Autore: Parrocchia di Fontane

  • AL BANCHETTO DEL RE NON PERSONE PERFETTE, MA IN CAMMINO – Mt 22,1-14

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    AL BANCHETTO DEL RE NON PERSONE PERFETTE, MA IN CAMMINO – Mt 22,1-14
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    Vangelo

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    Ecco la terza parabola pronunciata da Gesù nel tempio di Gerusalemme e indirizzata ai capi dei sacerdoti e alle guide religiose che avevano contestato la sua autorità nella predicazione e nell’operare il bene. La parabola è strettamente legata alla precedente, quella dei vignaioli malvagi:   si parla del rifiuto opposto al Signore della vigna o al Re che offre il banchetto. Quando Matteo scrive, Gerusalemme è stata distrutta dai Romani (70 d.C.). Qualcuno interpretava la catastrofe come una punizione inviata da Dio. La parabola però è indirizzata alla comunità cristiana, a tutti, chiamati personalmente al banchetto del Regno.

    Gesù l’avrebbe raccontata per spiegare come mai la sua predicazione veniva rifiutata dai praticanti e veniva invece accolta dai pubblicani e peccatori. Il popolo di Dio rifiuta il Messia e il suo Vangelo, mentre gli altri, i lontani, lo cercano e lo accolgono.

    C’è, nella città, una grande festa, si sposa il figlio del re, l’erede al trono, eppure nessuno sembra interessato.

    1. La sala della festa rimane vuota e triste, impietosa fotografia del fallimento del re: nessuno vuole il suo regalo, nessuno partecipa alla sua gioia. Nessuno sembra interessato. Sono presi dai loro affari, dalla liturgia del lavoro e del guadagno, dalle cose importanti da fare; non hanno tempo, per cose di poco conto: le persone, gli incontro, la festa. Hanno troppo da fare per vivere davvero: non sono felici, hanno perso la gioa del cuore dietro alle cose e agli affari.
    2. Le strade. Dio non può stare solo, vive per creare gioia condivisa, dice ai servi: “Andate per le strade, gli incroci, ai semafori, lungo le siepi...”. Volontà di Dio è che nessuno sia escluso. E’ bello questo Dio, che nel momento in cui è rifiutato, chiama tutti. Dai molti invitati, passa a tutti invitati: dalle persone importanti, agli ultimi della fila: fateli entrare tutti: cattivi e buoni. Addirittura prima i cattivi e poi i buoni, senza mezze misure, senza bilancino, senza quote da distribuire …Volontà di Dio è di raggiungere tutti, nessuno escluso. Noi non siamo chiamati, perché siamo buoni e ce lo meritiamo, ma perché diventiamo buoni, lasciandoci incantare da una proposta di vita bella, buona e felice da parte di Dio. Tutti incamminati, anche con il fiatone, anche claudicanti, ma in cammino. E’ così il paradiso: pieno di peccatori, di gente come noi. Lasciamoci incantare da questa proposta di vita bella, buona felice da parte di Dio. La strada diventa così per noi il simbolo della libertà delle scelte: possiamo percorrerla verso la festa o verso i campi e gli affari. La libertà è così qualcosa di immenso e drammatico, non solo per noi, ma anche per Dio. L’uomo è il rischio di Dio: Il Dio della sala vuota, delle chiese vuote e tristi, il Dio del pane e del vino che nessuno vuole …
    3. L’abito nuziale che un commensale non indossa ed è gettato fuori. (All’entrata nella sala, ciascun invitato riceveva in dono uno scialle da mettersi sulle spalle come segno di festa). Certamente questo dono era stato offerto, ma uno degli invitati lo aveva rifiutato. L’uomo senza veste nuziale non è peggiore degli altri, ma non ha creduto alla festa, non ha portato il suo contributo di bellezza alla liturgia delle nozze. Non pensava possibile che il re invitasse a palazzo straccioni e poveracci.  Non ha capito che si fa festa in cielo per ogni peccatore pentito, per ogni figlio che torna, per ogni mendicante di amore. Si è sbagliato su Dio. “Sbagliarsi su Dio è un dramma, è la cosa peggiore che possa capitarci, perché poi ci sbagliamo sul mondo, sulla storia, sull’uomo, su noi stessi. Sbagliamo la vita” (D.M: Turoldo). L’abito da indossare per non fallire la vita è Gesù. Chiamati a passare la vita a rivestirci di Cristo, a fare nostri i suoi gesti,le sue parole, il suo sguardo, le sue mani, i suoi sentimenti, a preferire coloro che Lui preferiva.  

    Innanzitutto siamo invitati a non pensare Dio lontano, separato; è dentro la sala della vita, in questa sala del mondo, è qui con noi, uno a cui sta a cuore la gioia degli uomini, e se ne prende cura; è qui nei giorni delle danze e in quelli delle lacrime, insediato al centro dell’esistenza, non ai margini di essa. La parabola ci aiuta a non sbagliarci su Dio. Noi pensiamo un Re che ci chiama a servirlo, invece è lui che ci serve. Lo temiamo come il Dio dei sacrifici, invece è il Dio cui sta a cuore la gioia; uno che ci impone di fare delle cose per lui e invece ci chiede di lasciargli fare cose grandi per noi. Ci invita non alla fatica della vigna, ma a nozze, ad una esperienza di pienezza, al piacere di vivere.

      Certamente la parabola ci sollecita: di fronte all’appello del Vangelo non è permesso di essere distratti né esitanti. Inoltre ricordiamo che il giudizio non riguarda solo i primi, ma anche i secondi, quelli che hanno accettato l’invito e possono illudersi di essere a posto. Il giudizio riguarda anche noi. L’essere entrati nella sala non è ancora garanzia. 

    Ripensiamo però soprattutto al giorno del nostro battesimo, quando ci è stato detto: “adesso rivestiti di Cristo”. Il nostro abito è Cristo! Sentiamo eccessive le esigenze di partecipare a questo banchetto? Crediamo veramente alla gioia di questo banchetto a cui siamo invitati? Le cose di Dio ci importano più delle nostre? L’invito alla convivialità è anche invito a passare dall’economia delle cose all’economia delle persone, a prenderci del tempo per l’incontro, per gli amici, per Dio, per la vita interiore.

  • PIÙ FORTE DEI TRADIMENTI, IL PROGETTO DI DIO È VINO DI FESTA – Mt 21,33-43

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    PIÙ FORTE DEI TRADIMENTI, IL PROGETTO DI DIO È VINO DI FESTA – Mt 21,33-43
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    Vangelo

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    La parabola inizia con un richiamo a Is 5,1b-2, dove la vigna del Signore è la casa d’Israele e il padrone è lo stesso Signore. Il racconto ci presenta l’intera storia d’Israele da cui traspare la continua fedeltà di Dio e la continua infedeltà del popolo: “che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna, che io non abbia fatto?”. È l’amore di un Dio appassionato, che fa per noi ciò che nessuno farebbe mai; un Dio contadino che dedica alla vigna più cuore e più cure che ad ogni altro campo. Dio ha per noi una passione che nessuna delusione può spegnere, che ricomincia dopo ogni nostro rifiuto ad assediare i nostri cuori, con nuovi profeti, con nuovi servitori, con il Figlio, e da ultimo con le pietre scartate. Sostiamo dentro questa esperienza: sentiamoci vigna amata, lasciamoci amare da Dio. Noi siamo come delle piccole viti, ma a noi, proprio a noi Dio non vuole rinunciare.

