Categoria: Ascolto della Parola

  • CHE COSA – CHI CERCHIAMO – Gv 1,35-42

    Parrocchia di Fontane
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    CHE COSA – CHI CERCHIAMO – Gv 1,35-42
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    Vangelo

    Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». 37E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: «Che cercate?». Gli risposero: «Rabbì (che significa maestro), dove abiti?». 39Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
    40Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. 41Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)» 42e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)».

    Commento

    Siamo al terzo giorno della missione di Giovanni, testimone della Luce, che gioisce nel vedere due suoi discepoli seguire Gesù: è la gioia di chi si accorge di aver compiuto la sua missione. Potessimo anche noi avere gli occhi di Giovanni, capaci di scorgere Gesù che viene sempre più vicino a noi, in cerca di noi. 

    Giovanni condensa la missione di Gesù nelle parole: “Ecco l’agnello di Dio”. Parole che sentiamo riecheggiare in ogni Eucarestia verso di noi, che siamo il piccolo gregge di Cristo. Gesù è l’ultima vittima, perché non ci siano più vittime. L’ultimo ucciso innocente, perché nessuno sia più ucciso. Ecco la morte di Dio, perché non ci sia più morte.

    Che cosa cercate?” Sono le prime parole che Gesù rivolge ai due discepoli.

    Cercare: verbo che costituisce il filo rosso di ogni esistenza umana. Espressione che contrassegna tutti e quattro i vangeli. Eccone alcune esemplificazioni:

    • Erode vuole cercare il bambino per ucciderlo.
    • Tuo padre e io ti cercavamo in gran pena.
    • Tutti ti cercano.
    • I farisei cercavano un segno dal cielo.
    • Il regno dei cieli è simile ad un mercante che cerca.
    • Cercate il regno del Padre….

    Le espressioni più significative le troviamo in Giovanni, all’inizio e alla conclusione del Vangelo:

    • Gesù, voltatosi disse loro: “che cosa cercate?”. Siamo all’inizio della predicazione di Gesù.
    • Alle guardie, con la presenza anche di Giuda, Gesù dice: “Chi cercate?”.
    • A Maria Maddalena, Gesù risorto dice: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”.

    Il vangelo ci racconta questa ricerca di Gesù, nient’altro che questo, dalla sua nascita alla sua resurrezione. Osservando bene, ci accorgiamo che la domanda ha una significativa variazione, da “che cosa  cercate?” a “chi cercate?“. Ciò che cambia non è solo l’oggetto, ma anche la persona: dal plurale al singolare. Gesù non risponde direttamente, ma invita ad un “dove” in cui collocare la propria vita. 

    Dove dimori?” E’ la risposta più giusta: vogliamo conoscerti e rimanere con te:”Venite” e “vedrete”. Si apre un cammino lungo. La ricerca non è mai finita. Egli si manifesterà mentre progredisce la nostra storia, e noi conosciamo Gesù maestro che ci accompagna. Correttezza della sequela è porsi sulla strada giusta e percorrerla dovunque essa conduca. L’incontro avviene sempre in una esperienza diretta e personale. Non si incontra Dio per sentito dire. Dobbiamo sederci ai suoi piedi, ascoltare le parole che fanno vivere, come Maria di Betania. Si fermarono fino a sera: anche noi lo incontreremo solo se ci fermiamo, se prenderemo del tempo per l’ascolto di quelle domande  che fanno viva finalmente la vita. Cercare, dimorare, venire, vedere, piangere è il cammino di tutta la vita in un dialogo che non ha più bisogno di tante parole.

    Ricordiamo che la primissima domanda è: “Che cosa cercate?”. Prima di concentrarsi su una persona, su Gesù stesso, la ricerca deve fermarsi su: cosa ci brucia nel cuore, cosa attendiamo, cosa desideriamo, per che cosa vale la pena di vivere e di morire? Socrate diceva. “Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta dall’uomo”.

    Il che cosa però non basta mai, ha necessità di un volto, che però va sempre ri-motivato, ri-cercato, ri-compreso, attraverso la vita, di un senso mai definitivo, quando lo si percorre insieme. Non basta dire di voler seguire Gesù, occorre anche comprendere quale Gesù stiamo seguendo. E’ il Gesù che ci aspettiamo, quello che assicura? O il Gesù dei Vangeli? Il Gesù dei Vangeli spiazza costantemente quelli che lo seguono, ponendo domande e dando risposte che lo collocano sempre là dove non lo si aspetterebbe. Occorre allora restare con Gesù, dimorare dove Lui dimora. Come ogni rapporto di amore, bisogna continuamente cercarLo e interrogarsi su cosa ci spinge a cercarlo. Lo si può cercare solo per i vantaggi temporali, per riuscire in un affare, difficilmente si cerca Gesù per Gesù. Bisogna cercarlo dove Lui si lascia cercare e trovare.

    Ricordiamoci che dobbiamo lasciarci cercare da Lui, in un dialogo infinito. Le due domande allora: “cosa cercate e chi cerchi” sono come due punti di domanda piantati nel nostro cuore di cercatori che non si arrendono mai. Rientriamo in noi stessi e chiediamoci: cosa desidero di più dalla vita? Che cosa mi manca: salute, denaro, speranza, tempo per vivere, amore, senso della vita, opportunità per dare il meglio di me …? Il Vangelo ci dice: beati gli insoddisfatti perché saranno cercatori di tesori, mercanti di perle. In questa maniera Gesù ci conduce dal superficiale all’essenziale. E là dove nascono i sogni partirà il nostro cammino che ci porterà a scoprire il volto di Gesù e a incontrarlo. Il desiderio di conoscere Gesù nasce da una testimonianza, ma non si incontra Dio per sentito dire.

  • BATTESIMO, NASCERE DI NUOVO E CON UN Dna DIVINO – Mc 1,7-11

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    BATTESIMO, NASCERE DI NUOVO E CON UN Dna DIVINO – Mc 1,7-11
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    Vangelo

    7e predicava: «Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non son degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. 8Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo». 9In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. 10E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. 11E si sentì una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto».

    Commento

    Il messaggero Giovanni precede Gesù, il Signore. Lui è voce. Bisogna convertirsi, cambiare mentalità, farsi battezzare per aprirsi al perdono di Dio. Giovanni prepara il popolo ai tempi dello Spirito, che iniziano con Gesù di Nazaret, l’uomo depositario dello Spirito.

    Questo brano che ricorda il battesimo di Gesù, si apre con due affermazioni di Giovanni Battista: “dopo di me, viene Colui che è più forte di me: io vi battezzo nell’acqua, ma Egli vi battezzerà in Spirito Santo”. La predicazione del Battista è tutta racchiusa nella funzione di attirare l’attenzione su Gesù.

    Un racconto d’acque, come tante scene di salvezza, nella bibbia, come la stessa origine del mondo: in principio lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque, una grande colomba in cova su di un mare gonfio di vita inespressa. Come il creato, anche l’esistenza ha inizio nell’acqua del grembo materno.

