Autore: Parrocchia di Fontane

  • DALL’AMORE GRATUITO IL PIU’ BELLO DEI SÌ – Lc 1,26-38

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    DALL’AMORE GRATUITO IL PIU’ BELLO DEI SÌ – Lc 1,26-38
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    Vangelo

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    Il Vangelo di Luca sviluppa il racconto dell’annuncio a Maria come la zoomata di una cinepresa: parte dall’immensità dei cieli, restringe progressivamente lo sguardo fino ad un piccolo villaggio, poi ad una casa dove c’è una ragazza, occupata nelle sue faccende e nei suoi pensieri. L’angelo Gabriele vola dall’immensa spianata del tempio di Gerusalemme (Zaccaria), verso una casetta qualunque di povera gente, in una contrada sconosciuta. Dal sacerdote anziano nel suo pieno servizio, ad una ragazza vergine; dalla città di Dio, ad un paesino senza storia, in una borgata disprezzata della Galilea abitata da persone meticce. La nostra storia cristiana non inizia al tempio, ma in una casa. Ma qual’è il senso che l’evangelista ha voluto dare al racconto? 

    Il racconto mostra due fedeltà: La fedeltà di Dio che compie meraviglie, mantiene le promesse fatte a Davide (il dono della discendenza) e la fedeltà di Maria che accoglie la Parola di Dio con una disponibilità totale e definitiva (la risposta). E’ l’annuncio che Dio salva, Dio chiama e affida ad una libera creatura un compito nell’opera della salvezza. Tutta la Trinità: Padre e Figlio e Spirito Santo sono presenti nel portare la salvezza, e Maria che liberamente entra in questo agire di salvezza della Trinità.

       Il racconto è racchiuso da due espressioni: l’entrata dell’angelo nel luogo dov’è Maria, il suo allontanamento da essa. L’angelo Gabriele entrò da lei. E’ bello pensare che Dio ci sfiora, ci tocca nella nostra vita quotidiana, nella nostra casa.

     Il primo momento (28-29) dice quanto Dio ha operato in Maria: Il Signore è con te.

    Tre volte parla l’angelo: una parola di gioia, “kaire”; una contro la paura, “non temere”; un’ultima parola perché ci sia vita nuova, “lo Spirito verrà e sarai madre”. L’angelo propone le tre parole assolute: gioia, fine di ogni paura, e vita: “rallegrati”, “non temere”, “ecco verrà una vita”. L’invito alla gioia è motivato da quanto Dio ha già fatto e continua a fare in Maria. Ripercorrendo la sua storia, Maria è invitata a scoprire come mai Dio l’ha colmata di grazia: Dio la chiamava ad un compito ben difficile da eseguire, che superava le forze umane, quindi impossibile, se la persona è lasciata sola a se stessa. Dio però sarà sempre con lei, rendendola continuamente capace di assolvere alla sua missione: essere Madre del Messia, Madre-Vergine del Figlio di Dio. L’angelo, non solo a Maria, ma anche a tutti noi assicura che i segni dell’avvicinarsi di Dio sono questi: si moltiplica la gioia, la paura si dissolve, risplende la vita, nasce anche per noi la missione, che solo col continuo aiuto che ci viene assicurato, possiamo realizzare.

    Maria, chiamata per una missione, prima è invitata alla gioia. La prima parola dell’angelo è proprio un invito alla gioia, quella cosa buona e rara che tutti, tutti i giorni, cerchiamo. Apriti alla gioia, come una porta si apre al sole, perché Dio si avvicina e ti stringe in un abbraccio, viene e porta una promessa di felicità. Maria ascolta. Lo stupore, il turbamento di Maria di fronte al saluto, sottolineano una parola, che, dopo aver provocato una scoperta, constatazione dell’abbondanza di grazia presente, sollecita la ricerca di sapere come mai le era stata concessa. Anche ognuno di noi è  riempito di Dio, che si è chinato su di noi, si è innamorato di noi. Siamo certi che saremo amati per sempre da Lui. Il nostro nome nuovo davanti a Dio è: essere amati gratuitamente e per sempre, questo perché il  vero nome di Dio è Emmanuele, Dio con noi.  

    –  Nel secondo momento (30-34) l’angelo le spiega. Sarà madre, avrà un figlio, sarà il discendente di Davide, il Messia. Ma in che modo si realizzerà tutto questo, data la sua attuale situazione di verginità, il non aver avuto relazioni con un uomo. Maria domanda: come è possibile? Sta davanti a Dio con tutta la sua dignità umana, con la sua maturità di donna, con il suo bisogno di capire. Vergine-sposata: due termini che esprimono tensione e mettono in discussione la relazione Maria-Giuseppe. Prevarrà la condizione di vergine o quella di sposata? A prima vista sembrerebbe prevalere quella di sposata in quanto Giuseppe è detto discendente di Davide, e il Messia è un discendente di Davide. Giuseppe ha un peso nel racconto e non può essere disatteso, in quanto Maria che è promessa sposa con lui, ha dei doveri di sposa. Prima della totalità dell’assenso, ecco l’importanza della domanda.

    – Nel terzo momento (35-38) l’angelo le dice che non avrà relazioni con un uomo, ma tutto in lei sarà opera di Dio: sarà Madre, lei Vergine promessa sposa. Lo Spirito Santo, che è la potenza dell’altissimo agirà in lei, escludendo ogni intervento dell’uomo. La nube era un segno della presenza di Dio. Ora Maria, diventa il vero Tabernacolo, la vera Arca dell’Alleanza, il Santo dei Santi: in modo pieno in lei si realizza la presenza di Dio tra gli uomini.

    Maria crede a quanto le è stato detto, e nella sua risposta esprime la sua gioiosa fede. Eccomi: in Maria c’è un desiderio gioioso di collaborare (“serva”) a ciò che Dio vuole da lei: è la gioia dell’abbandono totale al volere divino. 

    La storia di Maria è anche la nostra storia. Dio chiama anche noi (pieni di grazia) ad essere strumenti di salvezza. Resi tempio della presenza di Dio: il dono ricevuto deve continuare a farsi dono. Come chiesa, siamo chiamati a continuare a far nascere Gesù nella vita di ogni persona. Dopo aver ascoltato e compreso, diciamo il nostro “eccomi”, portando nel mondo la vera gioia che vince tutte le paure.

  • CHIAMATI AD ESSERE TESTIMONI DI LUCE – Gv 1,6-8.19-28

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    CHIAMATI AD ESSERE TESTIMONI DI LUCE – Gv 1,6-8.19-28
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    Vangelo

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    “Venne un uomo…” Entriamo nella storia contemporanea dell’evangelista. Egli ci parla di Giovanni Battista che di poco precedette la missione di Gesù. Giovanni, figlio del sacerdote Zaccaria, ha lasciato il tempio e il ruolo, è tornato al Giordano e al deserto, là dove tutto ha avuto inizio, e il popolo lo segue alla ricerca di un nuovo inizio, di una identità perduta. Ed è proprio su questo che sacerdoti e leviti di Gerusalemme lo interrogano, lo incalzano per ben tre volte: chi sei? Sei Elia? Sei il profeta? Chi sei? Cosa dici di te stesso?

