Autore: Parrocchia di Fontane

  • LA MANO TESA DI DIO QUANDO CREDIAMO DI AFFONDARE – Mt 14,22-33

    Parrocchia di Fontane
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    LA MANO TESA DI DIO QUANDO CREDIAMO DI AFFONDARE – Mt 14,22-33
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    Gesù saluta i cinquemila appena sfamati, uno ad uno: fa fatica a lasciare la gente, non vuole andarsene finché non li ha salutati tutti, così come noi facciamo fatica a lasciare la casa di amici cari dopo una cena in cui abbiamo condiviso il pane e l’affetto. Era stato un giorno speciale, di fervore e solidarietà, un moltiplicarsi di mani, la fame dei poveri saziata, era il suo sogno realizzato. Gesù congeda la folla: è una separazione che non è rottura della comunione costruita mediante la condivisione del pane. È semplicemente un momentaneo e necessario distacco.

    Gesù sente il bisogno di rimanere solo, di vivere continui contatti con il Padre. Sta vivendo un momento difficile che fa presagire la rottura con il suo popolo. Per continuare nella missione ha bisogno di pregare, di rivedere, in dialogo con il Padre, le sue scelte di fondo per vivere sempre in conformità alla volontà del Padre. 

    Nel ritmo incalzante della sua giornata, Gesù ha sempre trovato il tempo per la preghiera, o al mattino presto o alla sera tardi. Nella preghiera si rivolge sempre a Dio, invocandolo col nome di Padre. La sua preghiera è del Figlio obbediente, del Servo del Signore. Consapevole di essere uomo, si confrontava col Padre e con la sua Parola per ritrovare costantemente nitidezza e il coraggio della propria via.

    Intanto i discepoli stanno vivendo una notte assai dura. Nell’essere costretti ad imbarcarsi, traspare la loro riottosità a lasciare la folla e soprattutto Gesù. Nel momento del pericolo si sentono abbandonati, lasciati soli a lottare contro le onde per una lunga notte. I discepoli stanno agendo come se Gesù fosse davvero assente. Pur in mezzo alle onde grosse e il vento forte non sono turbati: da buoni pescatori sono esperti del mare. La barca, simbolo della comunità e della vita, avanza per l’impegno dei rematori che non si arrendono, e si sostengono l’un l’altro. Dio non agisce al nostro posto, non devia le tempeste, ma ci sostiene dentro le burrasche della vita. Non ci evita i problemi, ci dà forza dentro essi.

    Appena vedono Gesù, i discepoli pensano che sia il suo fantasma, lo prendono come uno che viene dal mondo dei morti, non da un contatto con Dio. Lo spavento è enorme, urlano persino dalla paura.

    Gesù li invita a non temere, ad aver fiducia, c’è Lui: “Io sono” è il nome di Dio pronunciato sul Sinai. La parola di Gesù li calma.

    La sorpresa è quanto avviene tra Gesù e Pietro. Pietro sembra un bambino che chiede alla mamma di insegnargli a camminare. Il bambino cammina sempre guardando verso qualcuno. Così Pietro, verso Gesù. Ma quando fa caso al vento, entra la paura e affonda. Nasce allora la preghiera: “Signore salvami”. La mano di Gesù lo afferra e gli dice: “uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. È l’immagine della nostra vita di discepoli chiamati ad imparare a vivere nella fede e nella preghiera gli urti della storia, in un mondo tempestoso. In un mondo agitato, dobbiamo imparare a camminare nella storia, come bimbi, verso un incontro con il nostro Signore che è sempre “colui che viene”: viene per essere con noi nella barca.

    “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sull’acqua”. Pietro domanda due cose: una giusta e una sbagliata. Chiede di andare verso il Signore, richiesta bella, perfetta: andare verso Dio. Ma poi sbaglia chiedendo di andarci camminando sulle acque. A che cosa serve questa esibizione di potenza fine a se stessa, clamorosa ma sterile? Questo intervento divino non ha come scopo il bene delle persone. I miracoli non servono alla fede. Dio infatti non si impone mai, si propone. I miracoli si impongono e non convertono. La strada per l’incontro è il cammino verso il Calvario, la follia della croce, il cammino di colui che sa farsi prossimo.

    “Uomo di poca fede”, perché hai dubitato?”. Pietro è uomo di poca fede non perché dubita del miracolo, ma proprio in quanto lo cerca. Pietro si rivela uomo di poca fede non quando è travolto dalla paura delle onde, del vento e della notte, ma prima, quando chiede questo genere di segni per il suo cammino di fede. Quando Pietro guarda al Signore e alla sua parola: “Vieni”, può camminare sul mare. Quando guarda a se stesso, alle difficoltà, alle onde, si blocca nel dubbio.

    Così noi, se guardiamo al Signore e alla sua Parola, avanziamo anche nella tempesta; se guardiamo a noi stessi, ai nostri limiti, alle difficoltà, iniziamo la discesa nel buio. Rimaniamo paralizzati. Tuttavia nella paura nasce un grido: Signore salvami!

    Ringraziamo Pietro per questo suo intrecciare fede e dubbio: Pietro, dentro il miracolo, dubita: Signore affondo; dentro il dubitare, crede: Signore, salvami! Dubbio, fede, grido: un oscillare tra fede grande che sfida la tempesta, e fede piccola. Gesù ci raggiunge, non puntando il dito sui nostri dubbi, ma sostenendo la mano per afferrarci. Il grido di paura diventa abbraccio tra noi e  Dio. Ora sappiamo che qualsiasi nostro affondamento può essere redento da una invocazione e gridata nella notte, gridata nella tempesta come Pietro, dalla croce come il ladro morente.

  • IL PANE CONDIVISO TRA TUTTI DIVENTA PANE DI DIO – Mt 14,13-21

    Dopo la morte di Giovanni il Battista, Gesù si ritira, lontano dal territorio di Erode Antipa, in un luogo deserto. La fine del Battista diventa per Gesù, annuncio e presagio della sua morte. Come al tempo di Giovanni la “Parola” convocava la gente nel deserto, così ora è Gesù stesso che, recandosi nel deserto, convoca là, ai limiti di Israele, le folle. Egli se ne va da solo con i suoi discepoli, ma al suo giungere: “vide molta folla e ne sentì compassione”. Dalla compassione verso queste folle “stanche, sfiduciate, come pecore senza pastore”, la “Parola” (Gesù) si fa evento, guarigione: “guarì i loro ammalati”. Gesù è il buon pastore, che non si occupa di sé, ma di chi ha bisogno, raduna i dispersi, divenendo centro del nuovo popolo di Dio che si raccoglie nel deserto per iniziare un cammino nuovo, una vita più umana.

