Seguire Gesù è vivere ogni attimo del tempo nell’orizzonte dell’amore con cui Dio ci ama in Gesù e vuole essere amato da noi in lui e con lui. Le dodici ore del giorno sono vissute pienamente, quando sono vissute nella speranza. La speranza è l’anticipazione delle cose future promesse e donate dal Signore, che ha avuto tempo per l’uomo. Il domani di Dio viene a prendere corpo nel presente degli uomini. L’oggi dunque si apre all’orizzonte dell’eternità e l’eternità viene a mettere la sua tenda nell’oggi. Il tempo, che non ci basta mai, che è sempre troppo poco, diviene ora tempo favorevole, l’oggi della salvezza, momento gustato nella pace. “Noi fin d’ora siamo figli di Dio … saremo simili a Dio, lo vedremo com’egli è” (1Gv 3,2)
Dio a poco a poco ha rivelato a quale futuro di felicità chiama le persone. Si è partiti, nella storia di Israele, con Abramo: la promessa di una terra e di una discendenza. Israele per molto tempo ha vissuto la speranza come ricerca e possesso di beni terreni “la terra dove scorre latte e miele” (Es 3,8.17) e tutte le forme di prosperità. Le benedizioni di Dio sono concentrate sui beni terreni, anche se i profeti invitano a cercare una speranza migliore. A volte questo futuro di speranza è cercato senza Dio e concentrato sui beni temporali. Gesù, proclamando l’avvento del Regno, invita a cercare una realtà spirituale, accessibile solo alla fede.
La fede garantisce la realtà di questo futuro. Così noi, radicati nella fede, mettiamo la nostra fiducia in Dio. A noi sarà dato il cuore di Dio e allora ameremo con il cuore stesso di Dio. Il passaggio all’eternità non sarà altro che la manifestazione tranquilla di una realtà che già esiste. La speranza cristiana non è altro che il desiderio ardente di un amore che ha fame della presenza del Signore. Dio desidera essere desiderato.
Questa passione per Dio nasce dall’aver scoperto la bellezza di Cristo, colui che fa viva la vita. C’è da rabbrividire all’idea di non aver nulla da aspettarsi, se non un’esistenza in cui ripetere quello che sempre abbiamo fatto.
Qual è l’orizzonte della nostra speranza: è nei beni di questo mondo o in questo cammino verso il futuro? Qual è il nostro desiderio più forte, che cosa cerchiamo, che cosa sogniamo?
Per i contemporanei di Gesù di Nazaret era normale considerarlo di origine puramente umana, non quindi “disceso dal cielo”. Così la prima comunità credente, chiamata a credere che il Padre non manda un Messia qualsiasi, ma il proprio Figlio. Forse anche oggi tante persone collocano Gesù tra i profeti o i liberatori falliti della storia. Nella situazione di incredulità e di rifiuto da cui è circondato, Gesù guarda al futuro e dice che, malgrado tutto, diventerà “Pane della vita”. Lo diventerà perché, pur essendo Figlio, si è fatto Figlio dell’uomo, si è fatto “carne”, un essere debole. Sarà pane per gli altri nella totale debolezza, quando si donerà per la vita del mondo.
La mia carne per la vita del mondo. Costruendo la sua omelia eucaristica, Giovanni non pensa soltanto all’eucarestia sacramento, ma all’intera esistenza di Gesù e, nel contempo, al progetto di vita del discepolo. Gesù viene dal cielo, Gesù è colui che si offre per la vita del mondo. Sono questi due aspetti che definiscono Gesù nella sua persona e nella sua missione. Il testo ci parla della vita che Gesù è chiamato a percorrere per divenire, malgrado il rifiuto degli uomini, segno vero dell’amore del Padre, il quale vuole che il mondo si salvi per mezzo del Figlio. Per realizzare e aprire agli uomini la via della vita, Gesù deve donarsi in tutta la sua debolezza fino alla morte.
Gesù ripete per otto volte: “Chi mangia la mia carne vivrà in eterno”. Gesù insiste sul perché mangiare la sua carne: per semplicemente vivere, per vivere davvero. Altro è vivere, altro è solo sopravvivere. Gesù possiede il segreto che cambia la direzione, il senso, il sapore della vita.