    La comunità di Matteo non può non sentirsi l’erede della vigna del Signore e non può non esaminarsi profondamente se davvero dà i frutti sperati, anche perché il Vendemmiatore viene ogni giorno, viene nelle persone che cercano pane, conforto, vangelo, giustizia, amore.

    Guardiamo innanzitutto Gesù:

    • È cosciente di chiudere definitivamente la serie degli inviati di Dio al suo popolo, di essere il Figlio inviato dal Padre.
    • Gesù è cosciente che non sarà accolto: sarà rifiutato, sarà gettato fuori della vigna (Gerusalemme), sarà scomunicato e ucciso. Dio aveva mandato il Figlio, pensando ad una accoglienza, invece, contro la volontà di Dio, sarà ucciso.
    • Gesù è cosciente che non rimarrà nella morte. Dio lo ha mandato per la vita sua e degli altri. Anche se gli uomini lo uccideranno, l’agire di Dio in Lui non finirà nella morte, lo farà risorgere e costruirà su di Lui un popolo nuovo. Dio ha mandato il Figlio, perché il mondo sia salvo per mezzo di Lui. La sua vita continua ora nella nuova comunità.  

    Guardiamo ora i contadini che non vogliono riconoscere il padrone come tale. Questo è il loro peccato. Si comportano come se la vigna appartenesse a loro. E quando uccidono il figlio lo dicono chiaro: vogliono farsi eredi e padroni. Ma rifiutando la signoria di Dio, rifiutano la pietra angolare, l’unica che tiene il mondo in piedi. Senza il riconoscimento di Dio, il mondo non sta in piedi, la convivenza si frantuma. La parabola è trasparente: la vigna è Israele, i vignaioli avidi sono le autorità religiose, che uccideranno Gesù come bestemmiatore. Questa ubriacatura per il potere e il denaro è l’origine di tutte le vendemmie di sangue della terra.

    Cosa farà il padrone? La risposta delle autorità è secondo logica giudiziaria: una vendetta esemplare, nuovi vignaioli, nuovi tributi. La loro idea di giustizia si fonda sull’eliminare chi sbaglia. Gesù non è d’accordo. Dio non spreca la sua eternità in vendette. Lui non parla di far morire, mai; il suo scopo è far fruttificare la vigna: sarà data a un popolo che produca frutti. La storia perenne dell’amore e del tradimento tra uomo e Dio non si conclude con un fallimento, ma con una vigna nuova. Il sogno di Dio non è il tributo finalmente pagato, non è la pena scontata, i conti in pareggio, ma una vigna che non maturi grappoli rossi di sangue e amari di lacrime. Dio sogna una storia che non sia guerra di possessi, battaglia di potere, ma sia vendemmia di generosità e di pace, grappoli di giustizia e onestà.

    I miei dubbi, i miei peccati, il mio campo sterile non bastano a interrompere la storia di Dio. Il suo progetto, che è un vino di festa per il mondo, è più forte dei miei tradimenti, e avanza nonostante tutte le forze contrarie: la vigna fiorirà. La visione di Gesù è positiva: la storia perenne dell’amore di Dio e del mio tradimento non si risolve in una sconfitta, il mio peccato non blocca il piano di Dio. L’esito della storia è buono, la vigna generosa di frutti. Questa è la novità del Vangelo: Il Regno è una casa nuova la cui pietra angolare è Cristo, una vigna nuova dove la vite vera è Cristo, dove il bene possibile e sperato vale più della sconfitta patita. Patto d’amore mirabile e terribile, perché il frutto che Dio attende è una storia che non generi più oppressi, sangue, ingiustizia e volti umiliati.

  • IL CAMMINO VERSO UN CUORE UNIFICATO – Mt 21,28-32

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    IL CAMMINO VERSO UN CUORE UNIFICATO – Mt 21,28-32
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    Gesù rifiutato – chiesa rifiutata. Siamo allo scontro finale tra Gesù e i capi di Israele. Gesù ha terminato il suo viaggio verso Gerusalemme, la città santa in cui è entrato acclamato quale Messia, figlio di David, dai discepoli che lo accompagnavano e dalle folle; ha cacciato dal tempio quanti impedivano che fosse una casa di preghiera e ha simbolicamente seccato l’albero di fico che non dava frutti. La città è sconvolta e s’interroga su chi è Gesù: questo profeta proveniente da Nazaret. Gesù aveva compiuto un gesto profetico di purificazione del tempio e, annunciando la sua distruzione, aveva annunciato l’inizio di un tempio nuovo, senza bisogno di mercanti. Dopo aver passato la notte a Betania, Gesù ritorna al tempio. Queste sue azioni avevano causato soprattutto una profonda indignazione da parte delle autorità religiose legittime, ma perverse, “sacerdoti e anziani”, che intervengono pubblicamente chiedendo a Gesù con quale autorità compia questi gesti provocatori. Ma Gesù non risponde, anzi pone loro una domanda riguardo alla missione di Giovanni il Battista: missione voluta da Dio o missione che Giovanni aveva inventato per sé? Questo interrogativo non riceve risposta.

    Allora Gesù si rivolge ai rappresentanti del popolo che coinvolgono con le loro decisioni l’intero Israele. Gesù li oppone ai pubblici peccatori (pubblicani) e alle prostitute. Questi sono coloro che non osservano la legge, quelli che secondo la parabola dicono di “no”. Gli altri “voi” sono gli osservanti che hanno detto “sì” alla legge: si ritenevano l’Israele fedele.

    Con la parabola Gesù cerca di causare un ravvedimento in quei suoi avversari che dopo poco tempo saranno i suoi accusatori e i suoi condannatori. Però, anziché interrogarsi e convertirsi, sacerdoti e anziani si indignano ancora di più, comprendendo che la parabola parla proprio di loro, induriranno ancor più il loro cuore, accrescendo la loro opposizione e il loro odio verso Gesù.

    Sia Giovanni Battista che Gesù avevano invitato tutti a riconoscersi peccatori e ad aprirsi all’irrompere del Regno di Dio nella storia. Al centro della parabola, c’è la sorprendente affermazione: “Vi garantisco che i pubblicani e le prostitute entreranno prima di voi nel regno di Dio”. Qui le parole di Gesù si fanno dirette: coinvolgono i suoi interlocutori e noi stessi. È chiaro che Gesù non intende porre un principio, come se volesse affermare che tutti i peccatori, per il fatto stesso di esserlo, entreranno nel Regno e che, al contrario, nessun giusto può entrare. Più semplicemente, Gesù constata una situazione di fatto, che però continua a ripetersi anche oggi. Gesù ha incontrato uomini giusti e praticanti e lo hanno rifiutato, e ha incontrato uomini della strada e lo hanno accolto.

