La sera di mercoledì 10 novembre ha perso la vita in un incidente stradale DON GIANNI FELTRIN, parroco di Fontane di Villorba. Lo ricordiamo come guida della comunità cristiana per 23 anni, appassionato annunciatore del Vangelo soprattutto attraverso la catechesi agli adulti per lui sempre da privilegiare, fiducioso nelle nuove generazioni di giovani verso cui guardare con sapienza e fiducia, con uno sguardo capace di scoprire la bellezza che dalle vette delle montagne porta a contemplare la presenza di Dio nel cuore di ogni uomo. In questi anni ha condiviso la strada nuova della Collaborazione pastorale tra parrocchie di Villorba portando la sua esperienza pastorale ma soprattutto coinvolgendosi in una condivisione tra preti e laici, capace di guardare ad un futuro sempre nuovo perché guidato dalla forza del Vangelo. Ci prepariamo a dare a lui il nostro saluto nella fede, accompagnandolo con fiducia e riconoscenza nell’incontro con il Signore della Vita.
Il Consiglio della Collaborazione Pastorale Villorbese
Il campanile non è solo una costruzione, a forma di torre, in cui sono installate le campane della chiesa. È anche simbolo del luogo nativo: “ritornò a vivere all’ombra del suo campanile”; “non vede più in là del suo campanile”. Più ancora, è come un compagno i cui rintocchi segnano i momenti ordinari e straordinari della nostra vita a Fontane. Facciamo in modo, insieme, che perduri il suo svettare sulla nostra comunità.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
La vite ha qualcosa di misterioso, oltre che domandare più attenzione e tempo all’agricoltore che le altre colture della terra, se si vuole che produca frutto. Il frutto della vite apporta gioia nel cuore dell’uomo (Sal 104,15), ed è la gioia di Dio.
Nell’Antico Testamento si dice che Dio ha una vigna che cura con tanta attenzione e amore, che però non è all’altezza delle sue attese e non produce quei frutti che il suo lavoro sperava di ottenere. Il profeta Isaia annuncia che Dio ama la sua vigna (Israele), ha fatto di tutto per essa, ma, invece del frutto di giustizia che attendeva, essa gli ha dato l’acerba vendemmia del sangue versato. Geremia dice: Israele è una vigna scelta, inselvatichita e divenuta sterile. Verrà però un giorno che la vigna fiorirà sotto la custodia vigilante di Dio.
Ciò che Israele non ha potuto dare a Dio, lo dà Gesù. Egli è la vite autentica: la nuova comunità, la Chiesa, per portare frutto, deve vivere in comunione con Lui. Ecco la risposta che Gesù dà ai discepoli impegnati a continuare la sua missione. Sono chiamati ad una profonda relazione con Lui: conoscerla è molto importante, viverla lo è ancora di più.
Ecco il grande cambiamento portato da Gesù: Dio stesso è la vite. Gesù è la vite, noi i tralci. Noi e Lui, la stessa cosa! Stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Siamo il prolungamento di quel ceppo, siamo composti della stessa materia. Gesù-vite spinge incessantemente la linfa verso l’ultimo nostro tralcio, verso l’ultima gemma, che noi dormiamo o vegliamo, e non dipende da noi, ma da Lui. Così noi succhiamo da Lui linfa dolcissima e forte. Siamo immersi in un oceano d’amore, abbiamo a disposizione una sorgente inesauribile, a cui possiamo sempre attingere e che non verrà mai meno! Eppure sembriamo non rendercene conto.
La base della nostra esistenza è nutrirsi di questa linfa. Dobbiamo prendere coscienza di questa energia che scorre in noi proveniente da Dio, e aprire continuamente strade e canali per accogliere questa linfa. Dio è già in noi, non c’è da cercarlo lontano, scorre nelle vene del nostro essere.