    Gesù si fece battezzare: Gesù, l’uomo di Nazaret, compare in scena la prima volta, uomo dalle umili origini, pienamente solidale con quella schiera di peccatori che vuole romperla con il passato, per convertirsi e aprirsi a Dio. Gesù si abbassa, si umilia e chiede il battesimo. La vita di Gesù è concepita come una via di solidarietà nei confronti degli uomini peccatori. Non si estranea dalla storia del suo popolo, ma solidarizza con esso e la assume. La logica della solidarietà e condivisione guiderà tutta la sua esistenza fino alla sua morte “in riscatto per molti”. 

    Ma alla umiliazione fa seguito l’esaltazione: Lui è l’amato Figlio di Dio. “Mentre saliva… lo Spirito che discendeva”. Il cielo si lacerò, si squarciò, si spezzò. Il sogno dei profeti si realizza. Da questo cielo aperto viene come colomba, la vita stessa di Dio, il suo respiro, con la forza trasformatrice della vita, che d’ora in avanti dovrà essere vissuta facendo del bene a tutti, accendendo, aprendo spazi di cielo sereno. Il cielo e la terra si ricongiungono attraverso i cieli squarciati. Il battesimo di Giovanni non dava però lo Spirito. Ma ora è presente Colui che possiede lo Spirito, Gesù di Nazaret. Mentre Gesù sale dall’acqua, lo Spirito scende dai cieli squarciati. In Gesù di Nazaret ha inizio il definitivo irrompere di Dio nella storia: Gesù è il consacrato a Dio e di Dio, ed è pure l’inviato.

    Tu sei il Figlio mio: non un adottato: è Figlio nel senso più vero della parola, Al Giordano è consacrato Re, Messia. “Colui che amo”: (Gn 22,2: Dio ad Abramo dice: “Prendi il figlio tuo, l’unico che ami e va”). Nel contesto di Isacco non possiamo non guardare verso la passione di Gesù. Gesù, l’inviato del Padre, è colui che ha di fronte a sé un destino di morte. (Is 42,1: ”Tu sei il mio servo che io sostengo, il mio eletto, colui in cui mi compiaccio”. “Io ti ho scelto per mandarti”). È il Re-Messia-Servo. La gente si era presentata per ricevere il perdono dei peccati; sarà Gesù-Servo che l’otterrà, mediante il suo sacrificio.

    Anche per noi, l’immersione nell’acqua del battesimo ha dato inizio ad una vita nuova. Anche nel nostro Battesimo Dio ha sussurrato: “tu sei mio figlio, quello che io amo”. Pure noi abbiamo ricevuto come nome “Figlio”. È la calda voce del Padre che ci chiama suoi figli prediletti. Nelle parole: ”in te ho posto il mio compiacimento”, accogliamo la dichiarazione impegnativa di Dio su di noi: prima che tu faccia qualsiasi cosa, così come sei, tu mi piaci e mi dai gioia. Prima che io risponda, prima che io sia buono, senz’altro motivo che la sua gratuità. Dio ripete ad ognuno: tu mi fai felice. Questa è la “grazia di Dio”. Siamo figli amati, abbiamo doppie radici piantate nel profondo della terra e nel profondo del cielo. Il battesimo racconta poi ciò che manca a Dio: di essere amore riamato. Riamato da liberi, splendidi, meschini, magnifici, traditori figli che noi siamo. 

    Dal cielo aperto viene anche per noi come colomba, la vita di Dio. Si posa su di noi, ci avvolge, entra in noi, a poco a poco ci modella, trasforma i nostri pensieri, affetti, speranze. Secondo la legge dolce, esigente, rasserenante del vero amore.  

    Immerso in Dio nel battesimo: quanto è accaduto un giorno, continua ad accadere in ogni nostro giorno: in questo momento, in ognuno dei nostri momenti siamo immersi in Dio come dentro un nostro ambiente vitale, una sorgente che non viene meno, un grembo che nutre, riscalda protegge e fa nascere. C’è un battesimo esistenziale che riceviamo quotidianamente, nel quale continuamente nasciamo e siamo generati da Dio: “chi ama è generato da Dio e conosce Dio”: al presente, adesso. Amare fa nascere, mette in moto il motore della vita. Battezzati, immersi nell’amore, nasciamo nuovi, diversi, nasciamo con il respiro del cielo.

    Il nostro brano ci racconta anche i simboli della Trinità: una voce, un figlio, una colomba. Racconta Gesù, il Figlio che si fa fratello, che si immerge nel fiume dell’umanità, che sempre scorre sul confine rischioso tra deserto e terra promessa. Gesù lo fa, perché ogni fratello possa diventare figlio. Immersi in Dio con il battesimo, viviamo due vite, quella nostra e quella di Dio. Ormai, indissolubile da noi è Dio, e noi, non più separati da Lui.

  • IL DONO PIÙ PREZIOSO DEI MAGI? IL LORO STESSO VIAGGIO – Mt 2,1-12

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    IL DONO PIÙ PREZIOSO DEI MAGI? IL LORO STESSO VIAGGIO – Mt 2,1-12
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    Vangelo

    1Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: 2«Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». 3All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. 4Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. 5Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:

    6E tu, Betlemme, terra di Giuda,
    non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda:
    da te uscirà infatti un capo
    che pascerà il mio popolo, Israele.

    7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme esortandoli: «Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».

    9Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

    Commento

    A Natale abbiamo celebrato Dio che cerca l’uomo. All’Epifania celebriamo l’uomo che cerca Dio. Nelle celebrazioni natalizie è tutto un germinare di segni: come segno Maria ha un angelo, Giuseppe un sogno, i pastori un Bambino nella mangiatoia, ai Magi basta una stella. Oggi a noi è dato il segno dei Magi: il loro cammino, la pazienza di ricominciare. Guardiamo più in profondità questo segno.

    L’Epifania è la festa di Gesù re di tutti, perché tutti sono invitati ad andare da Lui, a incontrarLo. Anche i sacerdoti e gli scribi di Gerusalemme hanno avuto il dono del segno; perfino lo stesso Erode, ha avuto il segno di questi viaggiatori che venivano dall’Oriente, a cercare un altro Re. C’è dunque un Dio anche dei “lontani”, e tutti hanno la loro strada. Anche per noi e per tutti oggi sono presenti dei segni, spesso piccoli, sommessi, e spesso sono persone che sono epifania (manifestazione) di bontà, incarnazioni viventi del Vangelo, che hanno occhi e parole come stelle.

    I Magi erano dei saggi astrologi alla corte di re orientali. Erano importanti, e ufficiali interpreti di eventi straordinari o di fenomeni della natura. Persone in continua ricerca. Il Vangelo ci racconta questa ricerca di Dio come un viaggio, al ritmo della carovana, come il camminare di una piccola comunità

    • Il primo passo: alzare il capo e guardare in alto.
    • Il secondo: mettersi in strada dietro una stella che cammina. È la continua ricerca da vivere insieme: trovare Cristo, vuol dire cercarlo ancora.
    • Il terzo: non temere gli errori. IL cammino dei Magi è pieno di errori: ad un certo punto perdono la stella; vanno nella grande città, anziché il piccolo villaggio; chiedono del bambino ad un assassino di bambini; cercano una reggia e troveranno una povera casa. Ma hanno l’infinita pazienza di ricominciare.
    • Quarto: adorare e donare. Il dono più prezioso dei Magi è il loro stesso viaggio, lungo quasi due anni.