    Il ritirarsi e la compassione (13-14). Una sera, in riva al lago, cinquemila uomini con donne e bambini: l’amore per Gesù li ha condotti nel deserto. Scesa ormai la notte, non se ne vanno e restano lì con Gesù, prese da qualcosa che Lui solo ha e nessun altro sa dare. I discepoli, uomini pratici, dicono: congedali perché vadano a comprarsi da mangiare. Il maestro ribatte: date loro  voi stessi da mangiare. Due atteggiamenti opposti, riassunti in due verbi: comprare o dare. Comprare, dicono gli apostoli. Ed è la nostra mentalità: se vuoi qualcosa, lo devi pagare. È la logica dove trionfa l’eterna illusione dell’equilibrio del dare e dell’avere. In questo sistema chiuso, Gesù introduce il suo verbo: date voi stessi da mangiare. Non già: vendete, scambiate, prestate; ma semplicemente, radicalmente: date. E sul principio della necessità comincia a spuntare, a sovrapporsi un altro principio: la gratuità, l’amore senza calcoli, dare senza aspettarsi niente. Solo la gioia, forse.

    Il pane per Israele (15-21). L’idea guida del racconto è la condivisione. Il racconto ha il tono di una celebrazione di cui sono protagonisti Gesù e i discepoli insieme. I discepoli vengono educati al senso del “dono”. Il limite, che per i discepoli sembra invalicabile, da Gesù è affidato al Padre.  Pensano che ognuno debba arrangiarsi da solo. Se non le congeda Gesù, le folle non se ne andranno. Ma Gesù non le manda via, non ha mandato mai via nessuno. Intenerisce questo Gesù che non vuole allontanare da sé nessuno, che li vuole tutti intorno a sé anche a mangiare. E’ un Dio dal volto materno, che nutre e alimenta ogni vita. Quante volte lo si vede nel vangelo, intento a condividere il pasto con gli altri, e contento di questo. Così tanto amava mangiare con gli altri, che ha fatto di questo mangiare insieme, il simbolo di tutta la sua vita: “quando me ne andrò e non potrò più riunirvi e darvi il pane, spezzarlo e condividerlo insieme, voi potrete unirvi a me e mangiare me”.              

    Gesù chiede innanzitutto che gli sia portato il poco che hanno. I discepoli sono subito disponibili al volere di Gesù, pronti a dare quel poco. Lo offrono a Gesù, fidandosi, senza calcolare, senza attendere qualcosa per sé. È poco, ma è tutto, è la loro cena. Ora non c’è più bisogno che ognuno si aggiusti da sé: questo per Gesù è disumano, mentre quando c’è generosità e gratuità nel dono, allora c’è vera umanità, fratellanza, comunione.

    Gesù comanda che si mettano a mensa (farli sedere) sdraiarsi sull’erba. A questo punto il racconto assume un colore eucaristico. Gesù presiede la mensa. Gesù prega e ringrazia, moltiplica i pani, li spezza  e li consegna ai discepoli perché li distribuiscano. Lo stesso verbo “dare” vale per Gesù e i discepoli. È un dare insieme, come avviene in ogni celebrazione eucaristica, è un passarsi a vicenda il dono. È un’immagine della Chiesa: è Cristo che dona la Parola e la vita, ma tutto passa fra le mani degli uomini che lo rappresentano. Gesù “pronunziò la benedizione”: è questo l’atteggiamento più autentico dell’uomo di fronte a Dio, alle cose e ai fratelli. Benedire significa riconoscere che le cose sono un dono di Dio e, quindi, ringraziare: doni di Dio da gustare nella gioia. Ma anche da condividere, perché Dio li ha creati per tutti i suoi figli, non solo per alcuni. Quello che si compie si fa “dono gratuito”, un dono destinato a tutti che vengono coinvolti nella fratellanza, nella comunione. È un dono che costruisce comunione, che fa comunità. Dare non è perdita, ma guadagno. Quei pochi pani e pesci bastano per tutti, perché condivisi. Dio ferma la fame del mondo attraverso le nostre mani quando imparano a donare. La fame invece comincia quando io tengo il mio pane per me. Sfamare la terra è un miracolo possibile solo quando si vive la condivisione  Chi condivide, convoca Dio, lo provoca, mette il pane nelle sue mani, e allora basterà per tutti e se ne avanzerà. 

    L’Eucaristia celebra questa universale condivisione, il cui atto più alto e significativo fu vissuto da Cristo. Egli è qui e ora, il segreto e il contenuto, il ricordo e il futuro. Gesù ci invita alla sua mensa, per celebrare fraternamente il dono di Dio nell’ampiezza universale del dono. Tutti mangiano e ne rimane per tutti e per sempre. Gesù, il Dio con noi, supera così il limite dello spazio e del tempo, e rende possibile la sua presenza ogni volta che i cristiani spezzano il pane e vengono sanati dai loro mali.

  • GESÙ, NEL TESORO NASCOSTO,CI DA’ LA CERTEZZA DELLA FELICITÀ – Mt 13,44-51

    Gesù, con le immagini delle parabole ci vuole aiutare a comprendere in qual modo Dio può regnare in coloro che accolgono e aderiscono alla buona notizia del Vangelo che Lui ha portato.

    Ci vengono presentate 4 brevi parabole conclusive: tesoro nascosto, perla preziosa, pesca, scriba che tira fuori dal tesoro, cose nuove e cose vecchie. Ci aiutano a rispondere ad un interrogativo: se Dio è misericordia infinita, cosa ci resta da fare? Viviamo senza far nulla? Già tanto ci pensa Gesù! Le prime due parabole riguardano la decisione, le ultime due la responsabilità di portare avanti questa decisione durante la vita con coerenza.

    Il Regno di Dio è un bene così grande che chi si imbatte nell’annuncio del Regno che si è fatto vicino, chi ne capisce l’inestimabile valore, sente di dover fare qualsiasi sacrificio pur di possederlo. Un contadino e un mercante trovano tesori. Tesoro, parola rara, parola da innamorati, da avventure grandi, da favole. Oggi, parola di vangelo e nome di Dio.

    Accade, senza aver programmato ad un bracciante agricolo, uno che lavora a giornata in un campo non suo. Mentre arava o zappava si imbatte per caso in un tesoro mai sognato. Folgorato dalla scoperta: lo stupore, la meraviglia e poi la gioia furono immensi: aveva deciso: quel tesoro sarebbe stato suo.

    Accade anche ad un mercante, che possiede un emporio, con punti di vendita sparsi qua e là: uno che traffica preziosi, un intenditore appassionato e determinato, uno che è sempre in cerca di novità, uno che gira il mondo dietro un sogno.