La vera e nuova vigna, il nuovo popolo di Dio è Cristo insieme ai tralci. Il Padre, che rimane sempre l’agricoltore, si prende carico a tempo pieno della sua vigna e lo fa potando i tralci che non danno frutto e ripulendo quelli buoni da tutto ciò che impedisce loro di ricevere con abbondanza la linfa. Egli vuole che diano sempre più frutti. E’ chiaro che non è Cristo che “taglia”, ma è sempre il Padre che agisce con amore: li cura e li ripulisce perché diano maggior frutto. Il rimanere in Cristo ha senso se si dà frutto, non può esistere un tralcio passivo. Meraviglioso il lavoro di Dio Padre, vignaiolo, nei nostri confronti! Si dà da fare attorno a noi. Non impugna lo scettro, ma la zappa, non siede sul trono, ma sul muretto della mia vigna. Mi contempla con occhi pieni di speranza.
Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Potare non significa amputare, bensì togliere il superfluo e dare forza, vita: ha lo scopo di eliminare il vecchio e far crescere il nuovo. Qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Così il nostro Dio contadino ci lavora, con un solo obiettivo: la fioritura di tutto ciò che di più bello e promettente pulsa in noi. Ma quanta fatica facciamo a vivere questi momenti della “prova”, che sono condizione indispensabile di fecondità, ma che spesso suscitano in noi, smarrimento!
Gesù ha bisogno di grappoli buoni, anche di uno solo. Come discepoli, prendiamo anche noi atto di questa responsabilità. Guidati dalla Parola, continuiamo a rimanere uniti a Cristo, a non perdere la nostra intimità con Lui. Solo uniti a Cristo siamo fonte di vita. Se interrompiamo questa unione con Gesù, piombiamo in una sterilità assoluta, e non continuiamo l’opera di salvezza di Gesù. Senza i tralci (noi), anche la vite (Gesù) è sterile. Grande mistero di questo progetto di Dio che ci chiama a essere sorgente di vita per l’umanità. Prima di tutto dobbiamo anche nella prova essere sani e gioiosi. Nessuna vite sofferente porta frutti buoni! Così ci vuole Dio.Ogni tralcio che non porta frutto lo taglia: c’è sempre la possibilità del peccato, di diventare un ramo secco, improduttivo, che non porta frutto. Questo avviene sempre, quando ci stacchiamo da Cristo (la vite), quando ci dimentichiamo che senza di Lui non possiamo far nulla.
Non c’è una biografia di Gesù Risorto. Gli evangelisti hanno tentato di dire in forma narrativa ciò che di per sé è inesprimibile. Cristo risorto non è un “Lazzaro” redivivo. La resurrezione di Gesù è un mistero: Gesù risorto non muore più. E’ entrato per sempre nella gloria del Padre. E’ presente a tutti gli uomini e a tutti i tempi. Il pericolo è di fare del Risorto una specie di mago, capace di attraversare i corpi solidi.
L’unico avvenimento storico è la morte di Gesù in croce. Credere nella resurrezione è ammettere che la Croce è un evento di salvezza per noi. Questa fede in Dio che ha risuscitato il Figlio è trasmessa in diversi linguaggi. Il Risorto nelle apparizioni è raffigurato come un personaggio di questa terra. Il Risorto evoca l’avvenimento del passato e la condizione gloriosa attuale: Dio ha preso con sé Gesù nella gloria.
Per Matteo, Gesù non prende commiato dai suoi discepoli, non “sale” in cielo, non invia loro lo Spirito Santo, ma rimane con loro. L’Emmanuele rimane perennemente presente: “Io sono con voi tutti i giorni”. Inoltre Cristo risorto è emerso al di sopra della tormenta della malvagità umana, grazie alla potenza di Dio che lo ha strappato dalle tenebre. Uscito dall’abisso degli inferi, disceso maestoso dal monte, si presenta come il Signore a cui è stata conferita ogni autorità: è colui che Dio ha liberato e che libera dai vincoli della morte.