    I magi, i pagani, ci vengono presentati come portatori del lieto annuncio: la nascita del re dei Giudei. Si accorgono subito che il loro annuncio non è motivo di gioia per Gerusalemme e soprattutto per il suo re. Sorprende che gli esperti (Gerusalemme) non accolgano la Parola scritta come vero annuncio rivolto a loro in quel momento. La Parola è solo oggetto di studio, ricordo di una storia passata. Erode vuole solo informarsi. Gerusalemme non la accoglie come un messaggio divino che si sta compiendo nel loro oggi. I Magi invece si lasciano guidare dalla Scrittura e così possono raggiungere il Bambino. Guidati dalla Scrittura hanno subito la ri-conferma: risplende di nuovo la stella che li guida sul giusto cammino. Una stella misteriosa che li guida anche di giorno, sembra quasi che li trascini per mano. La stella diventa un messaggero divino che li porta alla casa del Bambino.

    Adorano il Bambino, Il Dio con noi: un Dio piccolo piccolo tra noi. Di Lui non puoi aver paura, e da un bambino che ami non ce la fai ad allontanarti. In quel Bambino, incapace di parlare, presentato da Maria, riconoscono il Figlio di Dio: la sua regalità potente e universale presente nella debolezza umana. Così l’erede di Davide riceve la visita e l’onore come re: oro, incenso e mirra. È colui che raccoglierà le pecore disperse della casa d’Israele, per la quale è stato mandato.

    Il ritorno a casa è strada nuova, perché hanno trovato e reso omaggio a Colui che cercavano. L’incontro ormai li ha trasformati, li ha fatti nuovi. Ora nella fede obbediscono a Dio.

    Oggi siamo invitati anche tutti noi a cercare con sincerità, a metterci in cammino senza indugio. Guardiamo dentro di noi: stiamo attenti perché possiamo essere misteriosamente un Erode: uccisori di sogni ancora in fasce. Questo Erode può essere dentro di noi, quando disprezziamo e distruggiamo sogni e speranze.

  • LA VERTIGINE DI BETLEMME, L’ONNIPOTENTE IN UN NEONATO – Lc 2,1-21

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    LA VERTIGINE DI BETLEMME, L’ONNIPOTENTE IN UN NEONATO – Lc 2,1-21
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    Quella notte, il senso della storia ha imboccato una nuova direzione: Dio verso l’uomo. Il grande verso il piccolo, dal cielo verso il basso, da una città verso una grotta, dal tempio ad un campo di pastori. La storia ricomincia dagli ultimi.

    Mentre a Roma si decidono le sorti del mondo e le legioni mantengono la pace con la spada e la sottomissione dei vinti, nasce un bambino che muta la direzione della storia: la pace è un dono per tutti gli uomini che Dio ama. La nuova capitale del mondo è Betlemme. Dio ritorna alle sorgenti per riprendere definitivamente la storia della salvezza, perché così ha promesso.

    Si parte da un orizzonte ampio: si parla di tutta la terra e del suo dominatore, Cesare Augusto. Il signore della terra e quello del cielo si oppongono: il mondo con le sue oppressioni e il mondo di Dio con la sua pace. Cesare Augusto fa sentire il suo potere mediante un decreto: recensire tutta la terra; strumento indispensabile per taglieggiare con esosi tributi i sudditi, anche quelli della Palestina. All’editto imperiale segue la sfilata ubbidiente dei sudditi, tra cui Giuseppe: uno che sa ubbidire e dare a Cesare quel che è di Cesare. Egli vive a Nazaret, ma la sua città era Betlemme, la città di Davide, essendo egli della casa e della famiglia di Davide. Emerge così che è nella linea di Giuseppe, nella linea maschile che nasce il Messia, quale figlio di Davide.

    Per loro non c’era posto nell’alloggio” Contempliamo il nostro Dio che giace nella mangiatoia. Natale è una festa drammatica. Dio entra nel mondo dal punto più basso, in fila con tutti gli ultimi, perché nessuna creatura sia più in basso, nessuno non raggiunto dal suo abbraccio che salva. A Natale il Figlio di Dio si presenta a noi in un neonato che non sa parlare, l’onnipotente è un bimbo capace solo di piangere. Si è fatto uomo per imparare a piangere. Dio comincia sempre così: nel silenzio e con piccole cose.

    Lo pose nella mangiatoia”. Maria legge quella greppia degli animali come una culla. Dio Padre fa il più grande atto di fede nell’umanità e affida il Figlio nelle mani di Maria, ha fede in lei. E Maria si prende cura del neonato, lo nutre di latte, di carezze, di sogni. Lo fa vivere con il suo abbraccio. Anche a noi, Dio Padre affida il compito di continuare l’incarnazione di Gesù nella storia: Dio vivrà sulla nostra terra solo se noi ci prenderemo cura di Lui, come una madre, ogni giorno. Vista la nostra  debole risposta preghiamo Gesù bambino, Dio incapace di fare del male, che vive soltanto se è amato, di insegnarci che non c’è altro senso per noi  nel vivere che diventare come Maria, prendendoci cura dei tanti “bambini Gesù”, che vivono accanto a noi. Il Padre, con un atto di fiducia, li affida a noi. 

    C’erano in quella regione alcuni pastori”. A mille anni di distanza, su quelle montagne dove il giovane Davide pascolava il gregge, ci sono ancora pastori, considerati incapaci di vivere nei dettagli la legge del Signore, e perciò disprezzati. Vengono avvolti dallo splendore della gloria del Signore e accolgono la rivelazione di Dio. Senza rivelazione è impossibile la fede. Dio parte da loro, gli ultimi, gli anonimi e dimenticati.

    Non temete”: Dio non deve fare paura mai! Se fa paura non è Dio, colui che bussa alla nostra vita.

    Vi annuncio una grande gioia”. Una felicità possibile a tutti: quindi un oggi di gioia per noi. La sorgente è “oggi è nato un Salvatore”. E’ Dio venuto a portare, anche a chi è pieno di difetti, il cromosoma divino nel respiro di ogni uomo: la vita stessa di Dio in noi. Tutti amati, buoni e meno buoni, amati per sempre. E’ un oggi, vero spartiacque della storia. Dio si è fatto uomo, perché l’uomo si faccia Dio. La nascita di Gesù vuole la mia nascita. 

    Il Natale riconsacra il nostro corpo e Dio, in Gesù, l’ha preso, amato, fatto suo. Così la nostra storia in qualche sua pagina è sacra. Gesù, il vasaio, si fa argilla di un vaso fragile e bellissimo. Non si può dire: qui finisce l’uomo, qui comincia Dio, perché Creatore e creatura ormai si sono abbracciati. Ed è per sempre!

    I pastori riferirono ciò che del Bambino era stato detto loro”. Agli abitanti di Betlemme raccontano quanto era avvenuto. Non ce la fanno a trattenere per sé la gioia e lo stupore, come non si può trattenere il respiro, ma ritornano cantando, e contagiano di sorrisi chi li incontra, dicendo a tutti: è nato l’Amore.

    Natale non è facile da capire, è una lenta conquista. Ci disorienta: per la nascita, quella nascita, che divenne nella notte un passare di voci che raccontavano una storia incredibile. E’ venuto il Messia, è avvolto in poche fasce, nella ruvida mangiatoia. Chi va a cercarlo nei palazzi non lo trova.

