’AMORE CERCA CASA

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    L’EUCARESTIA CI TRASFORMA: IN QUEL PANE L’AMORE CERCA CASA
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    Mc 14,12-16.22-26

    Il primo giorno degli àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».

    Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».

    I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

    Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

    Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

    Da molti anni facciamo la comunione, spesso camminando distratti verso l‘altare. Eppure Cristo non si nega: Dio ci cerca sempre. L’amore cerca casa. La comunione, più che un nostro bisogno, è un bisogno di Dio. Ad ogni Eucarestia, ad ogni comunione, per un istante almeno ci affacciamo su questo amore di Dio che ci cerca. Dio in cammino verso di noi, che entra in noi, che in noi trova casa. Neanche Dio può stare solo. Facendo la Comunione siamo colmi di Dio. Ogni volta facciamo fatica a trovare parole e finiamo per dedicargli il silenzio. Quello che sembra incredibile è che Dio faccia un patto di sangue proprio con noi. Noi che gli andiamo bene così come siamo, anche se spesso siamo un intreccio di ombre e di paure. Non abbiamo doni da offrire, siamo persone con una storia accidentata, abbiamo bisogno di cure, con molti deserti e qualche oasi. Noi non dobbiamo fare altro che accoglierlo, dire di “sì” al suo progetto di fare comunione con noi.

    Marco, nel raccontarci come Gesù ha istituito l’Eucarestia, ci dice come la comunità credente, fin dall’inizio, la celebrava. La celebrazione avveniva in una casa, nella semplicità: è un pasto comunitario, per fare comunione tra fratelli. L’Eucarestia, la “Cena del Signore”, dev’essere preparata, non improvvisata. Lo esige Gesù. I due discepoli, incaricati da Gesù, preparano tutto per la celebrazione: l’agnello, il pane, il vino, le erbe amare per ricordare l’uscita dalla schiavitù dell’Egitto. Giunta la sera, Gesù si riunisce a mensa con i suoi discepoli. Nel racconto però la Pasqua ebraica è totalmente dimenticata, e la cena ebraica diventa la “Cena del Signore”. Alla luce di Cristo risorto, i discepoli comprendono che Gesù è il vero e definitivo agnello pasquale e sanno di aver celebrato in anticipo la vera e definitiva Pasqua, dando inizio a quel passaggio che si concluderà nel Regno di Dio. La Pasqua ebraica faceva memoria di una salvezza temporale, l’Eucarestia è memoria della definitiva salvezza che si è compiuta in Gesù.

    Marco colloca il gesto dell’Eucarestia in un contesto di tradimento (Giuda) e di abbandono (rinnegamento di Pietro e abbandono dei discepoli). In questo stridente contrasto fra il gesto di Gesù e il tradimento degli uomini, la comunità ha colto la grandezza dell’amore di Cristo, la sua gratuità. La comunità è innanzitutto invitata a non scandalizzarsi allorché scoprirà al proprio interno il tradimento e il peccato, a non dire: questa non è più la Chiesa amata da Dio. Contemporaneamente la comunità non deve cullarsi nelle false sicurezze, presumere di sé come faceva Pietro: il peccato è sempre possibile, ed è male fidarsi delle proprie forze. Nonostante la divisione, la fede ci dice che l’amore ostinato di Cristo ci salva.

    “Prendete”. Il verbo è preciso e nitido come un ordine: Gesù non chiede agli Apostoli di adorare, contemplare, venerare quel Pane; dice molto di più: voglio stare nelle tue mani come dono, nella tua bocca come pane, nell’intimo tuo come sangue: prendere, stringere, fare proprio il suo corpo che, come il pane che mangiamo, si fa cellula del nostro corpo, respiro, gesto, pensiero. Si trasforma in noi e ci trasforma. Ci invita a prenderlo in modo che risuoni tutto il bisogno di Dio di realizzare in noi una comunione senza ostacoli, senza paure, senza confini. Dio in noi: il nostro cuore lo assorbe, lui assorbe il nostro cuore e diventiamo una cosa sola.

    “Ecco il mio corpo”, non la mia mente, la mia volontà, la mia divinità, ma semplicemente il corpo: il sublime dentro il dimesso, lo splendore dentro l‘argilla, il forte dentro il debole. Questo è Gesù che vuole entrare in comunione con noi, che si dona a noi, che vuole fare di noi la sua comunità. Gesù non ci ha portato solo la salvezza, ma la redenzione. Non ci ha tirati solo fuori dalle acque che ci sommergevano, ma ha trasformato la nostra debolezza in forza, la maledizione in benedizione, il tradimento di Pietro in atto d’amore, la veste di lutto in abito di gioia, la carne in casa di Dio. Ha riconosciuto che i frutti della terra sono doni di Dio, ha invocato su di essi la benedizione e così ha unito cielo e terra. Il pane e il vino rendono così presente per noi il sacrificio di Cristo.

    Nel suo corpo Gesù ci dà tutto ciò che unisce una persona alle altre. Nel suo corpo ci dà una storia: mangiatoia, strade, lago, croce, sepolcro vuoto…, ci dà Dio che si fa uomo in ogni uomo. Nel sangue ci dà la fedeltà fino all’estremo, il rosso della passione, il centro che pulsa fino ai margini. Vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo e perenne della vita, che nel nostro cuore metta radici il suo coraggio, e quel miracolo che è il dono di sé. E’ il sacrificio dell’alleanza, che richiede che i membri dell’alleanza entrino in comunione tra di loro e con Dio, mangiando la vittima dell’alleanza.

    Gesù neppure il suo corpo ha tenuto per sé, neppure il sangue ha conservato: legge suprema dell’esistenza è il dono di sé, unico modo perché la storia sia, e sia amica. Norma di vita è donare la vita. Così è il mondo di Dio. Dalla prima comunione (quella di Dio con noi) scaturisce la seconda (quella fra noi). La vita di Gesù (una vita in dono per tutti, nonostante il rifiuto) definisce la nostra vita, la maniera autentica di seguirlo. La prima finalità dell’Eucarestia è proprio quella di unire i fratelli tra di loro, con Gesù e con Dio. Questo continua a fare ancora oggi il Signore, che è sempre nella sua comunità. Egli si rende presente a noi e se noi ci rendiamo presenti a Lui, viviamo il “ne bevvero tutti” dell’Ultima Cena.