    “Un uomo aveva due figli”. E’ come dire : un uomo aveva due cuori. In quei due figli è rappresentato ciascuno di noi, con in sé un cuore diviso, un cuore che dice “sì” e uno che dice “no”, che dice e poi si contraddice: infatti “non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio “ (Rm 7,15.19). Il primo figlio dice “no”, è un ribelle; il secondo che dice “sì” e non fa, è un servile. Non si illude Gesù. Conosce bene come siamo fatti: non esiste un terzo figlio ideale, che vive la perfetta coerenza tra il dire e il fare. I due fratelli, pur così diversi, hanno qualcosa in comune: la stessa idea del padre come di un estraneo  che impartisce ordini; la stessa idea della vigna come di una cosa che non li riguarda.

    Qualcosa però viene a disarmare il rifiuto del figlio che ha detto no: “si pentì”. Pentirsi significa “cambiare mentalità, cambiare modo di vedere”, di vedere il padre e la vigna. Il padre non è più un padrone da obbedire o da ingannare, ma il capo famiglia che mi chiama in una vigna che è anche mia, per una vendemmia abbondante, per un vino di festa per tutta la casa. E la fatica diventa piena di speranza.

    Chi dei due figli ha fatto la volontà del Padre? Volontà del Padre non è mettere alla prova i due figli, misurare la loro obbedienza. La sua volontà è la fioritura piena della vigna che è la vita nel mondo; è una casa abitata da figli liberi e non da servi sottomessi.

    La parabola si conclude con una dura frase, che si rivolge a noi che a parole diciamo “sì”, ci diciamo credenti, ma siamo sterili di opere buone. Cristiani di facciata con poca sostanza. La conversione per tutti noi è più impegnativa che per coloro che consideriamo ribelli. Quelli che pubblicamente appaiono peccatori e sono da tutti ritenuti tali, sono preda della vergogna e sentono il desiderio di cambiare vita, sono aperti all’invito a convertirsi. Chi, pur peccando di nascosto, ma stimato dalla gente per ciò che appare all’esterno, spesso credendosi migliore degli altri, un esempio, anzi giudicando gli altri con rigidità, trova difficoltà ad avere un vero desiderio di cambiamento, pensa di non aver bisogno di alcuna conversione. Contemporaneamente è però una frase consolante, perché in Dio non c’è ombra di condanna, solo la promessa di una vita rinnovata per tutti. Dio ha fiducia sempre, in ogni uomo; ha fiducia nelle prostitute e ha fiducia in noi, nonostante i nostri errori e i nostri ritardi. Crede in noi, sempre! Allora possiamo cominciare la nostra conversione: Dio non è un dovere: è amore e libertà. È un sogno di grappoli saporosi per il futuro del mondo.

  • COLUI CHE CERCA, ANCHE SE SI È FATTO TARDI – Mt 20,1-16

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    COLUI CHE CERCA, ANCHE SE SI È FATTO TARDI – Mt 20,1-16
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    Continua il dialogo tra Gesù e i discepoli. Si sviluppa su temi scottanti come quello del matrimonio e della verginità (19,3-12); della presenza dei bambini nella comunità (19,13-15); per poi soffermarsi sul distacco dalle ricchezze (19,16-29), sul senso della chiamata. 

    Gesù è in movimento dalla Galilea alla Giudea e poi verso Gerusalemme: esprime così la sua decisione di giungere in fretta alla meta, al compimento della sua missione. Non mancano certo i problemi, le difficoltà, l’opposizione dei responsabili della religiosità ebraica. Gesù però ha l’opportunità di insegnare ai discepoli come si vive la fedeltà alla Parola.

    La parabola vuole spiegare il mistero del “Regno dei cieli”. La vigna rappresenta Israele: Essere chiamati a lavorare nella vigna, significa essere chiamati a far parte del popolo di Dio, segno della presenza del Regno di Dio sulla terra. La vigna è una delle immagini che Gesù ama di più, al punto che arriva a definire se stesso come vite e noi i tralci, per dire che il progetto di Dio per il mondo, sua vigna, è una vendemmia profumata, un vino di festa, una promessa di felicità. Il racconto ci è proposto in tre scene:

    1. A ore diverse, dall’alba fino al tardo pomeriggio, il padrone della vigna esce per ingaggiare lavoratori (1-7). Protagonista è un uomo, un padrone di casa, che agisce dal mattino alla sera, uscendo di casa per andare nella piazza a cercare lavoratori per la sua vigna, com’era abitudine a quei tempi. Li pagherà un denaro, secondo le tariffe del mercato dell’epoca. Esce più volte e a quelli che trova sulla piazza quasi alla fine del giorno chiede ragione del loro starsene senza far niente, ed essi rispondono. “siamo disoccupati”. Il padrone fa molte chiamate, non esclude nessuno, offre lavoro a tutte le ore: esce di casa ben cinque volte. Vuole lui stesso vedere in faccia chi lavora nella sua vigna e vuole stipulare lui stesso i contratti di lavoro.

    S’interessa soprattutto di quegli uomini, più ancora della sua vigna, seduti senza far niente: il lavoro è una dignità dell’uomo. Pensa Lui a questi ultimi, preoccupandosi del loro bisogno: non lavorare significa infatti non mangiare. Tutti quelli che erano sulla piazza del mercato sono stati chiamati, e alla sera non ci sono più disoccupati.

    2. Alla sera paga i lavoratori. Il padrone inizia dagli ultimi, e dà a tutti la stessa paga. La giustizia di Dio è completamente diversa dalla nostra. Ora l’attenzione si concentra sulla reazione dei primi di fronte all’agire del padrone nel modo di trattare gli ultimi, che ricevono il salario di un’intera giornata, pur avendo lavorato un’ora sola. Ai primi non va giù il comportamento del padrone e glielo dicono: tu non tieni conto che abbiamo più meriti di loro. Non è giusto dare la medesima paga a chi fatica molto e a chi lavora soltanto un’ora. Si lamentano perché sono convinti che lavorare nella vigna del Signore sia una fatica e basta, non una fortuna e una gioia. Non hanno capito nulla del Vangelo di Dio. L’uomo pensa secondo misura, Dio agisce secondo eccedenza. Meraviglioso questo volto di Dio, che trasgredisce tutte le leggi dell’economia: non un Dio che conta o sottrae, ma un Dio che aggiunge continuamente un di più. Le sue bilance non sono quantitative, ma guardano il nostro bisogno.

    Negli operai nasce la rabbia per essere stati trattatati come gli altri, e la loro attesa frustrata li spinge a mormorare. Ai loro occhi, questo non riconoscere i meriti, appare come un’ingiustizia.