    La meraviglia del Natale sta nella totale semplicità del racconto della nascita di Gesù. Senza la rivelazione degli angeli non capiremmo che quel bambino deposto in una mangiatoia è il Signore. E senza il bambino deposto nella mangiatoia non capiremmo che la gloria del vero Dio è diversa dalla gloria dell’uomo. Riscopriamo lo stupore della fede. Lasciamoci incantare da quella mangiatoia che ci rivela il mistero di un Dio che sa di stelle e di latte, di infinito e di casa.

  • DALL’AMORE GRATUITO IL PIU’ BELLO DEI SÌ – Lc 1,26-38

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    DALL’AMORE GRATUITO IL PIU’ BELLO DEI SÌ – Lc 1,26-38
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    Il Vangelo di Luca sviluppa il racconto dell’annuncio a Maria come la zoomata di una cinepresa: parte dall’immensità dei cieli, restringe progressivamente lo sguardo fino ad un piccolo villaggio, poi ad una casa dove c’è una ragazza, occupata nelle sue faccende e nei suoi pensieri. L’angelo Gabriele vola dall’immensa spianata del tempio di Gerusalemme (Zaccaria), verso una casetta qualunque di povera gente, in una contrada sconosciuta. Dal sacerdote anziano nel suo pieno servizio, ad una ragazza vergine; dalla città di Dio, ad un paesino senza storia, in una borgata disprezzata della Galilea abitata da persone meticce. La nostra storia cristiana non inizia al tempio, ma in una casa. Ma qual’è il senso che l’evangelista ha voluto dare al racconto? 

    Il racconto mostra due fedeltà: La fedeltà di Dio che compie meraviglie, mantiene le promesse fatte a Davide (il dono della discendenza) e la fedeltà di Maria che accoglie la Parola di Dio con una disponibilità totale e definitiva (la risposta). E’ l’annuncio che Dio salva, Dio chiama e affida ad una libera creatura un compito nell’opera della salvezza. Tutta la Trinità: Padre e Figlio e Spirito Santo sono presenti nel portare la salvezza, e Maria che liberamente entra in questo agire di salvezza della Trinità.

       Il racconto è racchiuso da due espressioni: l’entrata dell’angelo nel luogo dov’è Maria, il suo allontanamento da essa. L’angelo Gabriele entrò da lei. E’ bello pensare che Dio ci sfiora, ci tocca nella nostra vita quotidiana, nella nostra casa.

     Il primo momento (28-29) dice quanto Dio ha operato in Maria: Il Signore è con te.

    Tre volte parla l’angelo: una parola di gioia, “kaire”; una contro la paura, “non temere”; un’ultima parola perché ci sia vita nuova, “lo Spirito verrà e sarai madre”. L’angelo propone le tre parole assolute: gioia, fine di ogni paura, e vita: “rallegrati”, “non temere”, “ecco verrà una vita”. L’invito alla gioia è motivato da quanto Dio ha già fatto e continua a fare in Maria. Ripercorrendo la sua storia, Maria è invitata a scoprire come mai Dio l’ha colmata di grazia: Dio la chiamava ad un compito ben difficile da eseguire, che superava le forze umane, quindi impossibile, se la persona è lasciata sola a se stessa. Dio però sarà sempre con lei, rendendola continuamente capace di assolvere alla sua missione: essere Madre del Messia, Madre-Vergine del Figlio di Dio. L’angelo, non solo a Maria, ma anche a tutti noi assicura che i segni dell’avvicinarsi di Dio sono questi: si moltiplica la gioia, la paura si dissolve, risplende la vita, nasce anche per noi la missione, che solo col continuo aiuto che ci viene assicurato, possiamo realizzare.

    Maria, chiamata per una missione, prima è invitata alla gioia. La prima parola dell’angelo è proprio un invito alla gioia, quella cosa buona e rara che tutti, tutti i giorni, cerchiamo. Apriti alla gioia, come una porta si apre al sole, perché Dio si avvicina e ti stringe in un abbraccio, viene e porta una promessa di felicità. Maria ascolta. Lo stupore, il turbamento di Maria di fronte al saluto, sottolineano una parola, che, dopo aver provocato una scoperta, constatazione dell’abbondanza di grazia presente, sollecita la ricerca di sapere come mai le era stata concessa. Anche ognuno di noi è  riempito di Dio, che si è chinato su di noi, si è innamorato di noi. Siamo certi che saremo amati per sempre da Lui. Il nostro nome nuovo davanti a Dio è: essere amati gratuitamente e per sempre, questo perché il  vero nome di Dio è Emmanuele, Dio con noi.  

    –  Nel secondo momento (30-34) l’angelo le spiega. Sarà madre, avrà un figlio, sarà il discendente di Davide, il Messia. Ma in che modo si realizzerà tutto questo, data la sua attuale situazione di verginità, il non aver avuto relazioni con un uomo. Maria domanda: come è possibile? Sta davanti a Dio con tutta la sua dignità umana, con la sua maturità di donna, con il suo bisogno di capire. Vergine-sposata: due termini che esprimono tensione e mettono in discussione la relazione Maria-Giuseppe. Prevarrà la condizione di vergine o quella di sposata? A prima vista sembrerebbe prevalere quella di sposata in quanto Giuseppe è detto discendente di Davide, e il Messia è un discendente di Davide. Giuseppe ha un peso nel racconto e non può essere disatteso, in quanto Maria che è promessa sposa con lui, ha dei doveri di sposa. Prima della totalità dell’assenso, ecco l’importanza della domanda.

    – Nel terzo momento (35-38) l’angelo le dice che non avrà relazioni con un uomo, ma tutto in lei sarà opera di Dio: sarà Madre, lei Vergine promessa sposa. Lo Spirito Santo, che è la potenza dell’altissimo agirà in lei, escludendo ogni intervento dell’uomo. La nube era un segno della presenza di Dio. Ora Maria, diventa il vero Tabernacolo, la vera Arca dell’Alleanza, il Santo dei Santi: in modo pieno in lei si realizza la presenza di Dio tra gli uomini.

    Maria crede a quanto le è stato detto, e nella sua risposta esprime la sua gioiosa fede. Eccomi: in Maria c’è un desiderio gioioso di collaborare (“serva”) a ciò che Dio vuole da lei: è la gioia dell’abbandono totale al volere divino. 

    La storia di Maria è anche la nostra storia. Dio chiama anche noi (pieni di grazia) ad essere strumenti di salvezza. Resi tempio della presenza di Dio: il dono ricevuto deve continuare a farsi dono. Come chiesa, siamo chiamati a continuare a far nascere Gesù nella vita di ogni persona. Dopo aver ascoltato e compreso, diciamo il nostro “eccomi”, portando nel mondo la vera gioia che vince tutte le paure.