Per Marco, ognuno di noi deve immaginarsi in compagnia delle donne che al sepolcro si sono fermate alla presenza terrena di Gesù. Esse urtano nel mistero pasquale senza poterlo cogliere. Ma il mistero è proclamato. Marco ci mette così davanti al mistero di Gesù risorto senza osare dargli un volto. Il sepolcro respinge via da sé. Gesù attende in Galilea, la terra della speranza.
Per Luca, il messaggio pasquale orienta verso il futuro. La resurrezione di Gesù è l’inizio della testimonianza dei discepoli e della predicazione del Vangelo. Il tempo della Chiesa può iniziare, poiché lo Spirito è donato da Colui che ha vinto la Morte. Nel medesimo tempo il messaggio pasquale è il ricordo di quello che è stato detto in Galilea. Il riferimento al passato di Gesù è essenziale per mantenere l’annuncio della Buona Novella in diritto filo, e questo passato include il piano di Dio, così come è espresso nelle Scritture.
Il messaggio pasquale è contatto con un Vivente, con un uomo che sta lì davanti a noi, presente nella totalità del suo essere, pienamente reale e corporeo, anche se le sue condizioni non sono più quelle di un tempo. Questo vivente viene a camminare con noi, adeguandosi alla debolezza della nostra intelligenza, pronto a condividere la Parola e il Pane.Per Giovanni, il sepolcro vuoto è un segno per chiunque sia discepolo diletto. La missione è una relazione consapevole che unisce il credente a Gesù, come Gesù stesso è unito al Padre, e l’attuazione sulla terra dell’azione di Gesù. Ogni visione è fondata sulla Parola che mette in contatto con Gesù: della resurrezione non può essere fornita altra prova che la Parola di Gesù. Se Gesù mostra le sue piaghe, non lo fa per dare prova della sua corporeità, ma per manifestare l’origine della pace che ha appena donata, e dello Spirito che sta per accordare: è la sua propria passione. Lo Spirito garantisce per sempre la presenza nuova del Signore tra i suoi discepoli e sulla terra. Grazie ai discepoli che hanno potere sui peccati, il mondo intero può accedere all’alleanza con Dio.
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Gesù risorto parla alla sua comunità, a tutti noi. Vuole rivelarci la sua identità profonda, identità che viene da Dio suo Padre.
Quando a Mosè Dio volle presentarsi al suo popolo col suo nome, disse: “IO SONO” (Jahvè), ma non diede una definizione di Sé. Disse: Io sono quello che mi vedrete ora fare per voi: vi libererò dall’Egitto. Così Israele ha riconosciuto il suo Dio dai fatti, dai gesti di salvezza compiuti da Dio per lui.
Anche Gesù disse: IO SONO, traducendo nella sua vita in gesti precisi e significativi le varie immagini di questo Dio che si china ad interessarsi degli uomini: IO SONO la luce, la vita, l’acqua, il pane vivo … oggi ci dice: “IO SONO il buon pastore che offre la vita per le sue pecore”: è il racconto della tenerezza ostinata e mai arresa di Dio, che dona la vita a tutti. Gesù si rivela così: il suo vivere, il suo esistere sino alla morte è il dono che è vita per tutti gli uomini.
IO SONO il Pastore buono: Gesù è il pastore autentico, il vero, forte e combattivo, che non fugge, a differenza del mercenario. Ha il coraggio di lottare e difendere dai lupi il suo gregge. Sullo sfondo sta la tragedia di un mondo guidato dai “mercanti”, non da pastori. Un mondo di uomini sfruttati e imbrogliati, ai quali non è offerta la vita, ma è loro tolta e resa più difficile. Già nella storia di Israele, Dio si lamenta di questa situazione e annuncia l’avvento di un vero Pastore. Gesù riassume in sé l’immagine non solo di tutti gli autentici pastori donati da Dio ad Israele, ma soprattutto l’immagine di Dio stesso.