La vita eterna non è una specie di “trattamento di fine rapporto”, di liquidazione che accumulo con il mio lavoro e di cui potrò godere alla fine dell’esistenza. La vita eterna è già iniziata: una vita diversa, profonda, giusta, che ha in sé la vita stessa di Gesù. Si è fatto uomo per questo, perché l’uomo si faccia come Dio. La nostra persona diventa il luogo della presenza di Dio, dove l’amore trova casa. Amare crea una dimora. E vale per Dio e per l’uomo. Gesù vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, che nel cuore metta radici il suo coraggio, perché ci incamminiamo a vivere l’esistenza umana come l‘ha vissuta lui. Noi mangiamo e beviamo la vita di Cristo, quando cerchiamo di assimilare il nocciolo vivo e appassionato della sua esistenza, quando ci prendiamo cura con combattiva tenerezza degli altri, del creato e anche di noi stessi. Facciamo nostro il segreto di Cristo, e allora troviamo il segreto della vita.
Il mangiare carne umana è nell’A.T. segno di situazioni spaventevoli e della maledizione di Dio. Bere il sangue degli animali è ancor oggi severamente proibito tra gli Ebrei. Il sangue è vita, e la vita appartiene a Dio. Per questo, nei sacrifici, doveva essere sparso sull’altare del Signore, a cui appartiene la vita.
Gesù parla di “masticare” la sua carne, di bere il suo sangue: è un vero annuncio di morte e resurrezione. Il sangue infatti non può essere bevuto se prima non è sparso, e la carne non può essere mangiata, se non viene ucciso. Gesù è però cosciente di “dare la sua cane per la vita del mondo”. Attraverso il suo sacrificio e la sua morte, diventerà per gli altri sorgente di vita. Il credente è chiamato ad accogliere come “donato”, Gesù. Dio vuole che quella vita donata di Gesù sia anche totalmente dell’uomo: “chi mangia me, vivrà per me”, cioè dimora in me, è in comunione con me e con il Padre, non può morire perché ha in sé la vita eterna, perciò vivrà in eterno. Per avere fin d’ora quella vita eterna, che sarà piena nella resurrezione, è necessario entrare in comunione con Gesù. Bisogna passare dall’ascolto, allo spezzare insieme il pane per accogliere totalmente Gesù “donato fino alla morte”, ma vivo.
Prendete e mangiate! Parole che ci sorprendono: Gesù vuole stare nelle nostre mani come dono, nella nostra bocca come pane, nell’intimo nostro come sangue, respiro: vuole che tutta la sua vita, la sua vicenda umana diventi la nostra: il suo respiro, le sue mani di carpentiere, le sue lacrime, tutta la sua vita fino alla sua carne inchiodata, fino al sangue versato, diventa la nostra. Mangiare e bere Cristo, significa essere in comunione con il suo segreto di vivere: l’amore. Cristo possiede il segreto della vita che non muore. E vuole trasmetterlo.
Qui è il miracolo, lo stupore: Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore e diventiamo una cosa sola, con la stessa vocazione: non andarcene da questo mondo senza essere diventati un pezzo di pane buono per qualcuno.
Nell’accogliere quel pane, sentiamo che Gesù vuole soffiare via la pula della nostra vita perché appaia il chicco, togliere la crusca perché appaia la farina. Dio non ci domanda offerte, doni, sacrifici, ma offre, dona, perde se stesso dentro le sue creature, come lievito dentro il pane, come il pane dentro il corpo. Noi lo assorbiamo, diventiamo una cosa sola con Lui. Come si è incarnato nel grembo di Maria, così continuamente desidera incarnarsi in noi, ci fa tutti gravidi di Vangelo, incinti di luce.
Ma la vita eterna ci interessa? Domanda il salmo responsoriale: “C’è qualcuno che desidera la vita?” C’è qualcuno che vuole lunghi giorni felici, per gustarla? (Salmo 3). Noi dovremmo essere cercatori di vita, affamati di vita, non rassegnati, non disertori. Mangiando Gesù, veniamo in possesso del segreto della vita che non muore e lo trasmettiamo agli altri.
Allora, il dono di Gesù, annunciato nella sinagoga di Cafarnao, non fu accolto dai discepoli, che si tirarono indietro. Il pane che Gesù donava andava oltre quello che le folle cercavano, desiderando solo di saziare la loro fame fisica. Inoltre questa presenza di Dio e la ricchezza del suo dono erano nascoste sotto apparenze comuni e quotidiane (pane e vino). Infine la paura di fronte ad un progetto di vita che domanda di vivere come Gesù: un’esistenza per la salvezza di tutti.
Oggi è la festa non tanto della contemplazione dell’Eucarestia, ma del “prendete e mangiate”.
Che dono è quello che nessuno accoglie?
Che regalo è se ti offro qualcosa e tu non lo gradisci e lo abbandoni in un angolo?