  • CHIAMATI AD ESSERE TESTIMONI DI LUCE – Gv 1,6-8.19-28

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    CHIAMATI AD ESSERE TESTIMONI DI LUCE – Gv 1,6-8.19-28
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    “Venne un uomo…” Entriamo nella storia contemporanea dell’evangelista. Egli ci parla di Giovanni Battista che di poco precedette la missione di Gesù. Giovanni, figlio del sacerdote Zaccaria, ha lasciato il tempio e il ruolo, è tornato al Giordano e al deserto, là dove tutto ha avuto inizio, e il popolo lo segue alla ricerca di un nuovo inizio, di una identità perduta. Ed è proprio su questo che sacerdoti e leviti di Gerusalemme lo interrogano, lo incalzano per ben tre volte: chi sei? Sei Elia? Sei il profeta? Chi sei? Cosa dici di te stesso?

    L’evangelista però, del Battista, puntualizza il compito che Dio gli ha affidato. Nessuno dubitava che il Battista era un uomo mandato da Dio, ma discutevano sul compito affidatogli da Dio. Per la comunità cristiana, venne come testimone, per rendere testimonianza alla Luce, in quanto non era lui la Luce vera.

    Come ha esercitato la sua testimonianza? L’evangelista ne parla, presentando in tre giorni successivi la testimonianza su Gesù: Il primo giorno (19-28) dice che Giovanni è in relazione a Gesù; il secondo giorno (29-34) è presente Gesù, e allora Giovanni con molta chiarezza dice chi è Gesù; il terzo giorno (35-42) parla di Gesù ai suoi discepoli e due di loro passano dalla parte di Gesù.

    Tu, chi sei? Nel nostro brano (19-23) Giovanni, agli inviati dalle autorità giudaiche, risponde che Lui non è Il Cristo, il Messia atteso. Lui è solo una voce. Il vero testimone indica il Signore, Qualcuno che è più importante; ma subito si tira  da parte. Ha paura di rubare spazio al Signore. La nostra vera identità è Dio; il nostro segreto è in sorgenti d’acqua che sono prima di noi. La vita scorre in noi, come l’acqua nel letto di un ruscello. L’uomo non è quell’acqua, ma senza di essa non è più. Così noi, senza Dio.

    A questo punto entrano in scena i farisei (24-28)  che vogliono avere da Giovanni una spiegazione sulla sua attività da battezzatore. Il suo battesimo è preparazione e mette in attesa di un altro, a cui Giovanni sta dando la sua testimonianza. Il Battista però non attira l’attenzione su un Messia che verrà, ma su un Messia già in mezzo a noi e che noi non conosciamo. Giovanni è il testimone di un Dio già qui. La sua presenza è già fra noi, ma è da scoprire, perché non tutti la vedono, e perciò occorre un profeta che la additi. 

    Tu, chi sei? Domanda decisiva per noi oggi. Tocca alla comunità cristiana sostituire il Battista nell’additare al mondo un Cristo già presente nel mondo. Ognuno di noi è un uomo mandato da Dio, piccolo profeta inviato, testimone della luce di Dio. Un giorno Gesù dirà: “Voi siete la luce del mondo”. Ad ogni credente è affidato il ministero profetico del Battista, quello di essere annunciatore non del degrado, dello sfascio, del peccato, che pure assedia il mondo, sentinella del positivo non dei difetti o dei peccati che assediano ogni epoca e ogni vita, testimone di speranza e di futuro, di sole possibile, di un Dio sconosciuto e innamorato che è in mezzo a noi, guaritore delle vite. Come Giovanni, siamo chiamati a testimoniare un Dio luce, un Dio solare e felice  che ha fatto risplendere la vita, ha dato splendore e bellezza all’esistenza. Testimoni di un Dio che ha immesso splendore e bellezza nell’esistenza, guaritore del freddo, che ha lavato via gli angoli oscuri  del cuore. Dopo di Lui è più bello vivere. Testimoni non di obblighi e divieti, ma del fascino della Luce.

    Pur con i miei peccati e le mie ombre, con tutte le cose che sbaglio e non capisco, con le mie fragilità e i miei errori, nonostante tutto, io posso essere testimone che “Dio è luce e in Lui non ci sono tenebre”. Annuncio che il rapporto con Dio crea nell’uomo e nella storia un movimento ascensionale verso una vita più luminosa. Vale molto di più accendere una lampada che maledire mille volte la notte.Giovanni, testimone e martire della luce, ci fa strada nell’Avvento, perché ci indica come ci si rapporta con Gesù, come siamo chiamati a indicare la sua presenza nell’oggi della storia. La storia vera inizia quando l’uomo, nelle sue albe così ricche di tenebre, sa fissare il suo cuore sulla linea della luce che sta sorgendo: la luce di un Dio che fascia le piaghe dei cuori feriti, che va in cerca di tutti i prigionieri per rimetterli nel sole. Siamo noi trasparenza di tutto questo, eco di parole che vengono prima di noi, che saranno dopo di noi? Siamo con coraggio voce che grida, testimoni di parole finalmente accese. Dio è il cuore, ognuno di noi è voce che dice questo cuore alla nostra porzione di mondo. Il Natale è questo: Dio entra e l’uomo diventa un “nido di sole”.

  • QUELLA VOCE CHE INVITA A PREPARARE LA VIA DEL SIGNORE – Mc 1,1-8

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    QUELLA VOCE CHE INVITA A PREPARARE LA VIA DEL SIGNORE – Mc 1,1-8
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    Vangelo

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    Vuoi essere discepolo di Gesù? Leggi il Vangelo di Marco.

    Vuoi fare esperienza di Gesù? Medita il Vangelo di Marco.

    Vuoi essere testimone di Gesù? Approfondisci il Vangelo di Marco.

    Conoscere Gesù, significa fare esperienza di Lui, sentire che la propria vita entra a poco a poco in sintonia con la sua, tanto da fare proprie le sue esigenze, i suoi ideali, fino a scoprire la vera e profonda amicizia che consiste nel vivere insieme per guardare insieme l’avvenire, per costruire insieme un mondo nuovo in cui ognuno è per l’altro e non per sé. Possiamo chiederci: per me chi è Gesù? Gesù conta nella mia vita? La mia vita non ha senso, senza di Lui? Desidero essere un suo testimone, impegnato nell’annunciarlo?

    Sin dall’inizio Gesù è colui che chiama. Chiama i discepoli perché diventino continuatori della sua opera. Per questo li educa a lungo, insegnando un modo di vivere: perdere la propria vita per gli altri. Malgrado le difficoltà i discepoli non lo abbandonano. Anche noi, ascoltando il Vangelo di Marco, siamo chiamati a farci suoi discepoli, contemplando, da attenti osservatori, il parlare e il modo di agire di Gesù. Nel breve brano di questa domenica, Marco sintetizza tutta questa esperienza, presentandoci quanto Gesù ha compiuto in tutta la sua vita. Si tratta di Vangelo: la buona notizia portatrice di felicità, di gioia, di speranza, di vera salvezza.

    Inizio: come nel libro della Genesi si inaugura una nuova storia, una nuova creazione, con la proclamazione della “buona e bella notizia” (Vangelo): Gesù, Messia e Figlio di Dio. Lui conforta la nostra vita e ci dice: con me vivrai solo inizi buoni. Ciò che fa cominciare e ricominciare a vivere e a progettare è sempre una buona notizia, un presagio di gioia, una speranza intravista. Non ricominciare dal pessimismo, dai problemi, dall’illusorio primato della realtà che sembra dominare il mondo. Ricominciare da una cattiva notizia è solo intelligenza apparente, priva di sapienza di Vangelo.