    L’evangelista però, del Battista, puntualizza il compito che Dio gli ha affidato. Nessuno dubitava che il Battista era un uomo mandato da Dio, ma discutevano sul compito affidatogli da Dio. Per la comunità cristiana, venne come testimone, per rendere testimonianza alla Luce, in quanto non era lui la Luce vera.

    Come ha esercitato la sua testimonianza? L’evangelista ne parla, presentando in tre giorni successivi la testimonianza su Gesù: Il primo giorno (19-28) dice che Giovanni è in relazione a Gesù; il secondo giorno (29-34) è presente Gesù, e allora Giovanni con molta chiarezza dice chi è Gesù; il terzo giorno (35-42) parla di Gesù ai suoi discepoli e due di loro passano dalla parte di Gesù.

    Tu, chi sei? Nel nostro brano (19-23) Giovanni, agli inviati dalle autorità giudaiche, risponde che Lui non è Il Cristo, il Messia atteso. Lui è solo una voce. Il vero testimone indica il Signore, Qualcuno che è più importante; ma subito si tira  da parte. Ha paura di rubare spazio al Signore. La nostra vera identità è Dio; il nostro segreto è in sorgenti d’acqua che sono prima di noi. La vita scorre in noi, come l’acqua nel letto di un ruscello. L’uomo non è quell’acqua, ma senza di essa non è più. Così noi, senza Dio.

    A questo punto entrano in scena i farisei (24-28)  che vogliono avere da Giovanni una spiegazione sulla sua attività da battezzatore. Il suo battesimo è preparazione e mette in attesa di un altro, a cui Giovanni sta dando la sua testimonianza. Il Battista però non attira l’attenzione su un Messia che verrà, ma su un Messia già in mezzo a noi e che noi non conosciamo. Giovanni è il testimone di un Dio già qui. La sua presenza è già fra noi, ma è da scoprire, perché non tutti la vedono, e perciò occorre un profeta che la additi. 

    Tu, chi sei? Domanda decisiva per noi oggi. Tocca alla comunità cristiana sostituire il Battista nell’additare al mondo un Cristo già presente nel mondo. Ognuno di noi è un uomo mandato da Dio, piccolo profeta inviato, testimone della luce di Dio. Un giorno Gesù dirà: “Voi siete la luce del mondo”. Ad ogni credente è affidato il ministero profetico del Battista, quello di essere annunciatore non del degrado, dello sfascio, del peccato, che pure assedia il mondo, sentinella del positivo non dei difetti o dei peccati che assediano ogni epoca e ogni vita, testimone di speranza e di futuro, di sole possibile, di un Dio sconosciuto e innamorato che è in mezzo a noi, guaritore delle vite. Come Giovanni, siamo chiamati a testimoniare un Dio luce, un Dio solare e felice  che ha fatto risplendere la vita, ha dato splendore e bellezza all’esistenza. Testimoni di un Dio che ha immesso splendore e bellezza nell’esistenza, guaritore del freddo, che ha lavato via gli angoli oscuri  del cuore. Dopo di Lui è più bello vivere. Testimoni non di obblighi e divieti, ma del fascino della Luce.

    Pur con i miei peccati e le mie ombre, con tutte le cose che sbaglio e non capisco, con le mie fragilità e i miei errori, nonostante tutto, io posso essere testimone che “Dio è luce e in Lui non ci sono tenebre”. Annuncio che il rapporto con Dio crea nell’uomo e nella storia un movimento ascensionale verso una vita più luminosa. Vale molto di più accendere una lampada che maledire mille volte la notte.Giovanni, testimone e martire della luce, ci fa strada nell’Avvento, perché ci indica come ci si rapporta con Gesù, come siamo chiamati a indicare la sua presenza nell’oggi della storia. La storia vera inizia quando l’uomo, nelle sue albe così ricche di tenebre, sa fissare il suo cuore sulla linea della luce che sta sorgendo: la luce di un Dio che fascia le piaghe dei cuori feriti, che va in cerca di tutti i prigionieri per rimetterli nel sole. Siamo noi trasparenza di tutto questo, eco di parole che vengono prima di noi, che saranno dopo di noi? Siamo con coraggio voce che grida, testimoni di parole finalmente accese. Dio è il cuore, ognuno di noi è voce che dice questo cuore alla nostra porzione di mondo. Il Natale è questo: Dio entra e l’uomo diventa un “nido di sole”.

  • QUELLA VOCE CHE INVITA A PREPARARE LA VIA DEL SIGNORE – Mc 1,1-8

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    QUELLA VOCE CHE INVITA A PREPARARE LA VIA DEL SIGNORE – Mc 1,1-8
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    Vangelo

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    Vuoi essere discepolo di Gesù? Leggi il Vangelo di Marco.

    Vuoi fare esperienza di Gesù? Medita il Vangelo di Marco.

    Vuoi essere testimone di Gesù? Approfondisci il Vangelo di Marco.

    Conoscere Gesù, significa fare esperienza di Lui, sentire che la propria vita entra a poco a poco in sintonia con la sua, tanto da fare proprie le sue esigenze, i suoi ideali, fino a scoprire la vera e profonda amicizia che consiste nel vivere insieme per guardare insieme l’avvenire, per costruire insieme un mondo nuovo in cui ognuno è per l’altro e non per sé. Possiamo chiederci: per me chi è Gesù? Gesù conta nella mia vita? La mia vita non ha senso, senza di Lui? Desidero essere un suo testimone, impegnato nell’annunciarlo?

    Sin dall’inizio Gesù è colui che chiama. Chiama i discepoli perché diventino continuatori della sua opera. Per questo li educa a lungo, insegnando un modo di vivere: perdere la propria vita per gli altri. Malgrado le difficoltà i discepoli non lo abbandonano. Anche noi, ascoltando il Vangelo di Marco, siamo chiamati a farci suoi discepoli, contemplando, da attenti osservatori, il parlare e il modo di agire di Gesù. Nel breve brano di questa domenica, Marco sintetizza tutta questa esperienza, presentandoci quanto Gesù ha compiuto in tutta la sua vita. Si tratta di Vangelo: la buona notizia portatrice di felicità, di gioia, di speranza, di vera salvezza.

    Inizio: come nel libro della Genesi si inaugura una nuova storia, una nuova creazione, con la proclamazione della “buona e bella notizia” (Vangelo): Gesù, Messia e Figlio di Dio. Lui conforta la nostra vita e ci dice: con me vivrai solo inizi buoni. Ciò che fa cominciare e ricominciare a vivere e a progettare è sempre una buona notizia, un presagio di gioia, una speranza intravista. Non ricominciare dal pessimismo, dai problemi, dall’illusorio primato della realtà che sembra dominare il mondo. Ricominciare da una cattiva notizia è solo intelligenza apparente, priva di sapienza di Vangelo.

    Questo inizio non è stato un evento accaduto per caso, ma il realizzarsi delle sante Scritture, soprattutto la profezia di Isaia. Il Vangelo si inserisce in questa lunga attesa dei poveri, degli umili credenti nel Signore, annunciandoci che quanto era stato promesso, si realizza in Gesù di Nazaret. Non un messaggio di Dio, ma una persona: Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, che ora continua ad essere predicato dalla comunità. Gesù è l’inviato di Dio, il Salvatore. Solo sulla croce ci sarà la rivelazione: “Veramente quest’uomo è il Figlio di Dio”.