IO SONO Il pastore bello (kalòs): Non per l’aspetto esteriore, ma per il fascino e la forza di attrazione che vengono dal suo coraggio e dalla sua generosità, che si frappone fra ciò che dà la vita e ciò che procura morte al suo gregge. La bellezza sta in un gesto, ribadito cinque volte nel vangelo: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo, ma non per aver in cambio qualcosa, non per un mio vantaggio. Bello è ogni atto di amore. Questa è la nostra fede. Dio considera ciascuno di noi più importante di se stesso e per questo dona la vita.
“Offro la vita”, è molto più che il semplice prendersi cura del gregge. Si tratta di una scelta voluta, non un incidente di percorso: una scelta gratuita, cioè non meritata da noi, perché la sua motivazione sta soltanto nell’amore gratuito del Padre che Gesù è venuto a realizzare. Gesù sa che lo vogliono uccidere, ma non si lascia travolgere dagli avvenimenti: continua la missione affidatagli dal Padre. Lo fa perché ama il Padre e perché vuole che il dono della sua vita riveli a tutti l’amore del Padre. La sorgente della nostra salvezza e della nostra grandezza è il cuore del Padre, il cuore di Dio che Gesù è venuto a mostrare.
Gesù non intende solo parlare del suo morire in croce per tutti, anche perché, se il Pastore muore, le pecore sono abbandonate, e il lupo rapisce, uccide e vince. L’attività perenne di Dio, da sempre e per sempre, è offrire vita, offrire un’energia di nascita dall’alto. Dio ci dona il suo modo di amare e di lottare. Questo è il segreto della vita che impariamo da Gesù: la vita è dono, il segreto della vita è dare. Ogni persona per star bene deve dare . Ma perché per star bene ogni persona deve dare? Perché così fa Dio. Il pastore non può stare bene finché non sta bene ogni sua pecora. Se non diamo vita attorno a noi, entriamo nella malattia. Se non diamo amore, un’ombra invecchia il cuore. Il cristiano non può stare bene finché non sta bene ogni suo fratello. In quanto battezzati siamo tutti chiamati, nel piccolo delle nostre situazioni (famiglia, amici, persone che si affidano a noi …), ad essere pastori buoni. Ora finalmente scopriamo Qualcuno cui appoggiare la nostra fragile precarietà e solitudine! Per le cose che contano, solo Dio può può capirci fino in fondo, amarci pienamente. Con questo supplemento di vita che Cristo continuamente ci dona, anche noi potremmo vincere coloro che amano la morte, i lupi di oggi. Amare, sperare, costruire, dare vita come ha fatto Cristo, domanda che ogni giorno noi doniamo del tempo, in attento ascolto delle persone. Fondiamo la nostra sicurezza su Cristo buon pastore, anche se il mondo ci sollecita a fidarci di altro. Questo, non perché Dio sia più potente, ma perché ci ama di più, ci ama veramente!
“Conosco le mie pecore”: Dio non ci ama a mucchio, ma personalmente. Dio chiama ogni singolo individuo ad essere “figlio nel Figlio”, a entrare in quel giro singolarissimo di rapporti che intercorrono tra il Padre e il Figlio. E’ un rapporto trasformante, che mira a trasformarci per dono noi in figli di Dio, quanto lo è il Figlio per natura. Non solo però il pastore conosce le pecore, ma anche le pecore conoscono il pastore, la sua vita, il suo comportamento, i suoi sentimenti, le sue ansie e le sue gioie. Le pecore conoscono anche la sua presenza, a volte silenziosa, ma che dà sempre loro sicurezza e pace.“Ho altre pecore che non appartengono a questo recinto”. Cade l’immagine del recinto, dell’ovile: il popolo di Dio è unico, non ha frontiere, non ha steccati né dentro, né attorno: è un popolo in cammino guidato da un unico pastore, da Gesù, l’unico principio di unità, l’unico mediatore di salvezza, l’unico che davvero può liberarci e farci vivere l’esperienza della vera libertà.
In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».