    Le due modalità non sono in contraddizione: l’incontro con Dio è possibile a tutti trovarlo o essere trovati da Lui, sorpresi da una luce, come sulla via di Damasco, oppure da un Dio innamorato di normalità. Entrambe le parabole hanno come veri protagonisti gli oggetti, il tesoro e la perla, che si impadroniscono dei due uomini, li afferrano e causano le loro azioni. Il tesoro è ciò in cui uno fa consistere la felicità. Questo tesoro c’è in tutto il mondo (dove Dio semina), e c’è in ogni uomo che è il campo di dio, c’è nel cuore di ogni uomo.

    Tesoro e perla: nomi bellissimi che Gesù sceglie per dire la rivoluzione felice portata nella nuova vita del vangelo. La fede è una forza vitale che ti cambia la vita e la fa danzare. La gioia è il primo tesoro che il tesoro ti regala. Entrarvi è come entrare in un fiume di gioia. È il movente che fa camminare, correre, volare: mette fretta, per cui vendere tutti gli averi non porta con sé nessun sentore di rinuncia. Si vende tutto, per guadagnare tutto. Si lascia molto, ma per avere di più. Non si perde niente, lo si investe. L’accento della parabola non è sul fatto che trova il tesoro, è sul fatto che il campo non è ancora suo finché non investe tutto in quel campo. Investire tutto nell’amore e nella misericordia che diventano i principi della nostra vita.

    Dio vuole che il dono diventi nostra conquista. Noi talvolta agiamo come se la rinuncia fosse la condizione per una gioia successiva che Dio darà in base ai nostri sforzi. L’ordine è inverso. La gioia di un innamoramento di un “che bello” deve precedere le rinunce; altrimenti queste generano tristezza, disamore. È l’invito affettuoso del Padre ai suoi figli, il volto di un Dio attraente, il cui obiettivo non è essere finalmente obbedito o pregato da questi figli sempre ribelli che noi siamo, ma che adopera tutta la sua pedagogia per crescere dei figli felici.

    Un tesoro ci attende. E lo Spirito Santo è questo soffio divino che fa nascere i cercatori d’oro. Il tesoro non si compra, è un dono. L’uomo compra il campo. Il tesoro, la perla, i pesci sono nascosti. Sopra c’è la superficie, l’apparenza, uno strato che impedisce di vedere fino in fondo. Vi è una realtà più profonda, sommersa, un mondo che nemmeno si può immaginare che esista, finché non lo si scopre. Bisogna cercare sapientemente. E poi rinunciare a tutto il resto e vendere quanto si possiede.

    La parabola della rete mette l’accento sulla separazione nel momento del compimento finale: in quel giorno il male sarà totalmente eliminato, il popolo di Dio apparirà puro e senza macchia. Questa immagine ci spaventa e non vorremmo trovarla nelle parole di Gesù: facciamo fatica a pensarla come Vangelo, come buona notizia. Fondamentale è fin d’ora appartenere e vivere da figli del Regno.

    Accogliere la novità che è Gesù e che dà senso nuovo a tutta la vita: siamo in cammino verso l’incontro con Lui, il nostro vero Tesoro . Dobbiamo esercitarci a spogliarci di ciò che abbiamo fino alla morte, quando ci sarà chiesto di dire ‘amen’ allo spogliarci della nostra stessa vita.

    Chiediamoci: Dio è per me un tesoro o soltanto una fatica? E’ perla della mia vita o solo un dovere? Mi sento contadino fortunato, mercante ricco perché conosco il piacere di credere, il piacere di amare Dio: una festa del cuore, della mente, dell’anima. Dico grazie a Chi mi ha fatto inciampare in un tesoro, in molte perle, lungo molte strade, in molto giorni della mia vita. Tesoro e perla è Cristo per me? Lui che è presente in me e mi fa vivere da figlio di Dio.Vivo con coerenza il tesoro che ho scoperto? Aver seguito Cristo è stato l’affare migliore della mia vita? Mi sento contadino fortunato, mercante ricco? Tutto questo non è un vanto, ma una responsabilità. Discepolo è colui che ha capito queste cose.

  • UNA SPIGA DI GRANO VALE DI PIÙ DELL’INTERA ZIZZANIA – Mt 13, 24-43

    Il Regno che si è reso presente, ha un avvenire sicuro e positivo? Com’è la sua reale situazione nel mondo? Con queste tre parabole Gesù ci spiega come si sviluppa il Regno.

    Si parla di un seme buono: L’attenzione è però rivolta all’ostacolo: la zizzania. Riuscirà il nemico del padrone del campo a rovinargli il raccolto? La risposta è no! Il seme buono raggiungerà il suo scopo: l’oppositore non riuscirà a intralciare lo scopo del padrone del campo. Il seme buono è chiamato a crescere insieme alla zizzania (un’erba cattiva che poteva distinguersi dal grano solo al momento della spigatura). La quantità di zizzania presente, mette in evidenza la presenza di forze avverse, un nemico che ha fatto questo… Quando si accorgono, la reazione del padrone e dei servi è diversa. Il padrone vuol salvare tutto il grano, proprio tutto. Tutto è rinviato al futuro. Il giudizio non è per l’oggi, avverrà in quel giorno.

    Al tempo di Gesù c’era il movimento farisaico, che pretendeva essere il popolo santo, separato dalla moltitudine di peccatori. E c’erano gruppi di monaci, che si ritiravano nella solitudine del deserto a vivere in rigida santità, rifiutando tutti coloro che erano ritenuti impuri. E c’era la stessa predicazione di Giovanni Battista che annunciava il Messia come colui che avrebbe – finalmente – separato il grano dalla paglia. Gesù viene e sembra fare il contrario. Non si separa dai peccatori ma va con loro, non li abbandona ma li perdona. Tollera persino nella cerchia dei dodici un traditore e, comunque, si circonda di discepoli che sono pronti ad abbandonarlo. Comprendiamo, a questo punto, tutta la forza polemica della parabola. C’è un netto contrasto tra la politica di Dio – paziente e tollerante – e l’intolleranza e rigidezza di molti suoi servi.

    La parabola racconta due modi di guardare: i servi vedono soprattutto le erbacce, il negativo, il pericolo; il Padrone, invece, fissa il suo sguardo sul buon grano, la zizzania è secondaria. Dobbiamo conquistare lo sguardo positivo di Dio innanzitutto verso noi stessi: io non sono le mie debolezze, ma le mie maturazioni; io non sono creato a immagine del Nemico e della sua notte, ma a immagine del Creatore e del suo giorno. Nessun uomo coincide con il suo peccato o con le sue ombre. Ma se non vedo la luce in me, non la vedrò in nessuno. Davanti a Dio una spiga di buon grano conta di più di tutta la zizzania del campo. Il bene è più importante del male, il peso specifico del bene è superiore, il bene vale di più. E la spiga di domani, il bene possibile è più importante del male presente, del peccato di ieri. 