    Per il profeta Isaia, la lieta notizia è il ritorno dall’esilio babilonese, per Marco, è la venuta di Gesù. Per Isaia, la certezza della presenza liberatrice di Dio, per Marco, è il Figlio di Dio che si è fatto uomo ed è diventato nostro fratello. Gesù è il segno che Dio ha accettato il mondo definitivamente: la sua solidarietà nei nostri confronti è irreversibile. 

    Viviamo allora con attenzione tutte le buone notizie che ogni giorno aiutano a far ripartire la vita: la bontà delle creature, le qualità di chi mi sta accanto, i sogni coltivati insieme, le memorie da non dimenticare, la bellezza seminata nel mondo che crea ogni comunione. A noi spetta conquistare sguardi di Vangelo! E se qualcosa di cattivo o doloroso è accaduto, buona notizia diventa il perdono, che lava gli angoli oscuri del cuore. 

    Giovanni è il messaggero che precede Gesù, il Signore. Dio (io)  a Gesù di Nazaret (tu) manda il suo messaggero a preparargli a strada. Giovanni dunque è il messaggero che precede Gesù: lui è “una voce”, Gesù è “il Signore”. Tutta la missione di Giovanni è racchiusa in questo compito: attirare l’attenzione su Gesù. L’invito è a convertirsi, a cambiare mentalità, a farsi battezzare per aprirsi al perdono di Dio. Giovanni così prepara il popolo ai tempi dello Spirito: Gesù, realizzando le profezie, è proprio Colui che, depositario dello Spirito, purifica mediante lo Spirito, rinnovando ogni cosa.

    Giovanni non dice: verrà, ma viene. Giorno per giorno, continuamente, anche adesso, Dio viene. Anche se non mi accorgo di Lui, viene: è in cammino su tutte le strade. Si fa vicino nel tempo e nello spazio. Il mondo è pieno delle tracce di Dio. C’è chi vede i cieli riflessi in una goccia di rugiada, Giovanni vede il cammino di Dio nella polvere delle nostre strade. Dio è dentro le cose di tutti i giorni, alla porta della nostra casa, ad ogni risveglio. In questo mondo distratto corriamo anche noi il rischio di non vederlo.

    Giovanni, come Isaia, è uno che “apre strade” anche nel deserto, tracce di speranza anche là dove  sembrava impossibile. Ascoltare Giovanni, è diventare come lui. Lui però non è solo il predicatore della conversione, ma il suo modo di vivere nel deserto, è la “figura” del convertito.

    Il profeta è sempre in attesa: insoddisfatto di ciò che ha. Il suo sguardo va verso l’orizzonte, verso una Persona, alla ricerca di ciò che ancora non ha, pronto per nascite e inizi. 

    Il profeta è colui che ri-orienta la vita. Il peccato è l’esperienza di chi non riesce a raggiungere la propria meta e ha perso la strada. Il perdono è Dio che indica di nuovo il punto di arrivo e fa ripartire, è un nuovo inizio.Come preparare la strada al Signore e la conversione in vista della remissione dei peccati? Il Signore non chiede mai che apriamo una strada davanti a noi e la percorriamo per andare a Lui, ma esattamente il contrario. Chiede di sgomberare la strada sulla quale Egli raggiunge noi, viene verso di noi. La strada non è la nostra, ma la sua, del Signore! L’incontro è dovuto alla sua grazia, alla sua ricerca di ciascuno di noi, non ad una nostra iniziativa. Egli viene infatti sulla via della misericordia e del perdono, che Lui solo può tracciare: noi possiamo incontrarlo solo se riconosciamo il nostro peccato.

  • IL RISCHIO DI “ADDORMENTARCI”, ANCHE MENTRE CORRIAMO – Mc 13,33-37

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    IL RISCHIO DI “ADDORMENTARCI”, ANCHE MENTRE CORRIAMO – Mc 13,33-37
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    Vangelo

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    Prima domenica di Avvento: ricomincia l’anno liturgico come una scossa, un bagliore di futuro dentro il giro lento dei giorni sempre uguali, a ricordarci che la realtà non è solo quello che si vede, ma che il segreto della vita è oltre di noi. Abbiamo oggi anche “cambiato” evangelista! Ringraziamo Matteo che ci ha condotto per mano nelle domeniche di quest’anno e diamo il benvenuto ad un nuovo compagno di viaggio, Marco, con il suo Vangelo breve e incisivo.

    Gesù ci invita ad indirizzare il nostro sguardo verso il futuro. Entriamo nel tempo della speranza. Un tempo di incamminati, in cui tutto si fa più vicino: Dio a noi, noi agli altri, io a me stesso. Un tempo in cui impariamo che cosa sia davvero urgente: abbreviare distanze, tracciare cammini d’incontro.

    Una certezza domina questo nostro cammino nella storia: Il Signore verrà. La fine del nostro pellegrinaggio sarà un incontro, e l’attesa è sostenuta da questa esortazione: “State attenti! Non lasciatevi ingannare! Non spaventatevi! Vegliate, vigilate, che non vi trovi addormentati”. Avvisi che sono dati a tutti noi che viviamo l’attesa. Ma cosa significa vigilare

    Il discepolo vigila, se in ogni momento si preoccupa di una cosa sola: dare testimonianza a Gesù affinché il Vangelo raggiunga tutte le nazioni. Noi sappiamo dove andiamo e che cosa dobbiamo fare mentre siamo in cammino verso la meta.

    Nel Vangelo di oggi ci è presentato un padrone che se ne va e lascia tutto in mano ai suoi servi. Una costante di molte parabole, una storia che Gesù ha raccontato spesso. Dio si fa da parte, si fida dell’uomo, gli affida il mondo. Atto dunque di fiducia grande da parte di Dio; assunzione di responsabilità enorme da parte dell’uomo. Come custodire i beni di Dio che abbiamo fra le mani? Beni che sono il mondo e ogni vivente. Non possiamo quindi delegare a Dio niente, perché Dio ha delegato tutto a noi. Certo non siamo noi i proprietari, ma gli amministratori dei beni che Dio ci ha affidato.

    Il Vangelo propone due atteggiamenti iniziali: “fate attenzione e vegliate!” Gesù riempie l’attesa di attenzione. Tutti conosciamo che cosa comporta una vita distratta: fare una cosa e pensare ad altro, incontrare qualcuno ed essere con la testa da tutt’altra parte, lasciare qualcuno e non ricordare neppure il colore dei suoi occhi, per non averlo guardato. Gesti senz’anima, parole senza cuore. Impariamo dalle mamme, che più di tutti conoscono a fondo l’attesa: la imparano nei nove mesi che il loro grembo lievita di vita nuova.

    Fate attenzione: significa porsi in modo “sveglio”, e al tempo stesso “sognante” di fronte alla realtà. Il padrone tornerà: può capitare da un momento all’altro e ci chiederà conto di tutto. Moriamo bene, se ci troverà svegli e non già addormentati! Noi il Signore, certo, non lo vediamo, almeno non lo vediamo con gli occhi del corpo. Sappiamo però che Lui ci ha lasciato diverse cose, i segni della sua esistenza e della sua presenza. Il creatore può sembrare nascosto ai nostri occhi, ma la creazione ci circonda.

    Vegliate con gli occhi bene aperti: scrutare la notte, spiare il lento emergere dell’alba, perché il presente non basta a nessuno. Vegliare su tutto ciò che nasce, sui primi passi della pace, sui primi vagiti della vita e dei suoi germogli.