Nel racconto della visita delle donne al sepolcro, abbiamo l’annuncio che Gesù è vivo: il Vivente. Nell’incontro con i due discepoli di Emmaus ci è descritto il cammino impegnativo della fede. Tutto però converge verso l’apparizione agli undici: l’assemblea degli apostoli nella città santa. Ora è possibile la predicazione della conversione e del perdono dei peccati a tutta l’umanità: Cristo è risorto: la vita vera, quella che è innestata nella vita di Dio è a disposizione dell’umanità. Nasce così la comunità dei testimoni, chiamata a portare a tutto il mondo l’annuncio che la vita di Dio c’è anche là dove ‘è la morte, la non vita-biologica, questo perché Gesù risorto è il Cristo vivente.
Notiamo come il linguaggio usato rivela la sua impotenza ad esprimere adeguatamente la resurrezione di Gesù, l’esperienza di fede che hanno vissuto: l’atto di fede della comunità credente: “Dio ha risuscitato Gesù dai morti”. I racconti degli evangelisti da una parte mettono in evidenza la somiglianza corporea di Gesù risorto, la sua identificazione guardando i segni della sofferenza, dall’altra la sua trasformazione che fa di Gesù il Signore dell’universo. L’evento della Pasqua è ad un tempo fatto e mistero.
Non sappiamo dove sia Emmaus, quel nome è un simbolo di tutte le nostre strade, quando qualcosa sembra finire, e si torna a casa, con le macerie dei sogni. Due discepoli, una coppia, forse marito e moglie, una famigliola, due come noi: “Lo riconobbero allo spezzare del pane”, allo spezzare qualcosa di proprio per gli altri, perché questo è il cuore del Vangelo.
Il cuore dei due è cambiato e cambia la strada: “Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme”. L’esilio triste diventa corsa gioiosa, non c’è più notte né stanchezza né città nemica, il cuore è acceso, gli occhi vedono, la vita è fiamma. Non patiscono più la strada: la respirano, respirando Cristo. Diventano profeti.
Stanno ancora parlando e Gesù di persona apparve in mezzo a loro, e disse: Pace a voi. Gesù era già in mezzo ai suoi, riuniti nel suo nome, ma in modo invisibile. Così è anche per noi. Lo incontriamo e subito siamo chiamati a serenità: è Un Signore che bussa alla nostra vita, entra nella nostra casa, e il suo saluto porta pace, Gesù appare come un amico sorridente, a braccia aperte, che ci accoglie con questo regalo: c’è pace per noi.
Colpisce il lamento di Gesù: “Non sono un fantasma”. C’è dentro il suo desiderio di essere accolto come un amico che torna da lontano, da stringere con slancio, da abbracciare con gioia. Non puoi amare un fantasma: ha carne e sangue come noi. I discepoli non riescono a darsi ragione del suo rendersi visibile e invisibile in modo improvviso, sono sconvolti, timorosi di essere vittime di un’allucinazione: comunque sono lì pur sconvolti e muti. Le parole di Gesù li riportano alla realtà. Hanno bisogno di convincersi che il Risorto e il Crocifisso sono la stessa identica persona. Per sciogliere dubbi e paure, Gesù pronuncia i verbi più semplici e familiari:“Guardate, toccate, mangiamo insieme!”. Gli apostoli si arrendono ad una porzione di pesce arrostito, al più familiare dei segni, al più umano dei bisogni. Non si vergognano della loro fede lenta, ma si aprono con tutti i sensi ad un gesto potente, una presenza amica, uno stupore improvviso.
Il vederlo mangiare è la prova che li convince, e a cui Pietro si appellerà per convincere gli altri, dicendo:”Noi abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione” (At 10,41).