    Questo inizio non è stato un evento accaduto per caso, ma il realizzarsi delle sante Scritture, soprattutto la profezia di Isaia. Il Vangelo si inserisce in questa lunga attesa dei poveri, degli umili credenti nel Signore, annunciandoci che quanto era stato promesso, si realizza in Gesù di Nazaret. Non un messaggio di Dio, ma una persona: Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, che ora continua ad essere predicato dalla comunità. Gesù è l’inviato di Dio, il Salvatore. Solo sulla croce ci sarà la rivelazione: “Veramente quest’uomo è il Figlio di Dio”.

    Per il profeta Isaia, la lieta notizia è il ritorno dall’esilio babilonese, per Marco, è la venuta di Gesù. Per Isaia, la certezza della presenza liberatrice di Dio, per Marco, è il Figlio di Dio che si è fatto uomo ed è diventato nostro fratello. Gesù è il segno che Dio ha accettato il mondo definitivamente: la sua solidarietà nei nostri confronti è irreversibile. 

    Viviamo allora con attenzione tutte le buone notizie che ogni giorno aiutano a far ripartire la vita: la bontà delle creature, le qualità di chi mi sta accanto, i sogni coltivati insieme, le memorie da non dimenticare, la bellezza seminata nel mondo che crea ogni comunione. A noi spetta conquistare sguardi di Vangelo! E se qualcosa di cattivo o doloroso è accaduto, buona notizia diventa il perdono, che lava gli angoli oscuri del cuore. 

    Giovanni è il messaggero che precede Gesù, il Signore. Dio (io)  a Gesù di Nazaret (tu) manda il suo messaggero a preparargli a strada. Giovanni dunque è il messaggero che precede Gesù: lui è “una voce”, Gesù è “il Signore”. Tutta la missione di Giovanni è racchiusa in questo compito: attirare l’attenzione su Gesù. L’invito è a convertirsi, a cambiare mentalità, a farsi battezzare per aprirsi al perdono di Dio. Giovanni così prepara il popolo ai tempi dello Spirito: Gesù, realizzando le profezie, è proprio Colui che, depositario dello Spirito, purifica mediante lo Spirito, rinnovando ogni cosa.

    Giovanni non dice: verrà, ma viene. Giorno per giorno, continuamente, anche adesso, Dio viene. Anche se non mi accorgo di Lui, viene: è in cammino su tutte le strade. Si fa vicino nel tempo e nello spazio. Il mondo è pieno delle tracce di Dio. C’è chi vede i cieli riflessi in una goccia di rugiada, Giovanni vede il cammino di Dio nella polvere delle nostre strade. Dio è dentro le cose di tutti i giorni, alla porta della nostra casa, ad ogni risveglio. In questo mondo distratto corriamo anche noi il rischio di non vederlo.

    Giovanni, come Isaia, è uno che “apre strade” anche nel deserto, tracce di speranza anche là dove  sembrava impossibile. Ascoltare Giovanni, è diventare come lui. Lui però non è solo il predicatore della conversione, ma il suo modo di vivere nel deserto, è la “figura” del convertito.

    Il profeta è sempre in attesa: insoddisfatto di ciò che ha. Il suo sguardo va verso l’orizzonte, verso una Persona, alla ricerca di ciò che ancora non ha, pronto per nascite e inizi. 

    Il profeta è colui che ri-orienta la vita. Il peccato è l’esperienza di chi non riesce a raggiungere la propria meta e ha perso la strada. Il perdono è Dio che indica di nuovo il punto di arrivo e fa ripartire, è un nuovo inizio.Come preparare la strada al Signore e la conversione in vista della remissione dei peccati? Il Signore non chiede mai che apriamo una strada davanti a noi e la percorriamo per andare a Lui, ma esattamente il contrario. Chiede di sgomberare la strada sulla quale Egli raggiunge noi, viene verso di noi. La strada non è la nostra, ma la sua, del Signore! L’incontro è dovuto alla sua grazia, alla sua ricerca di ciascuno di noi, non ad una nostra iniziativa. Egli viene infatti sulla via della misericordia e del perdono, che Lui solo può tracciare: noi possiamo incontrarlo solo se riconosciamo il nostro peccato.

  • IL RISCHIO DI “ADDORMENTARCI”, ANCHE MENTRE CORRIAMO – Mc 13,33-37

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    IL RISCHIO DI “ADDORMENTARCI”, ANCHE MENTRE CORRIAMO – Mc 13,33-37
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    Vangelo

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    Prima domenica di Avvento: ricomincia l’anno liturgico come una scossa, un bagliore di futuro dentro il giro lento dei giorni sempre uguali, a ricordarci che la realtà non è solo quello che si vede, ma che il segreto della vita è oltre di noi. Abbiamo oggi anche “cambiato” evangelista! Ringraziamo Matteo che ci ha condotto per mano nelle domeniche di quest’anno e diamo il benvenuto ad un nuovo compagno di viaggio, Marco, con il suo Vangelo breve e incisivo.

    Gesù ci invita ad indirizzare il nostro sguardo verso il futuro. Entriamo nel tempo della speranza. Un tempo di incamminati, in cui tutto si fa più vicino: Dio a noi, noi agli altri, io a me stesso. Un tempo in cui impariamo che cosa sia davvero urgente: abbreviare distanze, tracciare cammini d’incontro.

    Una certezza domina questo nostro cammino nella storia: Il Signore verrà. La fine del nostro pellegrinaggio sarà un incontro, e l’attesa è sostenuta da questa esortazione: “State attenti! Non lasciatevi ingannare! Non spaventatevi! Vegliate, vigilate, che non vi trovi addormentati”. Avvisi che sono dati a tutti noi che viviamo l’attesa. Ma cosa significa vigilare

    Il discepolo vigila, se in ogni momento si preoccupa di una cosa sola: dare testimonianza a Gesù affinché il Vangelo raggiunga tutte le nazioni. Noi sappiamo dove andiamo e che cosa dobbiamo fare mentre siamo in cammino verso la meta.

    Nel Vangelo di oggi ci è presentato un padrone che se ne va e lascia tutto in mano ai suoi servi. Una costante di molte parabole, una storia che Gesù ha raccontato spesso. Dio si fa da parte, si fida dell’uomo, gli affida il mondo. Atto dunque di fiducia grande da parte di Dio; assunzione di responsabilità enorme da parte dell’uomo. Come custodire i beni di Dio che abbiamo fra le mani? Beni che sono il mondo e ogni vivente. Non possiamo quindi delegare a Dio niente, perché Dio ha delegato tutto a noi. Certo non siamo noi i proprietari, ma gli amministratori dei beni che Dio ci ha affidato.

    Il Vangelo propone due atteggiamenti iniziali: “fate attenzione e vegliate!” Gesù riempie l’attesa di attenzione. Tutti conosciamo che cosa comporta una vita distratta: fare una cosa e pensare ad altro, incontrare qualcuno ed essere con la testa da tutt’altra parte, lasciare qualcuno e non ricordare neppure il colore dei suoi occhi, per non averlo guardato. Gesti senz’anima, parole senza cuore. Impariamo dalle mamme, che più di tutti conoscono a fondo l’attesa: la imparano nei nove mesi che il loro grembo lievita di vita nuova.