    3. Il padrone dà ragione del suo agire (13-16).

    • Non ha mancato di giustizia: “Si era convenuto per un denaro”.
    • Non mi è lecito disporre come voglio dei miei beni?”. Una vita retta solo dalla giustizia umana non risolve tutto, e, soprattutto, non unisce le persone, ma le separa. Bisogna unire alla giustizia, l’amore e la generosità.
    • Non è forse cattivo il tuo occhio, perché io sono buono?”.

    La felicità viene da uno sguardo buono e amabile sulla vita e sulle persone. Se l’operaio dell’ultima ora lo sento come mio fratello o mio amico, allora sono felice con lui, con i suoi bambini, per la paga eccedente. Se invece mi ritengo operaio della prima ora e misuro le fatiche, se mi ritengo un cristiano esemplare, che ha dato a Dio tanti sacrifici, che conta le sue azioni per poter enumerare i suoi meriti e ora attendere la ricompensa adeguata, non comprenderò mai i pensieri di Dio, i suoi modi di agire, e non camminerò per le sue vie. Drammatico: si può essere credenti e non essere buoni! La parabola ci invita a non calcolare i nostri meriti, ma a contare sulla bontà di Dio. Mi invita a fare festa con il mio fratello: allora ci sentiremo entrambi più ricchi. Dio non si merita, si accoglie.

    La parabola ci invita a conquistare lo sguardo di Dio. Ognuno di noi è chiamato a interrogarsi.

    Quale vantaggio c’è allora, ad essere operai della prima ora?. Solo un supplemento di fatica? Il vantaggio è quello di aver dato di più alla vita, di aver fatto fruttificare di più la terra, di aver reso più bella la vigna del mondo.

    Al Signore che ci interroga : ti dispiace che io sia buono? Rispondiamo: No, Signore, non mi dispiace, perché sono io l’ultimo bracciante e tutto è dono. Non mi dispiace perché so che verrai a cercarmi ancora,  anche quando si sarà fatto tardi.

    Ma cosa vuol dire oggi per noi essere chiamati a lavorare nella vigna? Ascoltiamo Papa Francesco: “Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza, è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare, spero che ci muova la paura di chiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “voi stessi date loro da mangiare”.

  • L’UNICA MISURA DEL PERDONO È PERDONARE SENZA MISURA – Mt 18,21-25

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    L’UNICA MISURA DEL PERDONO È PERDONARE SENZA MISURA – Mt 18,21-25
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    Sulla esigenza della correzione fraterna e del recupero del fratello che ha sbagliato, Pietro vuol vederci più chiaro, soprattutto nelle situazioni in cui si è offesi personalmente. Pietro interviene come responsabile della comunità credente, scelta da Cristo.

    Alla domanda di Pietro “Signore, quante volte dovrò perdonare a mio fratello se pecca contro di me?”, Gesù risponde che il perdono cristiano è senza limiti (“Settanta volte sette”), cioè sempre. L’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Ma perché farlo? Perché così fa Dio, perché il Regno è acquisire per me il cuore di Dio e poi metterlo nelle mie relazioni. Dobbiamo perdonare senza misura perché Dio ci ha fatto oggetto di un perdono senza misura. È dalla gratuità del dono di Dio che nasce il perdono. Il perdono fraterno è conseguenza del perdono di Dio, ne è la risposta. Per capire il perdono dobbiamo guardare in alto, ma dobbiamo anche guardare nella profondità dell’uomo: non c’è amicizia senza perdono, né famiglia, né fraternità, né pace: Il perdono è necessario per vivere e relazionarsi a tutti i livelli. Vivere il Vangelo, non è spostare un po’ più avanti i paletti della morale, del bene e del male, ma è la lieta notizia che l’amore di Dio non ha misura.

    Per imprimere bene nella mente questa volontà di perdono, Gesù narra una significativa parabola che si sviluppa in tre atti:

    1. Padrone – servo: viene descritto il comportamento insolito di un “re”- padrone potente che tratta i suoi sudditi come servi. Un giorno vuol vedere chiaro la situazione. Uno dei servi gli deve una cifra iperbolica equivalente a 35 chili d’oro: un debito insolvibile, un dato volutamente esagerato, una somma che nemmeno era in circolazione in tutta la Palestina. Il servo si getta a terra, lo supplica, gli promette l’impossibile. Il re diventa il modello della compassione. Sente come sua l’angoscia del servo. Il dolore vale più dell’oro. Al posto del re-padrone ora vediamo il volto  di Dio “ricco di grazia e misericordia”.

    Invitando a perdonare il fratello fino a sette volte,Pietro pensava di essere stato molto generoso in fatto di riconciliazione. La parabola sottolinea la sproporzione della misericordia di Dio, rispetto al limite che Pietro aveva proposto per il perdono. Gesù va oltre le quante volte… e ci narra la misericordia di Dio e l’esigenza che il perdono sia illimitato verso il fratello che pecca.

    2. Il perdonato non sa perdonare. In opposizione a questo cuore regale, ecco il cuore servile. Appena uscito, non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un’ora dopo. Appena uscito, ancora immerso in una gioia insperata, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia, appena fatta l’esperienza di un cuore regale, preso il suo compagno per il collo lo strangolava, gridando: ridammi il mio euro, lui perdonato di miliardi. Non si accorse nemmeno di essere stato supplicato con le stesse parole da lui usate quando supplicava il re. Il servo perdonato non agisce contro il diritto o la giustizia: vuole essere pagato. È giusto, e spietato. È onesto, e al tempo stesso cattivo. Quanto è facile essere giusti e spietati, onesti e cattivi. Giustizia e diritto non bastano a fare nuovo il mondo. Chi riceve misericordia, deve usare misericordia. Di fronte a tanta ingratitudine, dinanzi a un uomo dal cuore così duro, si può solo inorridire e ribellarsi. Gesù propone l’illogica pietà: non dovevi anche tu aver pietà di lui, come io ho avuto pietà di te? Questo per acquisire il cuore di Dio, immettere il suo divino disordine dentro l’equilibrio apparente del mondo.

    3. Giustizia ci vuole. Gli altri servi non chiedono vendetta: solo espongono i fatti al re e lasciano che sia lui a decidere. Giustizia umana è “dare a ciascuno il suo”. Ma ecco che su questa linea dell’equivalenza, dell’equilibrio tra dare e avere, dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell’eccedenza: perdonare settanta volte sette, amare i nemici, porgere l’altra guancia, dare senza misura.

    Non dovevi forse anche tu aver pietà di lui, così come io ho avuto pietà di te?” Non dovevi essere anche tu come me? Questo è il motivo del perdonare: fare ciò che Dio fa. Il contrasto tra i due quadri della parabola intende far vedere quanto sia degno di condanna il servo che non perdona dal momento che egli fu per primo perdonato. Il servo è condannato perché tiene il perdono per sé, e non permette che il perdono ricevuto diventi gioia e perdono per gli altri. L’errore del servo è quello di separare il rapporto con Dio dal rapporto con il prossimo. E invece è un rapporto unico: come fra Dio e l’uomo c’è un rapporto di gratuità, di amore discendente e accogliente, così deve essere fra l’uomo e i suoi fratelli.