Il mangiare insieme con Gesù è segno che Gesù condivide la mia vita e io condivido la sua. Il Gesù risorto, colui che invochiamo come il Signore, è lo stesso Gesù di Nazaret. Messo in chiaro questo aspetto, i testimoni oculari, per diventare servitori della Parola, cioè veri testimoni, hanno bisogno i rileggere in modo corretto gli eventi di Gesù di Nazaret. Finora avevano capito solo ciò che faceva comodo. Gesù si fa catecheta e ricorda ai suoi discepoli che li aveva preavvisati, quando era ancora con loro: “Il Figlio dell’uomo se ne va …”. Non solo fa comprendere che tutto ciò che lo riguarda si è compiuto, ma annuncia che manca ancora solo una cosa: “la predicazione della conversione e del perdono dei peccati a tutte le genti”. Questa predicazione non l’ha compiuta Gesù, ma l’ha affidata ai suoi discepoli: “Di questo siete testimoni”. Non predicatori, ma testimoni.
Con la semplicità di bambini che hanno una bella notizia da dare, e non ce la fanno a tacere, testimoniano la bella notizia: Gesù non è un fantasma, è potenza di vita; mi avvolge di pace, di perdono, di resurrezione. Vive in me, piange le mie lacrime e sorride come nessuno. Talvolta vive “al posto mio” e cose più grandi di me accadono, e tutto si fa più umano e più vivo. Allora non posso aver paura di vivere: Dio è sempre con me.Ci consola la fatica dei discepoli a credere, il loro oscillare tra paura e gioia. La paura, di cui ci parla il Vangelo, è lo stato d’animo di chi è in presenza di Dio, di chi ha la percezione di cogliere qualcosa che è molto più grande di lui. Tutto questo è garanzia che la risurrezione di Gesù non è un’invenzione dei discepoli, ma un evento che li ha spiazzati. Lo conoscevano bene, il Maestro, dopo tre anni di strade, di olivi, di pesci, di villaggi, di occhi negli occhi, eppure non lo riconoscono. Gesù è lo stesso ed è diverso, è il medesimo ed è trasformato, è quello di prima ed è altro. La Risurrezione non è semplicemente ritornare alla vita di prima: è andare avanti, è trasformazione, è il tocco di Dio che entra nella carne e la trasfigura.
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Dopo gli incontri al sepolcro con Maria Maddalena, con Pietro e il discepolo che Gesù amava, la liturgia ci propone l’apparizione ai discepoli, dove scoppia la gioia pasquale che subito si fa missione.
L’evangelista Giovanni annota che le porte del luogo dove si trovavano i discepoli erano “chiuse per paura dei giudei”. La paura proviene dall’esterno, ma se può entrare nel cuore dell’uomo è unicamente perché vi trova un punto d’appoggio Così sono anche le nostre paure! Non serve chiudere le porte. La paura entra nel profondo, se si è ricattabili, se qualcosa importa più di Gesù. E questo qualcosa può essere la vita, anche se, più spesso, si ha paura per molto meno.
Venne Gesù a porte chiuse. L’abbandonato ritorna da quelli che sanno solo abbandonare, il tradito si mette di nuovo nelle mani di chi lo ha tradito. Ripensando al loro comportamento, forse i discepoli si vergognano di come lo avevano abbandonato, tradito, rinnegato così in fretta: e hanno paura. Gesù entra in quella stanza dove si respira paura. Solo alcuni non ce l’avevano fatta a restare rinchiusi: Maria di Magdala e le donne, Tommaso e i due di Emmaus. A loro, che respirano libertà, sono riservati gli incontri più belli e più intensi con Gesù risorto.
Gesù sta in mezzo a loro: è dal fatto che Gesù sta lì, dal suo essere vivo, adesso, dalla sua presenza che nasce la fede cristiana. Ricevete lo Spirito Santo. Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, inaffidabili, scende il vento delle origini, il vento che scuote le porte chiuse del cenacolo: “come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Voi come me. E li manda così come sono, un gruppetto allo sbando. Ma ora c’è in loro “un di più”: c’è il suo Spirito, il suo respiro, ciò che fa vincere e che fa vivere l’umanità con il perdono: “a chi perdonerete…”. La misericordia è un bisogno di Dio che è sempre in cerca di ogni “pecora” che si perde.