       Un doppio rischio preme su di noi come dice Isaia: un cuore duro, e una vita dormiente, che non sa vedere l’esistenza come una madre in attesa, incinta di luce e di futuro, una vita distratta e senza attenzione. Vivere attenti alle persone, alle loro parole, ai loro silenzi, alle domande mute; attenti al mondo, al nostro povero pianeta con tutte le sue creature a partire dall’acqua, l’aria, le piante.

    Guardiamo l’agire di Dio e impariamo: “Noi siamo argilla nelle tue mani. Tu sei colui che ci da forma” (Is 64,7).Il profeta invita a percepire il colore, il vigore, la carezza delle mani di Dio che ogni giorno, in una creazione instancabile, ci plasma e ci dà forma; che non ci butta mai via, se il nostro vaso riesce male, ma ci rimette di nuovo sul tornio del vasaio. Con una fiducia che noi tante volte abbiamo tradito, e che Lui ogni volta ha rilanciato avanti. Noi siamo argilla, non tanto esseri fragili e poveri, quanto creature incompiute, incamminate verso una pienezza. Dove c’è la pienezza di umanità, lì c’è Dio. Il nostro Dio fa di tutto perché non ci troviamo impreparati. Ogni giorno giunge e torna da noi; ogni giorno illumina le nostre infedeltà e, se le riconosciamo, le guarisce; ogni giorno bussa alla nostra porta; bussa con la sua Parola, i sacramenti, i fratelli, e ci abitua alla sua venuta definitiva.

    Se tu squarciassi i cieli e discendessi”. Il cristiano sa che la preghiera del profeta è già stata esaudita. I cieli sono aperti e il Figlio di Dio è disceso tra noi. Tuttavia il cristiano attende ancora che la comunione con Dio diventi pienezza, che la verità e l’amore si facciano strada, che il peccato sia vinto e il mondo rinnovato, e che Colui che fu per noi crocifisso, sia da tutti riconosciuto. Il Signore vuole che riempiamo l’attesa di attenzione. Il cristiano deve impegnarsi nel mondo, ma non al punto di dimenticare l’attesa e deve attendere non al punto da dimenticare l’impegno oggi.  Impegniamoci ad essere vigili e attenti per avvertire le occasioni di male che si presentano ogni giorno, ma anche vigiliamo e siamo pronti ad accogliere le numerose occasioni di bene.

  • COSA RESTERÀ DI NOI ALLA FINE? L’AMORE DATO E RICEVUTO – Mt 25,31-46

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    COSA RESTERÀ DI NOI ALLA FINE? L’AMORE DATO E RICEVUTO – Mt 25,31-46
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    Vangelo

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    Le letture liturgiche della messa di Cristo Re hanno lo scopo non tanto di dirci che Gesù è Re, ma di farci comprendere la natura inattesa e sconvolgente della sua regalità. Gesù è re, ma la sua regalità è diversa da quella del mondo. Gesù è un re per gli altri: la sua regalità è dono e servizio, non dominio. Predilige i poveri e i deboli, non i forti.

    La pagina del Vangelo si impone non solo per la forza del messaggio, ma anche per la suggestione della sua scenografia: imponente scena del giudizio universale.

    1. C’è innanzitutto la convocazione dei popoli e la loro separazione. Si parla della fine della storia al futuro. Si tratta di una profezia di quello che avverrà, dopo che tutte le genti avranno ascoltato l’annuncio del vangelo del Regno. Si parla non più di un “Figlio dell’uomo” sofferente, perseguitato, e che nella sua vita condivise in tutto la debolezza della condizione umana, la fame, la nudità, la solitudine, ma di Lui divenuto “Re e Giudice” in tutto il fulgore della sua “gloria”, con tutti gli angeli che gli fanno da corona. È però un re che si identifica con i più umili, i più piccoli: anche nella sua funzione di giudice universale, Gesù rimane fedele alla logica di solidarietà che lo guidò in tutta la sua esistenza terrena. Re glorioso, ma la sua gloria è il trionfo dell’amore che si è manifestato sulla croce. Proprio la croce ha manifestato la vera regalità di Gesù, fatta di amore e di dono di sé. Dio radunerà tutti i popoli. Nel mondo buoni e cattivi erano tutti mescolati, ma giunta “la fine del mondo”, è il momento della separazione.

    Da una parte i “benedetti del Padre mio”: è la famiglia di Dio che si riunisce definitivamente nella casa del Padre, in quel regno che “è stato preparato fin dalla creazione del mondo”. Non si tratta di una cosa improvvisa: fin dall’eternità Dio ci ha chiamati alla vita eterna con Lui, alla comunione con Lui, il Figlio, mediante lo Spirito Santo. Tutto ci viene donato, non prescindendo dai nostri meriti, ma superando ogni nostro merito: è un’eredità.

    2. Il dialogo del re con quelli di destra e sinistra. “Ciò che avrete fatto ai miei fratelli, è a me che l’avete fatto”. Il Padre è nei cieli, ma il cieli del Padre sono i suoi figli: il povero è il cielo di Dio. Quando tocchi un povero, tocchi Dio. Argomento del giudizio non sarà tutta la nostra vita, ma le cose buone della nostra vita: non le fragilità, ma la bontà. Nella memoria di Dio non c’è spazio per i nostri peccati, ma solo per i gesti di bontà e per le lacrime. Perché il male non è rivelatore, mai né di Dio né dell’uomo. È solo il bene che dice la verità di una persona. Davanti a Dio non temo per la mia debolezza, ho paura solo delle mani vuote. Il Padre non guarderà a noi, ma attorno a noi, alla porzione di lacrime e di sofferenti che ci è stata affidata, per vedere se qualcuno è stato consolato da noi, se ha ricevuto pane e acqua per il viaggio, coraggio per oggi e domani.

    Avevo fame, avevo sete, ero straniero, nudo, malato, in carcere: e tu mi hai aiutato. Sei passi di un percorso, dove la sostanza della vita ha un nome: amore. Sei passi per incamminarci verso il Regno, la terra come Dio la sogna. A nessuno di noi è chiesto di compiere miracoli, ma di prenderci cura delle persone. Non di guarire i malati, ma di visitarli, di accudire con premura una persona anziana in casa, di custodire in silenzioso eroismo un figlio disabile, di aver cura senza clamore del coniuge in crisi, di un vicino che non ce la fa. Non c’è domani per chi non si apre al bisognoso, per chi, potendolo, non si è fatto pane dell’affamato. Che cosa resterà della nostra persona quando non rimarrà più niente? Resterà l’amore dato e ricevuto. 

    Gli allontanati da Dio che male hanno commesso? Il loro peccato grave è l’omissione: non hanno fatto niente di bene, non hanno dato nulla alla vita. Si fa del male anche con il silenzio, si uccide anche con lo stare alla finestra. Restare a guardare è già farsi complici del male comune, della corruzione: è la “globalizzazione dell’indifferenza”. L’ultimo giorno mostra la vera alternativa: è tra chi si ferma accanto all’uomo bastonato e a terra, e chi invece tira dritto, tra chi spezza il pane e chi gira dall’altra parte e passa oltre. La salvezza è legata ad un po’ di pane, ad un bicchiere d’acqua, ad un vestito donato, ai passi di una visita. Si può fallire la vita. Lontani dal povero, siamo lontani da Dio, lontani da noi stessi. Il male grande è aver smarrito lo sguardo, l’attenzione, il cuore di Dio fra noi.