Il pericolo, oggi, è che la nostra vita sia tutta regolata dalle urgenze, dal telefonino, da internet, dalle chiamate degli altri. Si corre il rischio di svuotarsi. Abbiamo bisogno di bivacchi nel cammino della vita, altrimenti viviamo esistenze parallele: una esteriore in cui ci mostriamo sicuri di noi, disinvolti, seri, comunicativi, ricchi di hobby; una interiore ben nascosta, piena di insicurezze, ansie, inquietudini. Abbiamo in particolare bisogno di ascoltare la Parola di Dio, che è in grado di rigenerare il nostro umore e le nostre energie consumate dalla dispersione.
Bisogna mettere ordine negli impegni delle nostre giornate, mettendo al primo posto le cose che riteniamo veramente valide.
Bisogna mettere ordine nei propri interessi, riflettendo sul pericolo dell’assuefazione, del passare da una sollecitazione all’altra, da una curiosità all’altra. A volte ci è chiesto di rompere con certe abitudini.
Bisogna mettere l’avvento del Regno di Dio in noi e attorno a noi al primo posto nella gerarchia dei valori. Allora tutto viene utilizzato da noi per raggiungere quel fine, il resto è un “sovrappiù”. Guidati dallo Spirito Santo siamo chiamati a riportare a vera unità, ogni avvenimento della nostra vita, che nel tempo pare disperso nella molteplicità.
Il tempo è sempre breve, urgente, anche perché il mondo cambia velocemente intorno a noi. Saggezza è vivere ogni giorno da pellegrini, da nomadi che ogni mattina levano la tenda e ogni sera la ripiantano, finché ci sarà data una dimora per sempre. Il pericolo è quello di vivere come gente arrivata, sistemata, che ha messo in questo mondo le sue radici come se non dovesse mai più andare via.
Il dialogo tra Gesù e Nicodemo si conclude con l’annuncio della passione: “Il Figlio dell’uomo dev’essere innalzato”, come Mosè aveva innalzato il serpente nel deserto, e l’invito alla fede: coloro che credendo guarderanno verso di Lui, avranno la vita eterna, cioè saranno salvati.
Ora l’evangelista presenta la sua riflessione alla luce della Pasqua, contemplando Gesù innalzato in croce e nella gloria. Subito siamo invitati a contemplare l’amore di Dio che si fa dono, e si concretizza nel dare e mandare il proprio Figlio, l’Unigenito. (In due righe è sintetizzata la parabola dei vignaioli omicidi, che troviamo nei vangeli sinottici).
L’amore di Dio Padre va oltre la persona del Figlio, per estendersi senza riserve, al mondo intero. Dio ama tutti, e li ama nella situazione concreta in cui si trovano, in particolare coloro che sono lontani, e corrono il pericolo di cadere sotto il giudizio della condanna. Dio affida al Figlio il compito di impedire che il mondo perisca, far sì che abbia la vita eterna, cioè salvarlo. Il Figlio, presentandosi come “luce”, illumina gli uomini, rivelando l’amore del Padre che vuole che ogni singola persona possegga la vita e divenga destinatario della salvezza.
Per raccontare la Trinità, Gesù sceglie nomi di famiglia, di affetto: Padre e Figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito è nome che dice respiro: ogni vita riprende a respirare quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata. Essendo noi fatti a immagine e somiglianza di Dio, il racconto è al tempo stesso racconto dell’uomo. Cuore di Dio e dell’uomo è la relazione ecco perché la solitudine ci pesa e ci fa paura, perché è contro la nostra natura. Ecco perché quando amiamo o troviamo amicizia stiamo così bene, perché siamo di nuovo immagine della Trinità.
All’origine del disegno di salvezza c’è Dio Padre. Grazie a Gesù, il Padre si è fatto conoscere al mondo, ed è iniziata la comunicazione tra Dio e l’uomo. La Trinità: un dogma che può sembrare lontano e non toccare la vita. Invece è rivelazione del segreto di vivere, della sapienza sulla vita, sulla morte, sull’amore, e mi dice: in principio a tutto c’è il legame. Dio non è una definizione, ma una manifestazione da accogliere. Dio è estasi, un uscire-da-sé in cerca di oggetti da amare, in cerca di un popolo, anche se dalla testa dura, del quale farsi compagno di viaggio. Dio è un infinito movimento di amore.
Nel vangelo il verbo amare si traduce con il verbo dare. Amare equivale a dare, il verbo delle mani che offrono: “Dio ha tanto amato il mondo da dare...”. Da sempre Dio non fa altro che considerare ogni uomo e donna più importanti di se stesso. Noi, creati a sua somigliante immagine, “abbiamo bisogno di molto amore per vivere bene” (Maritain).