    Fate attenzione: significa porsi in modo “sveglio”, e al tempo stesso “sognante” di fronte alla realtà. Il padrone tornerà: può capitare da un momento all’altro e ci chiederà conto di tutto. Moriamo bene, se ci troverà svegli e non già addormentati! Noi il Signore, certo, non lo vediamo, almeno non lo vediamo con gli occhi del corpo. Sappiamo però che Lui ci ha lasciato diverse cose, i segni della sua esistenza e della sua presenza. Il creatore può sembrare nascosto ai nostri occhi, ma la creazione ci circonda.

    Vegliate con gli occhi bene aperti: scrutare la notte, spiare il lento emergere dell’alba, perché il presente non basta a nessuno. Vegliare su tutto ciò che nasce, sui primi passi della pace, sui primi vagiti della vita e dei suoi germogli.

       Un doppio rischio preme su di noi come dice Isaia: un cuore duro, e una vita dormiente, che non sa vedere l’esistenza come una madre in attesa, incinta di luce e di futuro, una vita distratta e senza attenzione. Vivere attenti alle persone, alle loro parole, ai loro silenzi, alle domande mute; attenti al mondo, al nostro povero pianeta con tutte le sue creature a partire dall’acqua, l’aria, le piante.

    Guardiamo l’agire di Dio e impariamo: “Noi siamo argilla nelle tue mani. Tu sei colui che ci da forma” (Is 64,7).Il profeta invita a percepire il colore, il vigore, la carezza delle mani di Dio che ogni giorno, in una creazione instancabile, ci plasma e ci dà forma; che non ci butta mai via, se il nostro vaso riesce male, ma ci rimette di nuovo sul tornio del vasaio. Con una fiducia che noi tante volte abbiamo tradito, e che Lui ogni volta ha rilanciato avanti. Noi siamo argilla, non tanto esseri fragili e poveri, quanto creature incompiute, incamminate verso una pienezza. Dove c’è la pienezza di umanità, lì c’è Dio. Il nostro Dio fa di tutto perché non ci troviamo impreparati. Ogni giorno giunge e torna da noi; ogni giorno illumina le nostre infedeltà e, se le riconosciamo, le guarisce; ogni giorno bussa alla nostra porta; bussa con la sua Parola, i sacramenti, i fratelli, e ci abitua alla sua venuta definitiva.

    Se tu squarciassi i cieli e discendessi”. Il cristiano sa che la preghiera del profeta è già stata esaudita. I cieli sono aperti e il Figlio di Dio è disceso tra noi. Tuttavia il cristiano attende ancora che la comunione con Dio diventi pienezza, che la verità e l’amore si facciano strada, che il peccato sia vinto e il mondo rinnovato, e che Colui che fu per noi crocifisso, sia da tutti riconosciuto. Il Signore vuole che riempiamo l’attesa di attenzione. Il cristiano deve impegnarsi nel mondo, ma non al punto di dimenticare l’attesa e deve attendere non al punto da dimenticare l’impegno oggi.  Impegniamoci ad essere vigili e attenti per avvertire le occasioni di male che si presentano ogni giorno, ma anche vigiliamo e siamo pronti ad accogliere le numerose occasioni di bene.

  • COSA RESTERÀ DI NOI ALLA FINE? L’AMORE DATO E RICEVUTO – Mt 25,31-46

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    COSA RESTERÀ DI NOI ALLA FINE? L’AMORE DATO E RICEVUTO – Mt 25,31-46
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    Vangelo

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    Le letture liturgiche della messa di Cristo Re hanno lo scopo non tanto di dirci che Gesù è Re, ma di farci comprendere la natura inattesa e sconvolgente della sua regalità. Gesù è re, ma la sua regalità è diversa da quella del mondo. Gesù è un re per gli altri: la sua regalità è dono e servizio, non dominio. Predilige i poveri e i deboli, non i forti.

    La pagina del Vangelo si impone non solo per la forza del messaggio, ma anche per la suggestione della sua scenografia: imponente scena del giudizio universale.

    1. C’è innanzitutto la convocazione dei popoli e la loro separazione. Si parla della fine della storia al futuro. Si tratta di una profezia di quello che avverrà, dopo che tutte le genti avranno ascoltato l’annuncio del vangelo del Regno. Si parla non più di un “Figlio dell’uomo” sofferente, perseguitato, e che nella sua vita condivise in tutto la debolezza della condizione umana, la fame, la nudità, la solitudine, ma di Lui divenuto “Re e Giudice” in tutto il fulgore della sua “gloria”, con tutti gli angeli che gli fanno da corona. È però un re che si identifica con i più umili, i più piccoli: anche nella sua funzione di giudice universale, Gesù rimane fedele alla logica di solidarietà che lo guidò in tutta la sua esistenza terrena. Re glorioso, ma la sua gloria è il trionfo dell’amore che si è manifestato sulla croce. Proprio la croce ha manifestato la vera regalità di Gesù, fatta di amore e di dono di sé. Dio radunerà tutti i popoli. Nel mondo buoni e cattivi erano tutti mescolati, ma giunta “la fine del mondo”, è il momento della separazione.

    Da una parte i “benedetti del Padre mio”: è la famiglia di Dio che si riunisce definitivamente nella casa del Padre, in quel regno che “è stato preparato fin dalla creazione del mondo”. Non si tratta di una cosa improvvisa: fin dall’eternità Dio ci ha chiamati alla vita eterna con Lui, alla comunione con Lui, il Figlio, mediante lo Spirito Santo. Tutto ci viene donato, non prescindendo dai nostri meriti, ma superando ogni nostro merito: è un’eredità.

    2. Il dialogo del re con quelli di destra e sinistra. “Ciò che avrete fatto ai miei fratelli, è a me che l’avete fatto”. Il Padre è nei cieli, ma il cieli del Padre sono i suoi figli: il povero è il cielo di Dio. Quando tocchi un povero, tocchi Dio. Argomento del giudizio non sarà tutta la nostra vita, ma le cose buone della nostra vita: non le fragilità, ma la bontà. Nella memoria di Dio non c’è spazio per i nostri peccati, ma solo per i gesti di bontà e per le lacrime. Perché il male non è rivelatore, mai né di Dio né dell’uomo. È solo il bene che dice la verità di una persona. Davanti a Dio non temo per la mia debolezza, ho paura solo delle mani vuote. Il Padre non guarderà a noi, ma attorno a noi, alla porzione di lacrime e di sofferenti che ci è stata affidata, per vedere se qualcuno è stato consolato da noi, se ha ricevuto pane e acqua per il viaggio, coraggio per oggi e domani.

    Avevo fame, avevo sete, ero straniero, nudo, malato, in carcere: e tu mi hai aiutato. Sei passi di un percorso, dove la sostanza della vita ha un nome: amore. Sei passi per incamminarci verso il Regno, la terra come Dio la sogna. A nessuno di noi è chiesto di compiere miracoli, ma di prenderci cura delle persone. Non di guarire i malati, ma di visitarli, di accudire con premura una persona anziana in casa, di custodire in silenzioso eroismo un figlio disabile, di aver cura senza clamore del coniuge in crisi, di un vicino che non ce la fa. Non c’è domani per chi non si apre al bisognoso, per chi, potendolo, non si è fatto pane dell’affamato. Che cosa resterà della nostra persona quando non rimarrà più niente? Resterà l’amore dato e ricevuto. 