    3. Esecuzione delle sentenze.  Noi cristiani abbiamo la fortuna di sapere già chiaramente che cosa dobbiamo fare per salvarci, sappiamo già che, mediante le opere i misericordia, ci salveremo. Non potremo dire: “non lo sapevamo”.

    Fin d’ora viviamo in pienezza la solidarietà umana. Facciamo il bene e, senza dubitare, crediamo che il Signore ci darà una gioia infinita che supera infinitamente ogni nostro merito.

  • CHIAMATI ALLA PIENEZZA DELLA CREATIVITÀ – Mt 25,14-30

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    CHIAMATI ALLA PIENEZZA DELLA CREATIVITÀ – Mt 25,14-30
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    Vangelo

    In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: « Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque». «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». «Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo». Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».

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    Il brano del Vangelo di questa domenica continua, dopo averci indicato l’importanza della vigilanza, a farci riflettere su come vivere l’attesa: noi che abbiamo la certezza della venuta-ritorno del Signore e l’incertezza del quando. Si continua a parlare del “ritardo di questa venuta”: “dopo molto tempo”.

    “Avverrà come di un uomo…”: Dio ci consegna qualcosa e poi esce di scena. Ci consegna il mondo, con poche istruzioni per l’uso, e tanta libertà. È Dio che ha fiducia in noi, ci innalza a con-creatori, lo fa con un dono e una regola, quella di Adamo nel paradiso: coltiva e custodisci il giardino dove sei posto, vale a dire: ama e moltiplica la vita, moltiplica i doni che ti ho dato.

    Per alcuni studiosi, l’uomo che parte per il viaggio è Gesù; i servi, la chiesa, i cui membri hanno ricevuto varie responsabilità. La partenza è quella del Cristo terreno, il lungo tempo della sua assenza, il tempo della Chiesa, il suo ritorno è la venuta finale del Figlio dell’uomo.

     “I talenti” (lingotti d’argento, monete …) non sono le doti o le capacità, ma piuttosto la responsabilità che siamo chiamati ad assumere. La parabola è un‘esortazione pressante ad aver più paura di restare inerti e immobili, che di sbagliare: la paura ci rende perdenti nella vita. La paura paralizza, impoverisce la storia. Siamo chiamati a far fiorire il mondo, ad aver cura dei germogli: l’amore vero è quello che fa diventare l’altro il massimo che gli consentono le sue forze. Dio è la primavera del mondo, e noi l’estate feconda di frutti. La pedagogia del Vangelo ci invita a tener presenti tre grandi regole: non aver paura, non fare paura, libera dalla paura, soprattutto quella di Dio. Il discepolo di Gesù deve muoversi in un rapporto d’amore con Dio, dal quale soltanto possono scaturire coraggio, generosità, libertà, persino coraggio di correre i rischi necessari.

    I primi due servitori sono questa immagine dell’operosità e dell’intraprendenza. Il terzo è pigro, passivo, si limita a conservare. Il contrasto è tra operosità e pigrizia. Il pigro ha una sua idea di Dio, non ha più la fede. L’ha persa col tempo, si è dimenticato di quanto gli era stato affidato, che doveva essere investito. Non vuole correre rischi, si crede giusto, in quanto non ha fatto nulla di male, allorché può ridare al padrone quanto ha ricevuto. Il suo impegno è la scrupolosa osservanza di ciò che è prescritto, nulla di più, nulla di meno.

    La parabola è accogliere l’invito di Gesù a cambiare prospettiva: non la gretta obbedienza e paura, ma l’amore che è senza calcoli, che non si limita a riconsegnare ciò che ha ricevuto. Il vero rapporto tra Dio e l‘uomo è quello dell’amore, da dove soltanto possono scaturire: coraggio, generosità, libertà. Dio poi ci sorprende: non vuole indietro i talenti affidati con gli interessi, anzi la somma rimane ai servitori ed è raddoppiata, moltiplicata: “ti darò autorità su molto…”. I servi vanno per restituire, ma Dio rilancia. Noi non esistiamo per restituire a Dio i suoi doni. Noi viviamo per essere come Dio, a nostra volta, donatori: una spirale di amore che si espande, portando pace, libertà, giustizia, gioia. Cose di Dio, che diventano seme di altri doni, sorgenti di energie. Inoltre, nel momento del rendiconto, colui che consegna dieci talenti non è più bravo di che ne consegna quattro. Le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. (I talenti vengono dati secondo le capacità di ciascuno). 

    La parabola vuole aiutarci a comprendere la vera natura del rapporto che corre tra Dio e l’uomo: non paura e timore servile, ma rapporto di amore. La nostra vocazione è di essere emozionati e disciplinati artefici di creazione: il nostro incarico, il nostro vanto è di lasciare il mondo un po’ più bello di come l’abbiamo trovato.

    Il bene affidato ad ogni discepolo è la Parola di Dio e il suo annuncio a tutto il mondo. Il regno è affidato a coloro che sanno far crescere i suoi frutti. Non ci si può presentare al Signore unicamente con quello che si è ricevuto. Il di più che noi presentiamo non arricchisce il Signore, ma diventa il premio superiore ad ogni immaginazione, puro dono e uguale per tutti.  

    Questa parabola non è dunque un’esaltazione, un applauso all’efficienza. Non è un inno alla meritocrazia, ma una vera e propria contestazione verso il cristiano che sovente è tiepido, senza iniziativa, contento di quello che fa ed opera, pauroso di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma neppure “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, che non sanno leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alle comunità cristiane consapevolezza, responsabilità, laboriosità, audacia e soprattutto creatività. La comunità è chiamata a vivere nell’obbedienza alla Parola del Signore che la spinge  verso nuove frontiere, verso nuovi lidi, su strade non percorse, lungo le quali la bussola che orienta il cammino è solo il Vangelo, unito al grido degli uomini e delle donne di oggi che chiedono: “Vogliamo vedere Gesù”. Siccome è più facile seppellire i doni che Dio ci ha dato, piuttosto che condividerli, la parabola ci invita ad aver cura dei beni (talenti) di Dio che ha affidato a noi.

  • NELLA NOTTE, LA VOCE DELLO SPOSO RISVEGLIA LA VITA – Mt 25,1-13

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    NELLA NOTTE, LA VOCE DELLO SPOSO RISVEGLIA LA VITA – Mt 25,1-13
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    In ogni parabola siamo chiamati a cogliere il messaggio come l’evangelista Matteo che lo ha scritto, ce lo ha voluto trasmettere. La parabola vuole portarmi a riflettere su una realtà che è di Dio, non deve essere ridotta a puro insegnamento. Innanzitutto la parabola parte da una situazione concreta di vita in cui si trovavano le prime generazioni cristiane in mezzo alla persecuzione. Il ritardo della venuta finale di Gesù, era un vero e proprio trauma.