    Non preoccupiamoci prima di tutto della zizzania, dei difetti, delle debolezze, ma di coltivare una venerazione profonda per le forze di bontà, di generosità, di attenzione, di accoglienza, di libertà che Dio ci consegna. Facciamo che queste erompano in tutta la loro forza, in tutta la loro bellezza, in tutta la loro potenza e vedremo le tenebre scomparire.

    Questo è il messaggio della parabola: venera la vita che Dio ha posto in te, proteggila, porta avanti ciò che hai di positivo e la zizzania avrà sempre meno terreno: Tu pensa al buon grano, ama i tuoi germi di vita, custodisci ogni germoglio buono, sii indulgente con tutte le creature e anche con te stesso. E tutto il tuo essere fiorirà nella luce.

    Quale dei due sguardi è il nostro? Quello opaco e triste dei servi che vedono il mondo e le persone invasi dal male, che giudicano con durezza? Quello positivo e solare del Signore che intuisce, dovunque, spighe, pane e mietiture fiduciose, e che ha messo la sua forza nella mitezza? L’uomo violento che è in me dice: strappa tutto ciò che è immaturo, sbagliato, puerile, cattivo. Il Signore dice: abbi pazienza, non agire con violenza, perché il tuo spirito è capace di grandi motivazioni positive. Adottiamo lo stile di Dio, che per vincere la notte, accende ogni giorno il suo mattino, per far lievitare la massa immobile, immette un pizzico di lievito. Dobbiamo liberarci dai falsi esami di coscienza negativi, centrati sul male: non preoccupiamoci della zizzania, di difetti, delle debolezze. La nostra coscienza chiara, illuminata e sincera deve scoprire prima di tutto ciò che di vitale, bello buono, promettente, Dio ha seminato in noi: un amore grande, ideali forti, desideri positivi, bontà, generosità, coraggio. Dobbiamo amare noi stessi, venerare la parte luminosa del cuore: viene da Dio! Dobbiamo portare a maturazione il buon grano che Dio ha seminato in noi.  La morale del Vangelo cerca in me la fecondità del frutto buono, prima che l’assenza di difetti, la distruzione delle erbacce. Anche il giudizio finale avrà come argomento non la zizzania, ma il buon grano, la parte migliore di me: ho avuto fame… Agli occhi di Dio, il bene è più forte, più importante del male.

    Il granello di senape. Sproporzione tra il microscopico granello e la pianta di 4 metri: Gesù contempla la potenza racchiusa nella piccolezza del seme. Gesù è ottimista e vuole infondere in noi questo sguardo. È Lui il piccolo seme, che dopo essere stato per tre notti e tre giorni nel cuore della terra, germoglierà come un popolo colmo della potenza dello Spirito di Dio, capace di espandersi su tutta la terra. Un invito al suo piccolo gruppo ad aver fiducia e speranza.

    Il lievito. Si tratta di una donna che sta per allestire un banchetto (come Abramo, Gedeone, Anna, madre di Samuele). Viene messa in evidenza l’azione invisibile del Regno, capace di trasformare il mondo intero: finché tutto sia trasformato. Il Regno è una realtà invisibile, come tutto l’agire di Dio nella storia.I figli del Regno devono lavorare per trasformare il mondo: i cattivi, la zizzania devono diventare buon seme. Devono ricordarsi che nessuna comunità è pura, e che solo alla fine splenderanno.

  • LA GIOIA DI DIO SEMINATORE CHE AVVIA LA PRIMAVERA DEL MONDO (Mt 13,3b-23)

    Discorso parabolico (Mt 13)

    È il terzo discorso di Gesù. Il termine “parabolico” indica il genere letterario: servendosi di immagini e similitudini, Gesù ci parla del Regno dei cieli o di Dio. Ad esso ci si può avvicinare solo attraverso esempi concreti che fanno riflettere. Gesù ha deciso di presentare il regnare di Dio mediante immagini concrete, capaci di rimanere impresse nei suoi ascoltatori. Gesù invita ad aguzzare lo sguardo e ad allargare il cuore, per cogliere negli eventi quotidiani i segni della presenza di Dio, del suo agire.

    Una introduzione solenne ambienta la parabola sulla riva del mare di Galilea, luogo che rievoca la chiamata dei primi discepoli. Il mare sembra riflettere l’orizzontalità delle parole di Gesù e l’universalità dell’uditorio. Il mare è quell’elemento della creazione che è già stato educato all’ascolto delle parole di Gesù e ha assistito alla vittoria del Regno sui demoni, e ora sui discepoli e le folle che devono ascoltare. Gesù più che insegnare, racconta delle parabole, più che insegnare, annuncia. Gesù, mentre racconta sta seduto, è cioè in una posizione dialogante, che lascia le persone libere di avvicinarsi o di andarsene. La parabola non impone niente con forza, ma propone in modo velato la verità, mette l’ascoltatore di fronte alle proprie responsabilità e ne rispetta la libertà di scelta. Gesù parla in parabole perché queste sembrano essere in grado di superare gli ostacoli frapposti dall’uditorio e le difese di chi ascolta. Dio non cessa di parlare, nonostante l’incredulità degli ascoltatori.


    La parabola ci rivela Gesù, amante della vita, dei campi di grano, delle distese di spighe e di papaveri, di fiordalisi, di margherite, di viti. Gesù osserva un seminatore e nel suo gesto intuisce qualcosa di Dio. È un seminatore che percorre un campo arato a passi lenti, compiendo un gesto largo della mano. Sembra che il suo gesto sia eccessivo, esagerato, in quanto lancia il seme non solo nel buon terreno preparato per la semina, ma anche sulla strada, sui rovi, sull’asfalto.

    Gesù parla di un seme scelto, a cui è affidato un compito ben preciso: produrre altri semi. Tenendo conto dei piccoli appezzamenti di terreno presenti in Palestina, comprendiamo come qualche seme sarebbe andato perduto. Erano gli incerti del mestiere del seminatore. Gesù sta parlando come i profeti: la strada, le rocce, le spine sono esemplificazioni di alcuni ostacoli che il il seme può incontrare per raggiungere lo scopo per cui è stato seminato. Nonostante i vari problemi, il raccolto ci sarà e il successo supererà l’insuccesso. Dio parla di un frutto uguale al cento per uno, cosa inesistente, irrealistica, nessun chicco di frumento si moltiplica per cento. Un’iperbole che dice la speranza altissima di Dio in noi.