    Non è il nostro perdonare che ci merita il perdono, ma è la misericordia ricevuta prima dal Padre, che ci impone, meglio ci affida la missione di portare e donare il perdono. Perdonare di cuore, nell’intimo: buttare giù le barriere che sono dentro di noi. Questa è la bella immagine della comunità cristiana. Ma quanto è difficile, domanda un atto di fede. Fede è dare fiducia all’altro, guardando non al passato, ma al futuro. Così Dio con noi: ci perdona non come Colui che dimentica il nostro passato, ma come Colui che ci sospinge oltre.

  • LA FATICA E LA GIOIA DI GUADAGNARE UN FRATELLO – Mt. 18,15-20

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    LA FATICA E LA GIOIA DI GUADAGNARE UN FRATELLO – Mt. 18,15-20
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    Discorso comunitario di Gesù: il discorso ecclesiale

    Dopo il Discorso della Montagna (cc. 7-9), il Discorso apostolico (9,35-10,42), il Discorso parabolico (13,1-52), ecco ora il Discorso comunitario (18,1-35), il più semplice e il più armonioso.

    Nel nostro brano l’interesse è il “fratello che ha peccato”. Come la comunità è chiamata a recuperarlo? Una comunità che rispetta i piccoli e coloro che hanno peccato, costruendo così una vera vita di comunione fondata sulla preghiera che assicura la presenza del Signore. Siamo invitati anche noi oggi a scoprire come dobbiamo comportarci, se vogliamo essere veramente una comunità che segue il Signore.

    La faticosa vita ecclesiale è spesso segnata dal conflitto tra fratelli e sorelle, da rivalità e patologie di rapporti tra autorità e credenti. La misericordia è indicata come indispensabile. Gesù ci presenta il peccatore come il discepolo che si è allontanato (pecora smarrita: 18,12-14): la comunità deve cercare questi discepoli dispersi, a costo di lasciare le 99 che non hanno abbandonato il pastore. Due sono le cose da fare: la correzione fraterna e la preghiera di intercessione. Alla comunità è affidato questo compito che tutti devono vivere con responsabilità.

    Correzione fraterna. Nella chiesa c’era un problema: cosa fare verso il fratello che ha scandalizzato questi “piccoli” e che li ha disprezzati fino a causarne smarrimento: persona che ha leso la comunità? Se tuo fratello sbaglia, tu va; tu avvicinati, tu cammina verso di lui. Il perdono è la de-creazione del male, perché rattoppa incessantemente il tessuto continuamente lacerato delle nostre relazioni. Ma cosa mi autorizza a intervenire nella vita dell’altro? Solo questa parola: fratello. Solo se porti il peso e la gioia dell’altro, se ne conosci le lacrime, se ne sei fratello, sei autorizzato ad ammonire. Ciò che abilita al dialogo è la fraternità che tentiamo di vivere, non la verità che crediamo di possedere.

    Chi vive la triste esperienza di vedere un fratello o sorella sbagliare, non può tirarsi indietro, deve andare verso di lui, denunciando il male e correggendolo francamente,  soprattutto con pazienza e discrezione. Innanzitutto il male non deve mai essere pubblicizzato. Se uno solo sa chi è il colpevole, cerchi di risolvere da solo la questione: non rinfacciando il peccato, ma aiutando la persona ad esaminarlo in tutti i suoi aspetti, a intraprendere un personale e spontaneo cammino di conversione. Bisogna tentare tutto il possibile, perché chi si è smarrito, ritrovi la strada della vita.  S. Giacomo (5,20): “chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati”.

    Se ti ascolterà, avrai guadagnato un fratello”: “guadagnare” un uomo, “acquistare” un fratello, arricchirsi di persone. Il vero guadagno della nostra vita corrisponde alle relazioni buone che abbiamo costruito. Ogni persona vale quanto valgono i suoi amori e le sue amicizie. Una comunità si misura dalla qualità dei rapporti umani che si sono instaurati. Dio è un vento di comunione che ci sospinge gli uni verso gli altri. Senza l’altro, l’uomo non è uomo. Un celebre detto ebraico assicura: chi salva un solo uomo, salva il mondo intero.

    Nel caso che fallisce questo tentativo, perché il fratello che ha peccato non vuole essere corretto né tanto meno cambiare atteggiamento, occorrerà cercare una via ulteriore, magari ricorrendo alla parola autorevole di qualche altra persona. Nel caso fallisca anche questo tentativo, dev’essere informata l’intera comunità, non perché pronunzi un giudizio di condanna, ma per cercare di recuperare il fratello che ha peccato. Se ancora non ascolta, non resta altro che constatare con sofferenza che non appartiene più alla comunità. La comunità è chiamata a esercitare questo potere nella carità, nella volontà di recupero, nella preghiera.

    Sia per te come un pagano o esattore delle tasse”. Gesù invita a superare nella logica del perdono ogni espulsione, sulla base di una giustizia superiore. Pubblicani e gentili, diventano i piccoli che Gesù è venuto a cercare: quelli che più di tutti hanno bisogno di quella misericordia che Dio vuole. La Chiesa deve fare come Gesù, Maestro. La severità che sembra invitare a non parlare all’altra persona, è solo per creare una situazione che provochi il ravvedimento, inducendo il fratello a cambiar vita e a far ritorno alla comunità.

    Tutto quello che legherete sulla terra…” Il potere di sciogliere e legare non ha nulla di giuridico, consiste nel mandato fondamentale di tessere nel mondo strutture di riconciliazione: ciò che avrete riunito attorno a voi, le persone, gli affetti, le speranze, lo ritroverete unito nel cielo; e ciò che avrete liberato attorno a voi, di energie, di vita, di audacia e sorrisi, non sarà dimenticato, è storia santa. Ciò che scioglierete avrà libertà per sempre, ciò che legherete avrà comunione per sempre. Siamo chiamati a diventare una presenza trasfigurante anche nelle esperienze più squallide, più impure, più alterate dell’uomo

    Preghiera. Per pregare, bisogna volere la stessa cosa: come un’orchestra che, prima di suonare, accorda gli strumenti per l’esecuzione di una musica. Così i cristiani nella preghiera: “accordarsi” per ottenere.Preghiera che è innanzitutto esperienza del “Dio con noi”. Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro. È tra noi, ad una condizione: che siamo uniti fratelli nel suo nome, dove il giusto e il peccatore, il violento e l’inerme si tengono per mano. Non solo è presente nella preghiera, ma anche nell’uomo e nella donna che si amano, nella complicità festosa di due amici, in chi lotta per la giustizia, in  una madre abbracciata al suo bimbo, Dio è lì. Cristo è anima e vita di tutto ciò che esiste, presenza trasformante dell’io e del tu che diventano noi. Questa è l’esperienza della comunione nella vita della comunità, come spazio della presenza di Cristo. Già nell’A.T. troviamo: Se due siedono insieme per parlare della Torà, la shekinà (la presenza di Dio) è in mezzo a loro. In continuità, Gesù annuncia dove si può vivere questa presenza. Viviamo così la nostra preghiera: rivolti al Padre, uniti insieme con Gesù nella preghiera, viviamo nell’oggi la gioia della sua presenza.