    La parabola è costruita ad arte, partendo dalle parole i Gesù, per descrivere questa prolungata attesa della venuta gloriosa del Signore Gesù: è Lui il Messia, “Lo Sposo che tarda”, e il vero problema è come comportarsi in questa attesa. Come vigilare? Il messaggio è rivolto ai discepoli, chiamati a vivere da testimoni dentro gli eventi della storia. Il pericolo è la paura che porta a non sentirsi sicuri neanche nella propria comunità credente. Bisogna guardare ai fatti difficili della storia come l’inizio dei dolori del parto, perché sta per cominciare un mondo nuovo.

    Il Regno è simile a dieci piccole luci nella notte, a queste coraggiose che si mettono per strada e osano sfidare il buio e il ritardo: hanno l’attesa nel cuore, perché aspettano qualcuno, uno sposo, un po’ d’amore dalla vita, lo splendore di un abbraccio in fondo alla notte. Ci credono. La parabola vuol mantenere viva la certezza del ritorno del Signore e suggerisce come comportarsi nel tempo dell’attesa.

    Una parabola difficile, anche perché si chiude con un esito duro (“non vi conosco”), piena di incongruenze che sembrano voler oscurare l’atmosfera gioiosa di questa festa nuziale. Tutti i protagonisti della parabola fanno brutta figura: lo sposo con il suo ritardo esagerato che mette in crisi tutte le ragazze; le cinque stolte che non hanno pensato ad un po’ d’olio di riserva; le sagge che si rifiutano di condividere; quello che chiude la porta della casa in festa, contro tutte le usanze, in quanto tutto il paese partecipava all’evento  delle nozze … Gesù usa tutte le incongruenze per provocare e rendere attento l’uditorio.

    La nostra parabola parte ritraendo le usanze matrimoniali palestinesi: il giorno precedente le nozze, al tramonto, il fidanzato si recava con gli amici a casa della fidanzata, che lo attendeva insieme ad alcune amiche.

    Il Regno è simile a dieci ragazze, armate solo di un po’ di luce, quasi niente, anche perché intorno è notte. Sono le damigelle d’onore della sposa. Gesù non spiega cosa sia l’olio delle lampade. Sappiamo che ha a che fare con la luce e con il fuoco. L’olio è qualcosa che deve essere acquistato a caro prezzo, con la fatica quotidiana e la laboriosità. La “donna forte” (Pr 31,18): “Non si spegne di notte la sua lampada”. Donna che si alza di buon mattino e va a dormire a sera tardi, pensa al bene del marito e dei figli e anche a quello dei poveri. L’olio conservato nella sua lampada è il concentrato di questa capacità sapienziale di gestire la vita.

    Per l’evangelista Matteo ci sono persone sagge e stolte. Le sagge costruiscono la loro casa sulla roccia, con solide fondamenta: saggio è chi fa la volontà del Padre (Mt 7,21).

    Vergini sagge sono le persone che riempiono le loro giornate di opere buone: fanno la volontà di Dio, amano come ama Dio, agiscono con la forza che Lui dona, comunicano vita agli altri. “Risplenda la vostra luce”… 

    Vergini stolte, sono quelle che hanno un vaso vuoto, una vita vuota. Mancano di olio, non sono luce. Non avevano preventivato “il ritardo dell’attesa”, un ritardo che si protrae oltre il solito. Pensano di trovare subito l’olio che manca, ma non è così facile. “Chiunque non mette in pratica le mie parole assomiglia ad un uomo stolto” (Mt 7,26). Per vivere, la comunità cristiana deve conservare con fatica la razione quotidiana di olio e non può permettersi di dimenticarla.

    Dateci del vostro olio … no…: risposta dura. Nel giudizio ognuno deve rispondere di sé. L’incontro con il Signore che tornerà, è sicuramente un incontro gioioso, ma richiede preparazione e costanza, equipaggiamento e intelligenza. E’ un richiamo alla responsabilità: un altro non può andare al mio posto, essere buono o onesto al posto mio, desiderare Dio per me. Se io non sono responsabile di me stesso, chi lo sarà per me? L’olio non può essere né prestato, né diviso. E’ impossibile avere in extremis l’olio necessario. L’incontro con il Signore va preparato prima. La furbizia di chi pensa di cavarsela all’ultimo momento non torna. 

    E’ inevitabile addormentarsi nell’attesa, come accade per tutte e dieci le vergini: quello che conta non è tanto cadere assopiti per la fatica, ma essere preparati all’incontro.“Ecco lo sposo! Andategli incontro!” E’ l’immagine più bella dell’esistenza umana. Quella voce nel buio della mezzanotte, ha la forza di risvegliare la vita. Quella voce, anche se tarda, di certo verrà;  ridesta la vita da tutti gli sconforti, consola dicendo che Dio non è stanco di noi, che disegna un mondo colmo di incontri e di luce. A noi basterà avere un cuore che ascolta, e ravvivarlo, come fosse una lampada,e uscire incontro a chi ci porta un abbraccio. Nel fondo della notte, uscire per lo splendore di un abbraccio

  • DIO REGALA VITA A CHI PRODUCE AMORE – Mt 5,1-12a

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    DIO REGALA VITA A CHI PRODUCE AMORE – Mt 5,1-12a
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    Vangelo

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    Le beatitudini sono il cuore del messaggio di Gesù, del Vangelo. Il messaggio è rivolto a tutti. Dio si prende cura della gioia dell’uomo. Dio regala vita a chi produce amore. Se uno si fa carico della felicità di qualcuno, il Padre si fa carico della sua felicità. C’è un Dio che si prende cura della nostra gioia, tracciandoci la strada.

    Le beatitudini sono innanzitutto una proclamazione messianica, un annuncio che il Regno di Dio è arrivato. Il tempo dei poveri, degli affamati, dei perseguitati, degli inutili annunciato dai profeti, con Gesù è arrivato. Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza; per Gesù sono al presente: oggi i poveri sono beati, perché in loro già adesso Dio è presente; così sono più liberi, più pieni di speranza per il futuro. Questa buona notizia, Gesù la manifesta con il suo comportamento, verso i piccoli, i poveri, gli ammalati, i diseredati, i discreditati di ogni specie, a cominciare dai peccatori. Gesù annuncia che il Regno di Dio è arrivato per tutti: di fronte all’amore di Dio non ci sono i vicini e i lontani, non ci sono emarginati: anzi coloro che noi abbiamo emarginato, sono i primi.

    Il modo di vivere di Gesù manifesta che già si sta realizzando il Regno di Dio, che è soprattutto salvezza per tutti gli uomini, a cominciare dai più infelici. Prima della proclamazione delle beatitudini, Matteo ci presenta in poche parole la vita di Gesù (4,23-24): lo circondavano ammalati di ogni genere, sofferenti, indemoniati, epilettici. Gesù ha cercato i poveri e li ha amati, preferiti. Sta qui il paradosso delle beatitudini: La vita di Gesù dimostra che i poveri sono beati, perché sono al centro del Regno, e perché sono essi, i poveri, i crocifissi, che costituiscono la storia della salvezza. Dio è dalla parte di chi piange, ma non dalla parte del dolore. Dio non ama il dolore, ma è con noi nel riflesso più profondo delle nostre lacrime, per moltiplicare il coraggio, per fasciare il cuore ferito, nella tempesta è al nostro fianco, forza della nostra forza.