    Non è dunque un contadino maldestro nel lavoro; ma un contadino prodigo inguaribile, imprudente e fiducioso, che vede vita e futuro ovunque: anche la sterpaglia si può trasformare in giardino. La parabola racconta una fiducia: verrà il frutto, il piccolo seme avrà il sopravvento. Contro tutti  rovi e le spine, oltre i sassi e i passanti, c’è sempre una terra che accoglie  e fiorisce. E anche se la risposta per tante volte è negativa, alla fine spunterà un germoglio. Il Seminatore, uno dei nomi più belli di Dio. La sua gioia non è raccogliere, ma seminare. Per quanto noi siamo aridi, sterili, spenti, Dio continua a seminare in noi, senza sosta. Contro tutti i rovi e le spine, contro tutti i sassi e predatori, Lui vede in ciascuno, una terra capace di accogliere e di fiorire. Gesù ci presenta il volto di  un Dio contadino che diffonde a piene mani i suoi germi di vita, fecondatore instancabile delle nostre vite, ostinato nella fiducia, un Dio seminatore. 

    Il seminatore getta il seme, ma è il terreno che permette alla pianticella di crescere. Noi siamo chiamati a portare a maturazione i germi divini. Il primo errore lo compiamo quando siamo strada, persone che non si fermano mai. La Parola di Dio chiede un minuto di sosta: chi corre sempre, è derubato dalla fame di infinito che costituisce la nostra dignità. Il secondo errore, terreno sassoso, è il cuore poco profondo, che non medita, che si accontenta di sensazioni e non approfondisce. Il terzo errore, le spine, è l’ansia delle ricchezze, del benessere, del quotidiano. Spine che soffocano la fiducia e ci fanno credere che in noi non ci sia spazio per far germogliare un seme divino. Il centro della parabola non sono però gli errori dell’uomo, il protagonista è un Dio generoso, che non priva nessuno dei suoi doni. Per quanto io sia arido, spento, sterile, Dio continua a seminare in me senza sosta, vede una terra capace di accogliere e fiorire: vede vita e futuro ovunque.

    Siamo invitati a farci terra buona, terra madre, accogliente per il piccolo germoglio. Come una madre, che sa quanto tenace e desideroso sia il seme che porta in grembo, ma anche quanto fragile, vulnerabile e bisognoso di cure. Essere madri di ogni parola d’amore nel mondo. Accoglierla dentro di sé con tenerezza, custodirla, difenderla con energia, allevarla con sapienza.

    Ognuno di noi è un seminatore che cammina nel mondo gettando semi, spesso senza accorgercene.  Cosa vorremmo che producessero: tristezza o germogli di sorrisi? Paura, scoraggiamento, o forza di vivere? È grande questo Dio seminatore: ci invita a credere nella bontà e nella forza della Parola, più che nei risultati visibili, credere che Dio trasforma la terra e le sue persone anche quando non ne vedo i frutti. Ci chiama ad amare la sua promessa, la Parola, più ancora della realizzazione della promessa, i suoi esiti.

    La parabola da una parte è fortemente responsabilizzante: attraverso di noi, Dio vuole moltiplicare frutti di vita, tuttavia in noi si può interrompere il corso delle sue meraviglie, a volte anche per nostra distrazione. Dall’altra ci ricorda che questo seme viene sempre, dovunque e comunque gettato: Dio non si stanca di seminare anche sui sassi, dove a noi sembra sprecata la semina, perché Dio ha fiducia che anche un solo seme potrà dar frutto.  

    Per i discepoli, per tutti, sembra incombere la possibilità di non capire, di non interpretare correttamente le parole di Gesù. Vediamo Gesù Maestro paziente con i suoi discepoli: non li rimprovera, li accoglie anche nella loro poca fede e durezza di cuore. Così, con noi.

  • DIFFONDERE LA COMBATTIVA TENEREZZA DI DIO (Mt 11,25-30)

    Da Giovanni (Mt 11) si passa a Gesù, che appare come colui che porta a compimento la Legge e i Profeti. Giovanni l’aveva annunciato. Il modo di vivere di Gesù, spesso insieme con i peccatori, la maniera di osservare il digiuno e il sabato, i suoi gesti contrari alla Legge, avevano suscitato perplessità, anche per quanto riguardava il senso dei miracoli. La parola di Gesù stava dividendo gli uditori.

    Al termine del discorso missionario, non avviene la partenza dei discepoli, ma è Gesù stesso che parte: il vero inviato è Lui, che vive subito, in anticipo, le difficoltà che aveva annunciato avrebbero incontrato i discepoli. Gesù sta vivendo un periodo di insuccessi, di difficoltà: contestato dall’istituzione religiosa, rifiutato dalle città attorno al lago, in un momento di scoramento e di crisi per un fallimento nella missione, eppure fa sgorgare dal suo cuore un inno di lode gioiosa e convinta a Dio. Gesù ha come un sussulto di stupore, gli si apre uno squarcio inatteso, un capovolgimento: Padre, ho capito e ti rendo lode. Attorno a Gesù il posto sembrava vuoto, si erano allontanati i grandi, i sapienti, gli scribi, i sacerdoti, ed ecco il posto lo riempiono i piccoli: poveri, malati, vedove, bambini, i preferiti da Dio. Ti ringrazio, Padre, perché hai parlato a loro, e loro hanno capito. I piccoli sono le colonne segrete della storia. Dio sta al fianco dei piccoli, porta quel pane d’amore di cui ha bisogno ogni cuore stanco. 

    Ci troviamo con una delle più belle pagine del vangelo di Matteo:

    • un ringraziamento al Padre (25-26),
    • un soliloquio sul rapporto tra Padre e Figlio (27),
    • un invito a mettersi alla scuola di Gesù maestro (28-30).

    Gesù, rifiutato percepisce, malgrado tutto, la presenza del Padre che non cessa di rivelarsi e di continuare la sua opera di salvezza. Il risultato della predicazione del vangelo è folle! Aderiscono ad esso i poveri, gli ultimi, le vittime e gli scarti della società, quelli che non contano, mentre rigettano questo dono i saggi, gli intellettuali, i nobili, le élites di questo mondo, che non hanno compreso l’importanza di Cristo, della sua parola, dei suoi miracoli.

    Inoltre su questi piccoli era stato caricato un giogo, costruito dagli esseri umani, pieno di comandi e precetti, osservanze, intransigenze religiose, rigidità morali, insegnamenti non traducibili in vita. Gesù propone il suo giogo fatto di accoglienza, di amore, di misericordia: un giogo che certo non è senza fatiche, ma altro è faticare in quanto obbligati da precetti, altro è faticare per amore e ricevendo amore. 

    Mentre rimaniamo incantati di Gesù che si stupisce di Dio, di questa meraviglia che lo invade e lo rende felice, sentiamo che Gesù ci invita a fare un passo in avanti. “Venite a me, voi tutti stanchi ed oppressi, ed io vi darò ristoro”. Gesù è venuto per mostrare, per raccontare la rivoluzione della tenerezza di Dio. Gesù è il ristoro. Non un nuovo sistema di pensiero, non una morale migliore, ma il conforto di vivere. Ci invita ad imparare dal suo modo di amare. Gesù non viene con obblighi e divieti, ma col dono del regno, che è innanzitutto pace e gioia nello Spirito. Il maestro è il cuore. La legge di Gesù è l’amore: prendete su di voi l’amore, prendetevi cura, con tenerezza e serietà di voi stessi, degli altri, del creato, diffondete la tenerezza di Dio. L’amore non vieta mai ciò che all’uomo dà gioia e vita. E’ l’ossigeno. Dove la vita si è fermata, la attende, la impregna di sé e le ridona respiro.