Otto giorni dopo l’abbandonato ritorna. Gesù non si stanca di cercarli, e li trova ancora rinchiusi. Li aveva inviati per le strade e invece li ritrova ancora chiusi. Gesù li cerca e li accompagna con delicatezza infinita. E nel piccolo gregge cerca proprio colui che dubita, Tommaso. Lo aveva educato alla libertà interiore, a dissentire, ad essere rigoroso e coraggioso, vivo e umano. Gesù non si impone, ma si propone. Non giudica, ma incoraggia e Tommaso si arrende. Si arrende di fronte alle ferite che Gesù non nasconde, anzi esibisce: il foro dei chiodi, toccalo; lo squarcio nel fianco, puoi entrarci con una mano. La Resurrezione non ha cancellato, rimarginato e chiuso le ferite del venerdì santo. La Pasqua non annulla la Croce, ma ne è la continuazione. Le ferite sono l’alfabeto del suo amore. Il risorto non porta altro che le ferite del Crocifisso: da esse non sgorga più sangue, ma luce. Anche nelle ferite dell’umanità di oggi, Dio c’è e le ferite sono come gocce d’oro. Tommaso non le ha toccate, lui le ha baciate quelle ferite, diventate feritoie di luce.
“Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”! Una beatitudine alla nostra portata: noi che tentiamo di credere -apprendisti credenti -, noi che non abbiamo né visto né toccato mai nulla del corpo assente del Signore. Solo accettando di non vedere, non sapere, non toccare, possiamo arrivare alla vera fede: Beati quelli che credono senza la necessità dei segni, credendo alla Parola. Tutti abbiamo i nostri dubbi, ma come Tommaso siamo chiamati, nella pienezza della fede, a vivere questa beatitudine.
Allora il Signore risorto vincerà anche le nostre paure, persino quella della morte. Vivremo anche noi l’esperienza pasquale dei discepoli: Cristo ci donerà la sua pace, la sua gioia e ci renderà vittoriosi sulle paure. La pace e la gioia fioriscono però nella libertà e nel dono di sé: due condizioni, senza le quali, diventa impossibile ogni esperienza di Cristo risorto.
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Gesù, colui che era morto, è vivo. Non siamo impreparati a questo annuncio pasquale. Gesù più volte ce ne ha parlato: “Non vi lascerò orfani, tornerò da voi, voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete”. Ora siete tristi, ma vi vedrò e il vostro cuore gioirà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia. Queste promesse si realizzano il giorno di Pasqua.
Viviamo anche noi questa gioiosa esperienza dei primi discepoli e passiamo come loro, in modo sensibile, dalla tristezza alla gioia pasquale.
L’inizio è cupo. Si cerca un morto, che non è più. Si parte dal pianto della Maddalena e dalla paura dei discepoli. Dallo “shock” della morte di Gesù, all’esigenza di toccare il Cristo risorto. E’ un continuo progredire nella scoperta della fede. Dopo il sabato di silenzio, senza Gesù, siamo al primo giorno della settimana, giorno del Signore: giorno di scoperta.
Si parte dal sepolcro vuoto. La Maddalena esce di casa quando ancora è notte e giunge al sepolcro quando ancora è buio. Sembra avvolta nelle tenebre, nell’incredulità. La fede e la speranza in Gesù risorto stenta a riaffiorare. Non ha niente tra le mani, non porta aromi come le altre donne, ha soltanto il suo amore che si ribella all’assenza di Gesù. Amava tanto il maestro anche se morto, e il suo sepolcro era segno di una presenza. Ma ora non c’è più. Per lei, qualcuno l’ha trafugato, un cadavere non si muove da sé. Il sepolcro è aperto come il guscio di un seme.