    Quando vengono proclamate, le beatitudini sono affascinanti, ci sembrano possibili e persino belle, ma poi ci accorgiamo che per abitare la terra, questo modo aggressivo e duro che ci siamo scelti, è il manifesto più difficile e incredibile, stravolgente e contromano, che possiamo pensare. Le beatitudini accendono certo la nostalgia prepotente di un mondo fatto di bontà, di non violenza, di sincerità, di solidarietà. Disegnano un mondo tutto diverso di essere uomini, amici del genere umano e al tempo stesso amici di Dio; che amano il cielo e custodiscono la terra, sedotti dall’eterno, eppure innamorati di questo tempo difficile e confuso: questi sono i santi. Non persone che hanno compiuto azioni speciali, ma i poveri e tutti quelli che l’ingiustizia del mondo condanna alla sofferenza. 

    Il vangelo ci presenta nelle beatitudini la regola della santità. Si tratta di illuminare le vicende di tutti i giorni: fatiche, speranze, lacrime. Nell’elenco delle nove beatitudini ci siam tutti noi: poveri, piangenti, incompresi, quelli dagli occhi puri, che non contano niente agli occhi del mondo.

    Ci soffermiamo ora sulla prima e l’ultima delle beatitudini. Le prime tre beatitudini (poveri, afflitti, affamati) formano un blocco unitario e l’ultima beatitudine costituisce una unità nettamente distinta.

    Poveri in spirito: persone umili e modeste, dolci e pacifiche, pazienti nelle umiliazioni, ma anche vittime senza difesa di fronte agli oppressi e ai violenti, esposte ad ogni sorta di vessazioni e umiliazioni, impossibilitate ad ottenere giustizia. Queste persone sentono Dio come colui che ripara  torti, loro difensore e protettore. La loro speranza è solo in Dio che protegge il povero, è suo sostegno e rifugio. È soprattutto l’esperienza di coloro che si riconoscono peccatori. Persone incapaci di togliere se stessi dalla situazione miserabile in cui si trovano. Gesù annuncia che la sua missione è proprio quella di portare aiuto e fare uscire queste persone dalla loro miseria. (Significativi tutti gli incontri di Gesù con i peccatori, le parabole, i messaggi più significativi del Vangelo).

    Ai peccatori è riconosciuto un privilegio proprio a motivo della loro condizione peccatrice. Per Dio Padre e per Gesù, il peccatore è l’oggetto di una preoccupazione tutta particolare proprio a motivo del suo smarrimento e della miseria spirituale in cui si trova. Il privilegio dei peccatori sta nel fatto che Gesù è stato inviato in modo speciale a loro, in quanto consentono a Dio di manifestare la sua sollecitudine per gli uomini. Egli vuole che non si perdano definitivamente, e assicura loro la salvezza e la felicità del Regno di Dio. La situazione privilegiata dei peccatori sta nella compassione misericordiosa che Dio ha verso di loro. Il Regno che Gesù inaugura è soprattutto tempo di grazia e perdono, un tempo di misericordia a favore dei peccatori.

    Beati voi quando vi perseguiteranno… rallegratevi ed esultate. Si tratta dei discepoli di Gesù che avranno da soffrire per la loro fede in Cristo. Queste sofferenze procureranno loro una grande ricompensa nell’ultimo giorno. La felicità è legata alla fede dei discepoli, al loro soffrire per Cristo, una fede che dovrà essere capace di attraversare la prova della persecuzione, mantenendoli a qualunque costo, fedeli a Cristo.

    Le beatitudini, mentre annunciano l’avvento del Regno di Dio e il modo di comportarsi, invitano ognuno di noi a seguire uno stile di vita che permetta di aver parte ai benefici del Regno. Quali disposizioni spirituali, ad esempio, avere per riconoscerci poveri e poter così vivere la gioia di aver parte dei benefici del Regno?Le beatitudini compongono nove tratti del volto di Cristo e di ciascuno di noi. Tra queste nove parole proclamate e scritte per me, devo individuare e realizzare quella che ha la forza di farmi più persona, quella che contiene la mia missione nel mondo e la mia felicità. Su di essa sono chiamato a fare il mio percorso, a partire da me, ma non per me, per un mondo che ha bisogno di esempi raccontabili, di storie del bene che contrastino le storie del male, di cuori liberi e puri che si occupino della felicità di qualcuno. Dio si occuperà della mia: “Beati voi

  • UN CUORE CHE AMA DIO SI DILATA PER AMARE I FRATELLI – Mt 22,34-40

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    UN CUORE CHE AMA DIO SI DILATA PER AMARE I FRATELLI – Mt 22,34-40
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    Davanti a Gesù c’è uno dei suoi avversari, un fariseo, un dottore della Legge, un esperto: forse la sua domanda esprime una sua necessità di chiarezza. Tra i 613 comandamenti, ne esiste uno che sia il più grande? Per i rabbini d’Israele era il terzo, che ogni ebreo era tenuto ad osservare: quello che prescrive di santificare il sabato, perché anche Dio lo ha osservato (“il settimo giorno, si riposò”).

    Amerai: Gesù indica qualcosa che sta al centro dell’uomo: tu amerai. Lui sa che ognuno di noi ha bisogno di molto amore per vivere bene. Gesù offre il suo Vangelo come via per la pienezza e la felicità di questa vita. Gesù crede nell’amore, si fida dell’amore, fonda il mondo su di esso. Nell’amerai c’è un invito a guardare il futuro, ricordando che si tratta di un’azione mai conclusa. Non un obbligo, ma una necessità per vivere, come è il respirare. Il verbo al futuro racconta la nostra storia infinita. Noi cristiani siamo quelli che credono all’amore, come forza determinante della storia. È un progetto, anzi l’unico. E dentro c’è la pazienza di Dio. Un futuro che traccia strade e indica una speranza possibile.

    Ama con tutta la mente: l’amore rende intelligenti, fa capire prima, va più a fondo.

    Ama con tutto il cuore: non significa amare Dio solamente, ma amarlo senza  mezze misure, e vedrai che il tuo cuore invece di diminuire, cresce e si dilata in modo che tu possa amare il marito, la  moglie, il figlio, l’amico, il povero … Dio non è geloso del nostro amore, non ruba il cuore: lo moltiplica.

    Ama con tutte le forze: l’amore rende forti, capaci di affrontare qualsiasi ostacolo e fatica.

    Lo scriba aveva chiesto quale sia il più grande comandamento, Gesù rispondendo, elenca due inviti, ma dentro raccoglie tre oggetti d’amore e proietta il cuore in tre direzioni: ama il tuo Signore, ama il tuo prossimo, come ami te stesso. Il terzo comandamento  purtroppo è sempre dimenticato: “Ama te stesso”, perché sei come un prodigio, porti l’impronta della mano di Dio. Se non ami te stesso, non sarai capace di amare nessuno, saprai solo pretendere e possedere, fuggire o violare, senza gioia né gratitudine.

    Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze”, lo troviamo già nella grande preghiera che ogni israelita fa all’inizio della giornata (Dt.6,4-5); “Ama il prossimo tuo come te stesso”, lo troviamo in Lv 10,18. 