    Questo “giogo” va accolto con gioia, confidando nell’amore di Dio che è sempre preveniente e mai va meritato. Il giogo di Gesù è imparare da Lui, diventare suoi discepoli, seguire lui “mite e umile di cuore”.

    C’è un cambio di prospettiva che ci viene richiesto: prima era il Padre a rivelare ai piccoli i misteri nascosti, ora è il Figlio che rivela il Padre a chi vuole. Il Padre si può conoscere solo attraverso il Figlio. Il Padre si rivela agli umili che seguono Gesù.

    Illuminati da queste esperienze, i nostri incontri devono diventare racconti di speranza e di libertà.

  • LA NOSTRA SPERANZA TRA LA PROMESSA DI DIO E L’INCOMPIUTEZZA DELLA VITA (21)

    Nella storia di Israele, il passato di liberazione di Dio e il futuro di un’appartenenza speciale di popolo di Dio si fondono nell’obbedienza concreta del popolo ai Comandamenti. La salvezza non è mai ancora definitivamente realizzata, ma solo attesa.

    Così la nostra speranza nella certezza della salvezza, è messa alla prova mentre si vive la concretezza delle tribolazioni, l’incompiutezza della nostra vita con la mancanza di libertà, le sopraffazioni, le malattie, la morte. Qualcuno si rifugia nella possibilità di un futuro storico sociale migliore. Ma l’ambiguità della storia mette in crisi questa speranza.

    La speranza cristiana invece va oltre la morte, è una speranza di vita, del compimento di questa vita, non di un’altra vita verso la quale fuggire. Questa speranza oltre la morte non deve dunque produrre disprezzo nei confronti dei beni presenti, ma ci chiede apprezzamento, gratitudine e soprattutto dedizione alla promozione dei beni presenti, pur nella lucida e sobria consapevolezza del limite e della morte.

    La costanza e la pazienza nella prova purificano la nostra stessa fede. La speranza in Dio ci consente di accettare questo rischio (e spesso più del rischio): perdere noi stessi, nel dono continuo dell’amore, certi che, pur apparendo la nostra vita una perdita, noi non solo continuiamo a camminare, ma giungeremo alla patria sconosciuta della nostra esistenza. Questa è l’ambiguità della storia che siamo chiamati a vivere e che continuamente ci chiede di purificare la nostra speranza. 

  • “Viviamo l’estate come un tempo di Chiesa, un tempo di cura reciproca, di racconto e di ascolto”: lettera del Vescovo

    18 giugno 2020

    Ai fedeli della Diocesi di Treviso

    Care sorelle e cari fratelli in Cristo,

    non avete certo bisogno che vi scriva per dirvi che viviamo in un tempo difficile e strano. Riceviamo e ricevete tanti messaggi, tante riflessioni. Alcuni ci fanno molto bene, altri meno, altri ancora niente affatto.

    Non è ancora il tempo di bilanci. Non so e non voglio ancora dare indicazioni, linee guida, programmazioni.

    Vi chiedo di fidarvi di Gesù Cristo. Che è stato crocifisso. Che è risorto. Che vive, ci ama e non ci abbandona.

    Questa nostra vita è mistero. Forse ci eravamo sinceramente illusi di averla in mano, di poter superare prima o poi tutti i limiti della nostra condizione umana. Se solo avessimo avuto tempo a sufficienza avremmo trovato una soluzione per tutto. Possibilmente da soli.

    Poi è venuto il silenzio di queste lunghe settimane.

    Il silenzio in un mondo sempre in movimento, indaffarato, di corsa. Un silenzio che abbiamo dovuto abitare in qualche modo, lasciando da parte, all’improvviso tutti i nostri soliti ritmi, cercando questa volta dentro di noi la forza per vivere un tempo così strano da non sembrare quasi reale. Per qualcuno era il silenzio di chi è stato ricoverato, senza contatto con i propri cari, e senza che loro ne potessero più sentire la voce, vedere il volto, sfiorare la mano. E nemmeno salutare, alla fine.

    Per quelli tra voi che lavorano negli ospedali e nelle case di riposo è stato un carico di lavoro quasi sovrumano, e il bisogno di trovare dentro di voi la forza, i gesti e le parole che rompessero quel silenzio, che aprissero ad una lieve voce di speranza, vivendo la distanza dalla casa, dagli affetti, mossi dalla responsabilità di un lavoro svolto con dedizione estrema, convivendo con il timore di essere fonte di contagio.

    Per chi ha continuato a lavorare nei servizi essenziali è stato il silenzio del percorso verso il lavoro o di ritorno a casa, nelle strade innaturalmente vuote e accompagnati sempre da un pensiero: «porterò a casa il virus?»

    Per i sacerdoti è stato quasi assordante il silenzio nelle chiese in cui non hanno potuto accogliere la comunità, negli oratori vuoti. Neppure hanno potuto assistere i morenti e i soli e accompagnare i cari defunti, se non con riti essenziali e austeri, sempre comunque dignitosi e partecipi.

    Alcuni tra voi avevano il peso di decisioni da prendere, o da far rispettare. Per altri c’era il peso di non poter aiutare, di sentirsi inutili e soli. Altri hanno continuato a raccontare quello che succedeva, immagini e parole contro il silenzio dell’estrema insicurezza. La scuola ha continuato a distanza, almeno per chi era collegato in rete (ma troppi mancano, ancora, a questo appello). La solidarietà ha tentato di superare ostacoli vecchi e paure ed incomprensioni nuove.

    Ora siamo ripartiti, alcuni più lenti, altri più veloci. Non c’è più quel silenzio, siamo ritornati a vederci e a parlarci. Ma abbiamo veramente vinto il silenzio?

    Le celebrazioni delle Messe sono tornate in presenza del popolo, come devono essere. Ci sono limitazioni che ci pesano, anche se vi ringrazio di cuore per la grande responsabilità che state dimostrando, con grande spirito civico e cristiano. Riusciamo però a sentire una Parola che vinca il silenzio che abbiamo vissuto? C’è una Parola che risuona ora con più forza nel nostro cuore e nella nostra mente, che ci sostiene, o ci stimola a un cambiamento, o ci sorprende, o ci consola?