  • PRENDERE LA CROCE DI CRISTO E’ ABBRACCIARE IL GIOGO DELL’AMORE – Mt 16,21-27

    Parrocchia di Fontane
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    PRENDERE LA CROCE DI CRISTO E’ ABBRACCIARE IL GIOGO DELL’AMORE – Mt 16,21-27
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    Il cammino di Cristo è il cammino della Chiesa

    Questa pagina del Vangelo ci scandalizza, e di fatto costituisce un ostacolo alla nostra fede.

       Il piccolo gruppo che ha scelto di stare con Gesù ha bisogno di essere formato. Certamente l’hanno appena riconosciuto come il Messia e sanno che la sequela comporta il distacco dalle tradizioni dei padri. Ma cosa vuol dire accogliere Gesù? All’inizio sono di scena Gesù e Pietro, mentre i discepoli sono in ascolto. Cosa significa per Gesù essere il Messia inviato da Dio? E cosa significa essere “la sua Chiesa”? I discepoli hanno bisogno che Gesù si riveli più apertamente in modo da sentirsi davvero “la sua Chiesa”. All’inizio non solo c’è incredulità nelle folle, ma anche negli stessi discepoli: si può infatti accettare che Gesù sia Messia, ma rifiutare che Egli debba soffrire. Anche noi, con l’aiuto del Padre, abbiamo bisogno di penetrare sempre più nel mistero di Cristo, accettando che sia Lui a rivelarsi, non costruendoci un nostro Gesù: dobbiamo essere “Chiesa” come vuole Lui. Immedesimiamoci ora nei discepoli che stanno seguendo Gesù. 

      Primo annuncio della passione-resurrezione. (16,21-23) Terminato il vagabondaggio libero e felice sulle strade della Palestina, lungo le sponde del lago, ecco che all’orizzonte si staglia Gerusalemme. Per la prima volta si profila la follia della croce, follia d’amore, amore fino a morirne. Dio sceglie di non assomigliare ai potenti, ma ai torturati e uccisi del mondo. Potere vero per Lui è amare, è servire, è la supremazia della tenerezza e i poteri del mondo saranno impotenti contro di essa: il terzo giorno risorgerò.

      Gesù già sapeva di essere in pericolo, quando ha cominciato a toccare le tradizioni del suo popolo e la legge del sabato, accusando i detentori del potere di essere guide cieche. Il rifiuto sarebbe stato fatale e la morte inevitabile. L’adattarsi alla concezione messianica corrente, avrebbe comportato la rinuncia a compiere fino in fondo la volontà del Padre. Gesù si prepara e tutto predispone, sapendo che questa fine “è necessaria”. Gesù prevede che la sua passione e morte avverrà in una delle feste di pellegrinaggio che portavano a Gerusalemme. Guai però a pensare che questo “doveva” annunciato da Gesù come volontà del Padre, esprima il desiderio del Padre che Gesù soffrisse e morisse per espiare i nostri peccati. Il destino di morte e sofferenza che Gesù annuncia non è frutto di un capriccio divino, ma di una volontà che se è misteriosa , è anche paterna, e che Gesù accoglie inaugurando un modo diverso di essere Messia. E’ una bestemmia immaginare Dio come un Padre perverso, cattivo!

      La necessità della morte di Gesù è perché, nel nostro mondo, colui che appare giusto viene odiato dagli altri, chi “ama fino alla fine” viene detestato; chi fa soltanto il bene, dicendo sempre la verità, dà fastidio e dunque “merita” di essere eliminato. Così Gesù decide di continuare senza tentennamenti la sua missione, andando a Gerusalemme, nella certezza che la sua fedeltà lo porterà alla morte.

      Gesù-Pietro. Pietro è un vero ostacolo nel cammino di Gesù alla fedeltà del Padre. Appare come emissario di Satana, tentatore. E’ difficile credere ad un Messia sofferente: Pietro reagisce con un rifiuto, che rivela la sua poca fede. Gesù,però, nel suo amore, vuole strappare Pietro dal potere di Satana, si prende cura di lui, facendogli riprendere il suo posto di discepolo “dietro di Lui”. Solo rimanendo dietro a Gesù può entrare nei pensieri di Dio e capire le parole di Gesù. Pietro si era messo davanti, diventando ostacolo e causa d’inciampo. Questo vale per tutti coloro che vogliono andare dietro a Gesù.  In questo momento però Gesù è solo nel compimento della sua missione.

      La sequela. I discepoli, già chiamati, sono messi di fronte ad una scelta definitiva, dopo aver preso coscienza delle condizioni che la chiamata impone. Ma perché seguirlo? Perché andare dietro a Lui e alle sue idee? Semplice: per essere felice. Le condizioni sono da vertigine:

    – La prima: rinneghi se stesso. Parole pericolose se capite male. Non vuol dire mortificarsi, buttar via i talenti. Gesù non vuole dei frustati al suo seguito, ma gente dalla vita realizzata. Rinnega te stesso vuol dire: non sei tu il centro dell’universo, il mondo non ruota attorno a te, impara a sconfinare oltre, Non mortificazione, ma liberazione.

    – Seconda condizione: prenda la sua croce e mi segua. Non è l’esortazione alla rassegnazione: soffri con pazienza, accetta, sopporta le inevitabili croci della vita. Gesù non dice: “sopporta”, dice “prendi”. Non è Dio che manda la croce. E’ il discepolo che la prende , attivamente. La croce nel Vangelo indica la follia dell’amore di Dio. Sostituiamo croce con amore: ed ecco: Se qualcuno vuol venire con me, prenda su di sé il giogo dell’amore, tutto l’amore di cui è capace e mi segua. La parola centrale del brano: Chi perderà la propria vita così, la troverà. L’accento non è sul perdere, ma sul trovare.

       Seguimi, cioè vivi una esistenza che assomigli alla mia, troverai la vita, realizzerai pienamente la tua esistenza. L’esito finale è trovare la vita. Quella cosa che tutti gli uomini cercano, in tutti gli angoli della terra, in tutti i giorni che è dato loro di gustare: la fioritura della vita: realizzare pienamente se stessi. Perdere per trovare. E’ la fisica dell’amore: se dai ti arricchisci, se trattieni ti impoverisci. Noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo donato. La sequela è vita donata e vissuta nella sofferenza, ma anche di sicura speranza. Si è se stessi quando si è aperti a Dio e ai fratelli con assoluta gratuità, senza giustificazioni di sorta. Bisogna guardare sempre avanti ed essere colmi di speranza, mentre ci si dona.