    Il primato dell’amore di Dio è affermato da Gesù  senza esitazione. L’amore per l’uomo viene per secondo. Per Gesù i due precetti uniscono il cielo alla terra, l’uomo a Dio, l’uomo all’uomo: l’amore “verticale” (amare Dio) e quello “orizzontale” (amare il prossimo), e non possono più essere separati. Il primato dell’amore di Dio si concretizza e si visibilizza nel riconoscimento del primato dell’uomo. L’amore per Dio è “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente”. L’amore per l’uomo è “come se stesso”. La totalità appartiene solo al Signore: Lui solo deve essere adorato. Ma l’appartenenza al Signore non può essere senza l’amore per l’uomo: c’è uno stretto legame. Non può esistere l’amore per Dio senza quella per il prossimo. Amare l’uomo è simile ad amare Dio: Il prossimo è simile a Dio: questa è la grande rivoluzione di Gesù: il prossimo ha volto e voce e cuore simili a Dio, è terra sacra davanti alla quale togliersi i calzari. Il secondo comandamento è simile al primo, anzi il criterio per sapere se sto osservando il primo è come sto vivendo l’amore al prossimo. Il grido del prossimo è da ascoltare come fosse Parola di Dio, il suo volto come una pagina del libro sacro.

    Ci sono due possibili rischi: nella generosa lotta per l’uomo, può nascondersi una dimenticanza del primato di Dio, che invece deve essere affermato con tutta chiarezza. L’uomo è fatto per Dio, ecco ciò che non va dimenticato, neppure là dove la povertà e l’ingiustizia sono grandi. L’altro rischio è di partire e parlare sempre e solo di Dio. Dio è per l’uomo. La novità cristiana sta nel mantenere unite le due affermazioni.

     Non dimentichiamo che per trascinare in alto tutta la nostra persona, come dice S. Agostino, dobbiamo immaginare l’uomo con due ali. Un’ala è “amerai il Signore con tutto il tuo cuore…”; l’altra ala è: “amerai il prossimo...”. Per volare ci vogliono tutte e due, ricordando quanto dice S. Giovanni: “Se non ami il fratello che vedi, non potrai amare Dio che non vedi” (Gv 4,20). 

    Da dove cominciare? Lasciamoci amare da Dio, che entra, dilata, allarga le pareti di questo piccolo vaso che siamo ciascuno di noi. Noi siamo degli amati che diventano amanti.

  • A CESARE LE COSE, A DIO LE PERSONE – Mt 22,15-21

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    A CESARE LE COSE, A DIO LE PERSONE – Mt 22,15-21
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    A Gerusalemme Gesù è coinvolto in una serie di dibattiti che chiamano in causa i gruppi più rappresentativi del giudaismo. Queste dispute su questioni teologiche o come la nostra, sulla politica e la terra, erano molto frequenti al tempo di Gesù. L’episodio pone due personaggi a confronto: Gesù e gli interroganti. Gesù è definito un maestro “veritiero” che insegna la via di Dio “secondo verità”, e che non “guarda in faccia nessuno”. Non è condizionato dal consenso della popolarità: dice ciò che è vero, comunque esso sia. Tutto il contrario la figura degli interroganti, maliziosi, capaci di fingere per trarre in inganno.

    La trappola è ben congegnata. E’ lecito o no pagare il tributo a Roma? Stai con gli invasori o con la gente? Si trattava della tassa da pagare a Cesare. Riguardava i cittadini adulti di Giudea, Samaria e Idumea che dal 6 d. C. dovevano pagare all’imperatore, come riconoscimento della sua sovranità. Il tributo non era opzionale, ma obbligatorio. Si versava con una moneta speciale che recava l’immagine di Cesare. L’iscrizione nella moneta diceva: al divino Cesare appartiene. Quell’immagine era un abominio per un credente, serviva come propaganda da parte di Roma, per promuovere il culto del sovrano. Gesù scinde di netto l’unità delle due parole: Cesare non è Dio. Altro è Cesare, altro è Dio. A Cesare le cose, a Dio le persone.

    Erodiani e farisei, pur essendo nemici giurati tra loro, in questo caso si accordano contro il giovane rabbì di cui temono le parole: vogliono stroncare la sua carriera. Sanno già che cosa Gesù pensa di se stesso e sanno anche che la folla lo considera “un profeta”, cioè un inviato di Dio. Essi però lo vogliono arrestare, ma debbono avere motivi validi per farlo. Studiano bene il loro piano (“tennero consiglio”). Sono decisi ad andare fino in fondo contro di lui: hanno deciso di farlo morire. Non cercano il dialogo, ma un motivo per accusarlo e ucciderlo. Con qualsiasi risposta, Gesù avrebbe rischiato la vita: o per la spada dei Romani, come istigatore alla rivolta, o per il pugnale degli Zeloti, come sostenitore degli occupanti. 

    Mostratemi la moneta del tributo”. Gesù non può sottrarsi dal rispondere. Vuol vedere insieme a coloro che lo interrogano,  la moneta del tributo. Così costringe a esporsi coloro che obbligavano Lui a farlo. Siamo a Gerusalemme, nell’area sacra del tempio, dove non doveva entrare nessuna effige umana, neppure quella impressa nelle monete. Per questo c’erano i cambiavalute all’ingresso. I farisei, i devoti, tengono con sé, nel luogo sacro del Signore, la moneta pagana proibita, il denaro dell’imperatore Tiberio, e così sono loro a mettersi contro la legge, e a confessare qual è in realtà il loro Dio: il loro idolo è mammona. La moneta l’avevano in tasca: questo implica che già pagavano le tasse, dunque la loro domanda è pretestuosa. I commedianti sono così smascherati. Il profilo dell’imperatore sulla moneta non era solo un semplice omaggio, ma indicava la proprietà. L’iscrizione sulla moneta diceva: “al divino Cesare”. Gesù vuol disinnescare questa sintesi pericolosa: Cesare non è Dio. 

    Date a Cesare quello che è di Cesare”. Gesù sostiene che le tasse devono essere pagate. Riconosce che ci sono i diritti dello Stato, e quando lo Stato rimane nel suo ambito, questi diritti si tramutano in doveri di coscienza. Gesù cambia il verbo “pagare” in “restituire”: come a dire: pagate tutte le imposte per  servizi che raggiungono tutti: istruzione, sanità, giustizia, lavoro, sicurezza, strade… Prima avete ricevuto, ora restituite.

    Rendete a Dio quello che è di Dio”. A Dio spetta la persona. “Di Dio è la terra e quanto contiene”: l’uomo è cosa di Dio: di Dio è la mia vita che “Lui ha fatto risplendere per mezzo del Vangelo”. Devo restituire niente di meno che me stesso: la mia vita, facendo brillare l’immagine coniata in me, progressivamente. Nulla di ciò che ho è mio, di nulla sono proprietario, se non del cuore. Sono figlio di un dono: da Dio ricevo il respiro, il volere e l’operare, il gioire e l’amare. Sono un talento d’oro nel giardino del mondo, che porta l’immagine di Dio, che sono chiamato a restituire solo a Dio. L’uomo e la donna sono dono che proviene da Dio. Siamo chiamati a restituirli a Lui, onorandoli, prendendocene cura come di un tesoro. Ogni uomo e ogni donna sono talenti d’oro che portano l’immagine e l’iscrizione di Dio.

    Gesù c’invita a restare liberi e a ribellarci ad ogni tentazione di essere venduti e posseduti. Gesù ci sollecita a dire al potere: non ti appartengo. Ad ogni essere umano dice: non appropriarti dell’uomo, non ti appartiene; non umiliarlo, non manipolarlo. Ogni creatura è prodigio grande che ha Dio creatore nel sangue e nel respiro.