    Gesù che è stato crocifisso, che è risorto, che vive, ci ama e non ci abbandona, sta davvero accanto a noi, tu lo senti accanto a te, noi ci fidiamo insieme di lui? Lui ha vinto la morte. Ci credo davvero? E questa fede cambia la mia vita, la nostra vita?

    Ho il profondo desiderio che questo grande ed opprimente silenzio venga vinto nella comunità cristiana almeno – ma che bello sarebbe se accadesse in tutta la società – da un nuovo dialogo e non da vecchio rumore.

    Dalla preghiera da soli o in famiglia, dalle Messe a distanza, dalle letture che abbiamo riscoperto, dai faticosi scambi a distanza, dai nostri pensieri in questo tempo dilatato portiamo con noi qualcosa che non vorremmo dimenticare?

    L’unico modo per non dimenticare è raccontare. Parlarci e raccontare.

    Perché se io racconto e c’è qualcuno che mi ascolta, lui o lei mi sta accogliendo, dimostra che sono importante per lei, per lui e io contraccambio, donando ciò che mi è diventato importante, che mi è servito per vivere. Perché è così che ha fatto Gesù. Per salvarci ci ha raccontato come è il Padre nostro che è nei cieli. Gesù ha portato il cielo sulla terra raccontando le parabole, parlando dei gigli nei campi, dell’amministratore disonesto, del buon samaritano, del figliol prodigo e così via. Ma il grande racconto dell’amore del Padre sono i suoi gesti: Lui che guarisce, Lui che ridona la vista, Lui che allieta una festa di nozze con un vino nuovo, Lui che lava i piedi degli apostoli, Lui che muore sulla croce.

    Anche noi possiamo raccontare così l’amore di Dio. Ed è quello che vi chiedo di fare quest’estate. Viviamo con serietà e impegno il mestiere e la professione, siamo attenti e generosi verso chi è più in difficoltà tra noi.

    Viviamo l’estate come un tempo di Chiesa. Nel lavoro e nel riposo. Prendendoci cura gli uni degli altri, e tutti insieme dei più deboli, dei più fragili, perché nessuno debba rimanere indietro.

    Abbiamo spazi e possibilità per prenderci cura dei ragazzi e dei giovani, degli anziani, delle famiglie. Dobbiamo farlo in modo intelligente, paziente, responsabile e coraggioso. Le comunità siano creative e si aiutino tra di loro.

    Ora viviamo il tempo d’estate nelle attività possibili, ma anche prendendoci spazi e tempi per il racconto e l’ascolto.

    Per le indicazioni su come vivere il periodo di attività che seguirà l’estate ho chiesto lo stesso sforzo di racconto e di ascolto ai consigli e agli organismi della Diocesi. Il Consiglio presbiterale raccoglierà il punto di vista dei sacerdoti, il Consiglio pastorale diocesano quello delle comunità, delle parrocchie e delle collaborazioni pastorali. La Commissione per l’accompagnamento del cammino sinodale sta riflettendo su cosa possiamo prendere con noi di buono del lungo cammino sinodale che la Diocesi ha percorso negli ultimi anni per continuare davvero tutti insieme, come discepoli di Cristo in questo nostro tempo. Sarà importante il contributo dei laici associati e dei fedeli tutti. Ci farà bene sentire l’esperienza delle consacrate, dei consacrati e dei diaconi permanenti. Sarà un guadagno se riusciremo a dare ascolto all’esperienza che stanno facendo i missionari e le missionarie della nostra Diocesi che vivono la pandemia in contesti ben più critici del nostro e che potranno anche condividere lo sguardo e la voce di altre chiese, di altre povertà. Gli Uffici di curia aiuteranno a raccogliere i frutti di questo ascolto.

    Se avremo la pazienza di questi passi, senza tornare a correre come se nulla fosse stato, potremo davvero prenderci cura insieme di una società che più che di ri-partire ha bisogno di ri-generarsi, di mettere al mondo vita nuova. Di diventare sempre più umana.

    Non possiamo ripartire da vecchi schemi bensì da nuove solidarietà, non da visioni dell’interesse personale che hanno fatto il loro tempo, ma dalla comune responsabilità verso questo mondo meraviglioso e fragile.

    Ma tutto questo sarà possibile soltanto, e lo chiedo ancora a tutti noi, se ci fidiamo di Gesù Cristo. Che è stato crocifisso. Che è risorto. Che vive, ci ama e non ci abbandona. E che è fondamento sicuro di una speranza che non delude.

    Uniti nella preghiera e nell’amore di Cristo

    Treviso, 18 giugno 2020

    ✠ Michele, Vescovo

    Tratto da https://www.diocesitv.it/viviamo-lestate-come-un-tempo-di-chiesa-un-tempo-di-cura-reciproca-di-racconto-e-di-ascolto-lettera-del-vescovo/

  • IL DESIDERIO DELL’UOMO ILLUMINATO DALLE PROMESSE DI DIO (20)

    La nostra speranza è attesa buona verso il futuro, in quanto deriva dall’opera di salvezza di Dio realizzata in Cristo Gesù. Non è frutto delle opere, ma della grazia di Dio. Questa è l’esperienza che ognuno di noi è chiamato a vivere. 

    Dio, partendo, dai nostri desideri, ci annuncia le sue promesse. Sollecitati da queste promesse noi ci mettiamo in cammino, ci distacchiamo dal presente, ci lasciamo attrarre dall’attesa, vivendo nella speranza. L’uomo è tentato ad assicurarsi autonomamente il proprio futuro. La storia però gli insegna che questo futuro si realizza perché fondato sulla Parola di Dio e le sue promesse.

    Questa verifica ci è proposta spesso dalla Parola di Dio, quando ci racconta dei momenti cruciali della storia del popolo d’Israele, dove Dio interviene nelle sue vicende.

    • La troviamo, come modello di tutte le esperienze, nella storia di Abramo: Dio promette una terra e una discendenza, con il comando di mettersi in cammino. Le attese umane di Abramo sono illuminate dal futuro promesso da Dio: Abramo ha fiducia in queste promesse e parte.
    • Lo troviamo nel popolo d’Israele con Mosè: il grido di dolore di un popolo in schiavitù si trasforma in preghiera inconsapevole: è il sogno di liberazione dagli Egiziani e di un paese bello e spazioso, dove scorre latte e miele.
    • Il nome stesso di Dio, Jahvè, è invito a guardare ad un futuro agire di Dio, come compimento della promessa presente.

    La salvezza però non è mai ancora definitivamente realizzata, ma continua a rimanere attesa. Come vivere l’attesa del manifestarsi di questo compimento delle promesse? Ne parleremo giovedì prossimo.