  • CRISTO MI CHIEDE: CHI SONO IO PER TE – Mt 16,13-20

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    CRISTO MI CHIEDE: CHI SONO IO PER TE – Mt 16,13-20
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    Come i discepoli, anche noi siamo in cammino per conoscere il mistero di Gesù. Ogni giorno siamo chiamati a decidere, ad accogliere Gesù come il Cristo, il Figlio del Dio vivente.

    A Cesarea, situata alle sorgenti del Giordano, in terra pagana, ai margini di Israele, città fondata trent’anni prima dal tetrarca Filippo, figlio di Erode il grande, città che porta in sé il nome dell’imperatore, lì dove Cesare era venerato come divino, Gesù pone alla sua comunità la domanda cruciale. Già da tempo egli fa vita comune con questi uomini, perciò desidera sapere cosa essi hanno compreso di lui. Chi regna veramente nella loro vita?

    “Secondo la gente chi è il Figlio dell’uomo?”. Gesù interroga i suoi, quasi per un sondaggio d’opinione. La risposta della gente è univoca, bella e sbagliata insieme: dicono che sei un profeta! Una creatura di fuoco e di luce, come Elia o il Battista. Agli occhi della gente è un profeta carismatico, un “uomo di Dio”. Gesù però non è un uomo del passato, fosse pure il più grande di tutti, che ritorna. 

    Ecco che Gesù non si sofferma su ciò che dice la gente, Lui sa che la verità non risiede nei sondaggi d’opinione.  “Ma voi, chi dite che io sia?”. Il discepolato nasce con la risposta personale a questa domanda. Non si crede per sentito dire. Voi amici, che ho scelto uno a uno, che cosa sono io per voi? 

    Chi sono io per te?. In questa domanda c’ è il cuore pulsante della fede. Gesù non cerca formule o parole, cerca relazioni: Quando mi hai incontrato? Che importanza ho nella tua vita? Gesù vuole sapere se Pietro è innamorato di Lui, se gli ha aperto il cuore. Cristo è vivo, solo se è vivo dentro di noi. Il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio. Nella vita non conta tanto ciò che dico di Cristo, ma ciò che vivo di Lui: il mio rapporto con Gesù, il mio Signore e il mio Dio, che cerco di amare come Lui mi ama. La vita è un continuo provare ad amare, e poi provarci ancora.

    Le domande di Gesù nel vangelo sono scintille che accendono qualcosa, mettono in moto trasformazioni e crescite. Nella vita, più che le risposte contano le domande, che ci obbligano a guardare avanti e ci fanno camminare. Solo se amiamo le domande, la risposta comincerà a sorgere in noi vera.

    Pietro, a nome di tutti i discepoli, afferma: Tu sei il Figlio di Dio. Lo spazio in cui è risuonato l’atto di fede non è quello della gente, ma quello dei discepoli. Per la comunità di Matteo è già iniziata la fine dei tempi, in Gesù Dio offre definitivamente la salvezza. Anche se è un Figlio dell’uomo rifiutato, emarginato, bestemmiato, destinato alla morte, Lui ha annunciato il Regno con pienezza di potere sulla legge e sul perdono. Per i discepoli il Figlio dell’uomo è Gesù stesso: Il Messia, l’atteso Figlio dell’uomo, non è soltanto un discendente di Davide, non è uno degli antichi profeti che ritorna tra il suo popolo. Il Cristo è il Figlio stesso di Dio. Dio Padre non ha mandato un semplice uomo come salvatore, ma suo Figlio. Attraverso Pietro è il Padre stesso che ha parlato.

    Questa fede è dono del Padre: La Chiesa è formata unicamente da coloro che hanno questa fede in Gesù. Però dire che Gesù è Figlio di Dio, è ancora qualcosa di incompleto. E’ la Croce che toglie ogni possibilità di errore. Per questo Gesù ordina di tacere. 

    “Tu sei Kefa e su questa kefa io costruirò la mia chiesa”. Tu sei Pietro, e su di te, come una pietra, io costruirò la mia chiesa. Pietro appare come un masso roccioso messo a fondamento e Gesù come il costruttore. La Chiesa appartiene a Cristo: “La mia chiesa”, che è come una casa costruita sulla roccia, anche se poggia apparentemente sulla fragilità degli uomini. Una stabilità sicura, ma tormentata, con sempre la presenza dei peccatori: per questo la comunità ha bisogno di “legare e sciogliere”: necessità del perdono.  Gesù sta costruendo la chiesa: è Lui la “pietra viva rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio”. Di questa costruzione Pietro è la prima pietra. Egli, per grazia, partecipa alla saldezza della roccia che è Cristo. 

    Certo Pietro con le sue debolezze sembra non essere roccia che offre garanzie, eppure la beatitudine di Gesù  lo costituisce roccia salda nella fede che ha confessato. Pietro è roccia per la Chiesa e per l’umanità nella misura in cui trasmette che Dio è amore, che la sua casa è per ogni uomo; che Cristo, crocifisso, è ora vivo. Forse saranno proprio la debolezza e la fragilità nella sua sequela di Gesù che permetteranno a Pietro, autorità suprema tra i Dodici, di essere esperto della misericordia del Signore. Pietro ha sperimentato la misericordia del Signore, ha conosciuto veramente il Signore e perciò può annunciarlo e testimoniarlo in modo credibile.

    “A te darò le chiavi del regno; ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli…”. Non solo Pietro, ma chiunque professi la sua fede in Gesù, Figlio di Dio, ottiene il potere di diventare una presenza trasfigurante anche nelle esperienze più squallide e alterate dell’uomo. Il cammino è dalla nostra povertà originaria verso una divina pienezza, per essere immagine e somiglianza di Dio, “figli di Dio”. Interiorizzare Dio e fare cose di Dio: questa è la salvezza. 

    Tutti possiamo  essere roccia che trasmette solidità, forza e coraggio a chi ha paura. Tutti siamo chiave che apre le porte belle di Dio, che può socchiudere le porte della vita in pienezza.

  • E DIO SI ARRESE ALLA FEDE INDOMITA DI UNA MADRE – Mt 15,21-28

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    E DIO SI ARRESE ALLA FEDE INDOMITA DI UNA MADRE – Mt 15,21-28
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    Il solco tra coloro che si riuniscono attorno a Cristo e coloro che lo rifiutano si approfondisce. Nasce così il nuovo popolo di Dio. Contemporaneamente si arriva allo scontro – rottura con coloro che si ritenevano gli interpreti ufficiali della Legge (scribi e farisei di Gerusalemme). Gesù, nel momento del pericolo, abbandona momentaneamente il territorio d’Israele, non la missione, per continuarla invece altrove: si rifugia nel territorio di Tiro e Sidone. Gesù, pur non uscendo da Israele, va verso i pagani. Rimane il suo impegno di essere venuto per “andare innanzitutto tra le pecore perdute del popolo d’Israele, chiamato a convertirsi e a portare l’annuncio del Vangelo a tutti.