    Gli allontanati da Dio che male hanno commesso? Il loro peccato grave è l’omissione: non hanno fatto niente di bene, non hanno dato nulla alla vita. Si fa del male anche con il silenzio, si uccide anche con lo stare alla finestra. Restare a guardare è già farsi complici del male comune, della corruzione: è la “globalizzazione dell’indifferenza”. L’ultimo giorno mostra la vera alternativa: è tra chi si ferma accanto all’uomo bastonato e a terra, e chi invece tira dritto, tra chi spezza il pane e chi gira dall’altra parte e passa oltre. La salvezza è legata ad un po’ di pane, ad un bicchiere d’acqua, ad un vestito donato, ai passi di una visita. Si può fallire la vita. Lontani dal povero, siamo lontani da Dio, lontani da noi stessi. Il male grande è aver smarrito lo sguardo, l’attenzione, il cuore di Dio fra noi.

    3. Esecuzione delle sentenze.  Noi cristiani abbiamo la fortuna di sapere già chiaramente che cosa dobbiamo fare per salvarci, sappiamo già che, mediante le opere i misericordia, ci salveremo. Non potremo dire: “non lo sapevamo”.

    Fin d’ora viviamo in pienezza la solidarietà umana. Facciamo il bene e, senza dubitare, crediamo che il Signore ci darà una gioia infinita che supera infinitamente ogni nostro merito.

  • CHIAMATI ALLA PIENEZZA DELLA CREATIVITÀ – Mt 25,14-30

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    CHIAMATI ALLA PIENEZZA DELLA CREATIVITÀ – Mt 25,14-30
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    Vangelo

    In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: « Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque». «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo». Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».

    Commento

    Il brano del Vangelo di questa domenica continua, dopo averci indicato l’importanza della vigilanza, a farci riflettere su come vivere l’attesa: noi che abbiamo la certezza della venuta-ritorno del Signore e l’incertezza del quando. Si continua a parlare del “ritardo di questa venuta”: “dopo molto tempo”.

    “Avverrà come di un uomo…”: Dio ci consegna qualcosa e poi esce di scena. Ci consegna il mondo, con poche istruzioni per l’uso, e tanta libertà. È Dio che ha fiducia in noi, ci innalza a con-creatori, lo fa con un dono e una regola, quella di Adamo nel paradiso: coltiva e custodisci il giardino dove sei posto, vale a dire: ama e moltiplica la vita, moltiplica i doni che ti ho dato.

    Per alcuni studiosi, l’uomo che parte per il viaggio è Gesù; i servi, la chiesa, i cui membri hanno ricevuto varie responsabilità. La partenza è quella del Cristo terreno, il lungo tempo della sua assenza, il tempo della Chiesa, il suo ritorno è la venuta finale del Figlio dell’uomo.

     “I talenti” (lingotti d’argento, monete …) non sono le doti o le capacità, ma piuttosto la responsabilità che siamo chiamati ad assumere. La parabola è un‘esortazione pressante ad aver più paura di restare inerti e immobili, che di sbagliare: la paura ci rende perdenti nella vita. La paura paralizza, impoverisce la storia. Siamo chiamati a far fiorire il mondo, ad aver cura dei germogli: l’amore vero è quello che fa diventare l’altro il massimo che gli consentono le sue forze. Dio è la primavera del mondo, e noi l’estate feconda di frutti. La pedagogia del Vangelo ci invita a tener presenti tre grandi regole: non aver paura, non fare paura, libera dalla paura, soprattutto quella di Dio. Il discepolo di Gesù deve muoversi in un rapporto d’amore con Dio, dal quale soltanto possono scaturire coraggio, generosità, libertà, persino coraggio di correre i rischi necessari.

    I primi due servitori sono questa immagine dell’operosità e dell’intraprendenza. Il terzo è pigro, passivo, si limita a conservare. Il contrasto è tra operosità e pigrizia. Il pigro ha una sua idea di Dio, non ha più la fede. L’ha persa col tempo, si è dimenticato di quanto gli era stato affidato, che doveva essere investito. Non vuole correre rischi, si crede giusto, in quanto non ha fatto nulla di male, allorché può ridare al padrone quanto ha ricevuto. Il suo impegno è la scrupolosa osservanza di ciò che è prescritto, nulla di più, nulla di meno.

    La parabola è accogliere l’invito di Gesù a cambiare prospettiva: non la gretta obbedienza e paura, ma l’amore che è senza calcoli, che non si limita a riconsegnare ciò che ha ricevuto. Il vero rapporto tra Dio e l‘uomo è quello dell’amore, da dove soltanto possono scaturire: coraggio, generosità, libertà. Dio poi ci sorprende: non vuole indietro i talenti affidati con gli interessi, anzi la somma rimane ai servitori ed è raddoppiata, moltiplicata: “ti darò autorità su molto…”. I servi vanno per restituire, ma Dio rilancia. Noi non esistiamo per restituire a Dio i suoi doni. Noi viviamo per essere come Dio, a nostra volta, donatori: una spirale di amore che si espande, portando pace, libertà, giustizia, gioia. Cose di Dio, che diventano seme di altri doni, sorgenti di energie. Inoltre, nel momento del rendiconto, colui che consegna dieci talenti non è più bravo di che ne consegna quattro. Le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. (I talenti vengono dati secondo le capacità di ciascuno). 

    La parabola vuole aiutarci a comprendere la vera natura del rapporto che corre tra Dio e l’uomo: non paura e timore servile, ma rapporto di amore. La nostra vocazione è di essere emozionati e disciplinati artefici di creazione: il nostro incarico, il nostro vanto è di lasciare il mondo un po’ più bello di come l’abbiamo trovato.

    Il bene affidato ad ogni discepolo è la Parola di Dio e il suo annuncio a tutto il mondo. Il regno è affidato a coloro che sanno far crescere i suoi frutti. Non ci si può presentare al Signore unicamente con quello che si è ricevuto. Il di più che noi presentiamo non arricchisce il Signore, ma diventa il premio superiore ad ogni immaginazione, puro dono e uguale per tutti.  

    Questa parabola non è dunque un’esaltazione, un applauso all’efficienza. Non è un inno alla meritocrazia, ma una vera e propria contestazione verso il cristiano che sovente è tiepido, senza iniziativa, contento di quello che fa ed opera, pauroso di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma neppure “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, che non sanno leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alle comunità cristiane consapevolezza, responsabilità, laboriosità, audacia e soprattutto creatività. La comunità è chiamata a vivere nell’obbedienza alla Parola del Signore che la spinge  verso nuove frontiere, verso nuovi lidi, su strade non percorse, lungo le quali la bussola che orienta il cammino è solo il Vangelo, unito al grido degli uomini e delle donne di oggi che chiedono: “Vogliamo vedere Gesù”. Siccome è più facile seppellire i doni che Dio ci ha dato, piuttosto che condividerli, la parabola ci invita ad aver cura dei beni (talenti) di Dio che ha affidato a noi.