Il discepolo “che Gesù amava” si distingue da Pietro, che aveva rinnegato Gesù ed era fuggito. Lui era entrato senza paura nella casa del sommo sacerdote, non aveva avuto paura di essere riconosciuto come discepolo, aveva seguito Gesù sino al Calvario, e ora giunge per primo al sepolcro. Pietro osserva e riflette: i panni mortuari c’erano tutti, non può quindi essere stato trafugato. Giovanni non ha bisogno di vedere per credere e constata che Gesù non è più avvolto nei panni funebri. Quindi è vivo : “vide e credette”. Gesù ha veramente il potere di dare la vita e riprenderla. E’ realizzata la sua parola: “Il terzo giorno risorgerò”. La fede ha fatto così il primo passo. Il secondo sarà: vedere Gesù.
Il primo segno della resurrezione è: un corpo assente dalla tomba. Manca un corpo alla contabilità della morte, manca un ucciso alla contabilità della violenza.
Il Signore Gesù non è semplicemente il Risorto, l’attore di un evento che si è consumato una volta per tutte nel giardino fuori Gerusalemme, in quell’alba del primo giorno dopo il sabato. Un evento concluso? No. Se noi tutti formiamo il corpo di Cristo, allora contemporanea a noi è la croce, e contemporanea a noi è anche la resurrezione. Chi vive in Gesù è preso da lui nel suo risorgere.
Cristo è il Risorgente adesso. Sorge in questo momento dal fondo del mio essere, dal fondo di ogni uomo, dal fondo della storia, continua a risorgere, a immettere con la mano viva del creatore germi di speranza e di fiducia, di coraggio e di libertà. Cristo Gesù risorge oggi, vita che germina, masso che rotola via dall’imboccatura del cuore. E mi indica la strada della pasqua, che vuol dire passaggio ininterrotto dall’odio all’amore, dalla paura alla libertà, dall’effimero all’eterno.
Cristo non è semplicemente il Risorto, egli è la Risurrezione stessa. Prima viene la risurrezione da tutte le nostre tombe, dal nostro respiro insufficiente, dalla vita chiusa e bloccata, dal cuore spento, dal gelo delle relazioni. Prima la risurrezione di noi “i morti vivi” e poi la vita piena nel sole, e poi la vita meriterà finalmente il nome di vita.
La sua resurrezione non riposerà finché non sia spezzata la tomba dell’ultima anima, e le sue forze non arrivino all’ultimo ramo della creazione. La Pasqua vuole sollevare la nostra terra, questo pianeta di tombe. Cristo è disceso agli inferi, è andato fino nel fondo oscuro della materia, negli inferi della storia, per dare loro energia e direzione verso la luce. Se cominciamo a pensare che nelle parti oscure del nostro essere è discesa la luce divina per illuminarci, per risuscitare amore e bellezza, allora anche noi possiamo dire di essere nella Pasqua. In ciascuno di noi, il Cristo, qui ora risorgente, vuole trascinare verso l’alto, come un fiume di luce, tutte le cose, fino a che sarà tutto in tutti. Pasqua è l’annuncio più bello e impegnativo della storia. Va contro ogni evidenza e ogni logica. Bello perché la vita si riaccende di vita, se credo. Da qui nasce il nostro impegno a trasformare la debolezza in forza, la maledizione in benedizione, la croce in gloria, i nostri difetti in energia nuova, le nostre fughe in una corsa trepida. Perché tutti corrono nel mattino di Pasqua? Che bisogno c’era di correre? Tutto ciò che riguarda Gesù non sopporta mediocrità, merita la fretta dell’amore: l’amore ha sempre fretta, chi ama è sempre in ritardo sulla fame di abbracci. Sospinti da un cuore in tumulto, hanno ansia di luce. Ricordiamo che Gesù prese su di sé la morte che trovò in noi, e così assicurò quella vita che da noi non può venire. “Fece sua la nostra morte e nostra la sua vita” (S. Agostino). Siamo sollecitati a non essere cristiani che sembrano avere uno stile di quaresima anche a Pasqua.