    Ecco però che una donna cananea esce dai territori pagani per incontrarsi con Gesù, per invocarlo e chiedergli di guarire sua figlia. Il suo agire sollecita nei discepoli la nascita di un interrogativo che accompagnerà per diversi anni la vita della chiesa. A quali condizioni i pagani possono far parte del popolo che si raccoglie attorno a Gesù? La fede fa saltare ogni distinzione tra cristiani di origine ebraica e pagani che si fanno cristiani? L’evangelista invita a guardare Gesù, come modello di autentica conversione.

    Pochi personaggi del Vangelo sono simpatici come questa donna: è una madre, non prega per sé, ha immaginazione, non si arrende ai silenzi o al rifiuto, intuisce sotto il no di Gesù la sua impazienza, di dire di sì, per insegnare ai suoi discepoli. E’ una madre pagana, che non conosce Jahvè, che adora Baal e Astarte. Gesù, uomo degli incontri, ci viene presentato come trasformato dall’incontro con lei. Lui, che era venuto innanzitutto per Israele, ora è sollecitato a convertirsi, a cambiare mentalità: sconfina oltre Israele, il suo cuore si apre alla fame e al dolore di tutti i bambini, di tutte le madri: Lui è pastore di tutto il dolore del mondo, anche di coloro che non hanno fede, chiamato ad accogliere come figli i cagnolini di Tiro e Sidone, ad aprirsi ad una dimensione universale. Questa conversione deve essere vissuta soprattutto dai discepoli. La vera fede domanda di credere che per il cuore di Dio non ci sono figli e cani, che la sofferenza di un uomo conta di più della sua religione. Nel dialogo con la donna emerge con chiarezza il sogno di Dio. Come la donna, rompendo col passato, si dirige verso Gesù, verso il mondo della fede, così i discepoli  sono chiamati a convertirsi per rivelare il vero volto di Dio, che è più attento alla vita e al dolore dei suoi figli che non alla fede che professano.

    Donna, grande è la tua fede!”. Lei che non va al tempio, che prega un altro Dio, Per Gesù è donna di grande fede. Una fede messa alla prova. Tre ostacoli sono posti sulla strada della sua richiesta: barriere che però non scoraggiano la donna, ma fanno montare la sua fede, come una diga  fa crescere la potenza delle sue acque imbrigliate.

    • Gesù non le rivolse neppure una parola. Sembra ignorarla.
    • Poi: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele”.
    • Infine: “Non è bene prendere il pane dei figli per darlo ai cagnolini”.

    Il gioco delle domande e delle risposte tra Gesù e la donna verte sul posto che i pagani hanno nel disegno di Dio. I figli sono gli ebrei, i cagnolini sono i pagani. Una frase dà la volta al dialogo: non puoi fare delle briciole di miracolo per questi cani di pagani? La donna accoglie la priorità di Israele, ma ricorda che anche i pagani hanno l loro posto. Nel cuore di Dio non ci sono figli e cani.

    Partita con coraggio, prostrandosi davanti a Gesù, dice: “Signore aiutami”. In lei c’è la certezza che Gesù può salvarla e ha la volontà di strappargli il miracolo. Nel suo amore di mamma spera contro ogni speranza. Essa sa che anche i cagnolini fanno parte della famiglia e lo accetta. Si umilia e domanda di far parte della nuova famiglia di Gesù. Ha vinto! La sua fede è autentica, sincera, umile, è coraggiosa, ed è sostenuta da una perseverante speranza. Non si può chiedere di più. E’ più che degna di far parte del popolo di Dio.

    Quante volte anche noi abbiamo fatto l’esperienza amara di non sentirci esauditi da Dio! Dio sembra lontano, tacere …! Ma non sarà anche per noi, per purificare la nostra fede, per provocare un atto di maggior coraggio, una confidenza più piena e totale nel Dio che alla fine sa Lui meglio di noi quello che ci convenga? 

    Da questo dialogo fra stranieri prima brusco e poi rasserenante emerge un sogno: la terra vista come un’unica grande casa, una tavola ricca di pane, una corona di figli. Una casa dove non ci sono noi e gli altri, uomini e no, ma solo figli e fame da saziare. Dove ognuno, come Gesù, impara da ognuno. Sogno che abita Dio e ogni cuore buono.

    La fede è come un grembo che partorisce il miracolo: avvenga come tu desideri! E’ i sogno del mondo che dobbiamo fare nostro: La terra come una grande casa, una tavola ricca di pane, e intorno tanti figli:una casa dove nessuno è disprezzato, nessuno ha più fame.

    In quel giorno i discepoli capirono che basta la fede per diventare parte del nuovo popolo di Dio.

  • ASSUNZIONE DELLA B.V. MARIA – 2020

    Parrocchia di Fontane
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    ASSUNZIONE DELLA B.V. MARIA – 2020
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    Una breve riflessione su: Ap 11,19-12,10; 1Cor 15-27; Lc 1,39-56.

    L’Assunzione di Maria al cielo in anima e corpo è l’icona del nostro futuro, anticipazione di un comune destino: annuncia che l’anima è santa, ma che il Creatore non spreca le sue meraviglie: anche il corpo è santo e avrà, trasfigurato, lo stesso destino dell’anima. Perché l’uomo è uno.

    Nel libro dell’Apocalisse, il segno della donna nel cielo, vestita di sole, evoca non solo Maria, ma anche l’intera umanità, la Chiesa di Dio, ciascuno di noi, anche me, piccolo cuore ancora vestito di ombre, ma affamato di sole. Contiene la nostra comune vocazione: assorbire luce, farsene custodi (vestita di sole), essere nella vita datori di vita (stava per partorire): vestiti di sole, portatori di vita, capaci di lottare contro il male (il drago rosso). Indossare la luce, trasmettere vita, non cedere al grande male.

    La festa dell’Assunta ci chiama ad aver fede nell’esito buono, positivo della storia: la terra è incinta di vita e non finirà fra le spire della violenza: il futuro è minacciato, ma la bellezza e la vitalità della Donna sono più forti della violenza di qualsiasi drago.

    Maria è la donna del viaggio compiuto in fretta, perché l’amore ha sempre fretta, non sopporta ritardi; va’, portata dal futuro che prende carne e calore in lei. Donna in viaggio, che è sempre figura di una ricerca interiore, di un cammino verso un mondo nuovo sulle tracce di Dio e sulle speranze del cuore. Donna continuamente in viaggio verso altri.

    L’Assunta è la festa della nostra comune migrazione verso la vita. Siamo umanità dolente, ma incamminata; umanità ferita, caduta, eppure incamminata; umanità che ben conosce il tradimento, ma che non si arrende, che ama con la intensità cielo e terra.

    Maria Assunta ci aiuti a camminare occupati dell’avvenire di cielo che è in noi come un germoglio di luce. Ad abitare la terra come lei, benedicendo le creature e facendo grande Dio.