  • DIO PADRE TIENE IL CONTO ANCHE DEI NOSTRI CAPELLI (Mt 10,26-33)

    Gesù invia i suoi discepoli “tra le pecore perdute della casa d’Israele”. Matteo riassume nel discorso apostolico sia il messaggio da annunciare, che l’azione da compiere e lo stile del comportamento. Il discepolo è chiamato a continuare la missione di Gesù, vivendo in intima relazione con Gesù, l’unico insostituibile Maestro della comunità. Il discepolo, colui che è stato chiamato a seguire Gesù, è totalmente coinvolto in un destino come quello di Gesù.

    I segni dell’annunciatore del Regno: curare gli ammalati, scacciare i demoni, risuscitare i morti, rivelare a tutti la misericordia e il perdono. Tutto questo superando indicibili difficoltà: chi rifiuta,     chi lo considera indemoniato, e con la prospettiva della morte. Viene così tracciato il programma di azione per ogni apostolo di ogni tempo.

    Dopo aver annunciato la missione, come segno di misericordia, Gesù invita a programmare così la missione: conoscere i destinatari del messaggio, il contenuto del messaggio e il modo di comportarsi nel mondo:

    • Gesù contempla un popolo sbandato e privo di guide sicure e pastori.
    • Mette in evidenza che il primo compito dell’apostolo è l’annuncio.
    • Dà le regole fondamentali di vita dell’inviato, dell’apostolo.
    • Presenta i rischi della missione: non sarà una marcia trionfale nel mondo. Ci saranno persecuzioni, contrasti materiali, bisogno di fuggire per salvarsi. Ci accorgiamo che anche oggi la vita cristiana richiede una coraggiosa scelta quotidiana di testimonianza.

    Il rapporto discepoli – Gesù. È necessario mantenere la relazione con il Maestro sino a lasciarsi coinvolgere totalmente nel suo destino di morte e di vita. I discepoli verranno perseguitati fino ad essere uccisi da chi crede in questo modo di dare gloria a Dio. Gesù assicura che nessuno riuscirà mai, neppure uccidendo i suoi inviati, a far tacere il messaggio del Vangelo. Non devono mai fermarsi nel portare l’annuncio. Se sono chiamati a fuggire, fuggano, ma per portare l’annuncio ad altri. Nel compiere la propria missione, non devono lasciarsi cogliere dalla paura. Per ben tre volte è ripetuto questo invito.

    Vengono indicate alcune forme in cui il coraggio deve concretamente manifestarsi: il coraggio nella persecuzione, il coraggio di parlar chiaro, il coraggio di non aver vergogna di Cristo di fronte agli uomini. E alle forme di coraggio si aggiungono i motivi che devono sostenerlo: la certezza di essere nelle mani del Padre e anche la certezza che gli uomini nulla possono fare per toglierci la vera vita. Nessuno può togliere loro la vita, cioè spezzare la loro relazione con Dio. È un coraggio – come si vede – che nasce dalla fede e dalla libertà: la condizione è di amare Cristo al di sopra di ogni altra cosa.

    Non abbiate paura: voi valete più di molti passeri. Di fronte a queste parole proviamo paura e commozione insieme: la paura di non capire un Dio che si perde dietro le più piccole creature: i passeri e i capelli del capo; la commozione di immagini che mi parlano dell’impensato di Dio, che fa per noi ciò che nessuno ha fatto, ciò che nessuno farà: ci conta i capelli in capo e ci prepara un nido nelle sue mani. Per dire che noi valiamo per Lui, che ha cura di noi, di ogni fibra del nostro corpo, di ogni cellula del cuore: innamorato di ogni nostro dettaglio. 

    Nemmeno un passero cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Neppure un passero, cadendo a terra, è abbandonato da Dio: non cade a terra perché Dio l’ha voluto (fatalismo tipicamente pagano), ma anche quando cade a terra non è abbandonato dal Padre! Allo stesso modo, anche i capelli della nostra testa, che perdiamo ogni giorno senza accorgercene, sono tutti contati, tutti sotto lo sguardo di Dio. Da una tale contemplazione nasce la fiducia che scaccia il timore: Dio vede come ci vede un padre, che ci guarda sempre con amore e non ci abbandona mai, neanche quando cadiamo.

    Molte cose, troppe accadono nel mondo contro il volere di Dio. Ogni odio, ogni guerra, ogni violenza accade contro la volontà del Padre, e tuttavia nulla avviene senza che Dio ne sia coinvolto, nessuno muore senza che Lui non ne patisca l’agonia, nessuno è rifiutato senza che non lo sia anche lui, nessuno è crocifisso senza che Cristo non sia ancora crocifisso. Dio si colloca tra disperazione e fiducia. Dio sta nel riflesso più profondo delle lacrime, per moltiplicare il coraggio. Non uccide gli uccisori dei corpi, dice che qualcosa vale più del corpo. Non placa le tempeste, dona energia per remare dentro qualsiasi tempesta. E noi proseguiamo nella vita per il miracolo di una speranza che non si arrende, di cuori che non disarmano.

    Quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo sulle terrazze, sul posto di lavoro, nella scuola, negli incontri di ogni giorno annunciate che Dio si prende cura di ognuno dei suoi figli, che nulla vi è autenticamente umano che non trovi eco nel cuore di Dio. Per essere rinnegatori di Gesù, è sufficiente credere al “così fa tutti”, al “così dicono tutti”, all’ignavia pigra di chi non vuole essere disturbato. La paura è la più grande minaccia alla fede cristiana: essa induce al dubbio e il dubbio al rinnegamento del Signore e del vangelo. Se invece nel cristiano c’è un’umile fiducia, c’è una forza invincibile!

    Voi valete! Per Dio, io valgo. E se una vita vale poco, niente comunque vale quanto una vita. L’immagine dei passeri e dei capelli contati, di queste creature fragili, ci porta ai più fragili tra i fratelli, agli anziani, agli ammalati, agli handicappati, a quanti non possono più lavorare e produrre, e si sentono inutili e impotenti. Proprio a loro Gesù dice: “Non temere: voi valete di più”. Anche se la vostra vita fosse leggera come quella di un passero o fragile come un capello, voi valete di più, perché esistete, siete amati da Dio che si intreccia con la vostra vita.

    Signore, abbiamo combinato poco nella nostra esistenza e adesso non riusciamo più a combinare niente. E lui risponde: “Voi valete di più, non perché producete, lavorate, avete successo, ma perché esistete, gratuitamente come i passeri, debolmente come i capelli, nelle mani di Dio. Dove voi finite, comincia Dio”.

    Bisogna allora preoccuparsi che non venga spezzato questo legame con il Padre, quella relazione vitale ed eterna che si ha con lui e che lui vuole mantenere per l’eternità. C’è Gesù che ci aspetta: bisogna mantenere la relazione con lui. Lui farà da avvocato, nostro difensore che presenterà tutto quello che abbiamo fatto. Il Padre e il Figlio vogliono la nostra salvezza. Questa è la nostra certezza nella fede, che vince tutte le paure.