Dio ha amato il mondo… e non soltanto gli uomini, ma il mondo intero, terra e messi, piante e animali. E se Lui lo ha amato anche noi vogliamo amarlo, custodirlo e coltivarlo, con tutta la sua ricchezza e bellezza, e lavorare perché la vita fiorisca in tutte le sue forme, e racconti Dio come frammento della sua Parola. Il mondo è il grande giardino di Dio e noi siamo i suoi piccoli “giardinieri planetari”.
Davanti alla Trinità, ci sentiamo piccoli ma abbracciati, come i bambini: abbracciati dentro un vento in cui naviga l’intero creato e che ha nome amore. Siamo in cammino verso un Padre che è la fonte della vita, verso un Figlio che ci innamora, verso uno Spirito che accende di comunione le mie solitudini: ci sentiamo piccoli, ma abbracciati dentro un vento in cui naviga l’intero creato e che ha nome comunione. Vivere la vita eterna è vivere una vita che possiede il carattere della “definitività”, una vita indistruttibile, la cui sorgente è in Dio. Chi la possiede, anche se materialmente muore, in realtà non perisce: continua a vivere la vita di Dio che è in lui.
Alla fine dei tempi avrà luogo il giudizio finale: in base alla condotta degli uomini, il giudizio ultimo deciderà se raggiungeremo la vita o la perderemo definitivamente. Il comportamento da cui dipendono queste due alternative consiste nella risposta all’inviato di Dio. Solo credendo nel Figlio, si possiede la vera e definitiva vita, e già germinalmente siamo dei salvati, e perciò non possiamo cadere in un giudizio di condanna. Il messaggio di Gesù richiede però una risposta da parte dell’uomo. Chi non si decide a favore dell’amore di Dio, si condanna da solo. Chi non accoglie la sua luce rimane nelle tenebre. Chi ha avuto una vita gravemente difforme dalla vita umana di Gesù, e anzi in contraddizione con essa, non conoscendo l’amore, costui è già giudicato e condannato: non c’è per lui vita eterna.
La festa della Trinità di Dio, più che a speculazioni, dovrebbe indurci a fare esperienza della Trinità stessa. E la chiesa è il luogo in cui, per quanto possibile a noi umani, ci è dato di fare esperienza del cuore di Dio e del rapporto di comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Dio è amore, e noi abbiamo creduto (vissuto) all’amore che Dio ha per noi.
Possiamo domandarci:
Pensando di essere davanti al Signore, ci sentiamo giudicati?
Ripensiamo ai momenti in cui ci siamo sentiti amati dal Signore.
Qual è il desiderio più grande della santissima Trinità riguardo al nostro modo di vivere?
(Sacerdote) Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Siamo idealmente riuniti insieme, un po’ come gli Apostoli nella prima Pentecoste. Ascoltiamo:
(1) Gli apostoli e i discepoli attendevano con un cuor solo alla preghiera, con le donne e Maria, la madre di Gesù. D’improvviso apparvero ad essi delle lingue di fuoco che si dividevano e si posavano su ciascuno. Tutti furono riempiti di Spirito Santo.
S. Tante persone hanno collaborato a questa celebrazione e questo è un bel segno che Dio è insieme a noi. Lo dice S. Giovanni:
(2) Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi.
S. È incominciato in questi giorni un anno di riflessione sull’enciclica “Laudato sì”, di papa Francesco. Ecco il senso delle riflessioni che vivremo stasera con l’aiuto di tutti:
(3) Contempliamo con semplicità il mondo per far cantare di speranza le sue meraviglie. Lo Spirito Santo vuole che, uniti insieme, eliminiamo quello che non va, per renderlo meraviglioso come vuole Dio.
S. È Pentecoste! Lo Spirito di Dio si diffonde sugli uomini come un vento che disperde le vecchie polveri e libera il cammino come un fuoco che nulla può spegnere, come un soffio di vita che distribuisce forza e moltiplica il coraggio.
Insieme, cantando, stando a casa, seguiamo il coro invocando il dono dello Spirito Santo:
S. Continuiamo a invocare questo dono:
(4) Vieni, Spirito Santo! Vieni a darci la dolcezza e noi potremo tendere la mano invece di giudicare e condannare.
(5) Vieni, Spirito Santo! Vieni a darci la fiducia e noi potremo essere forti in mezzo alla paura, perché Dio è il nostro amico fedele.
(6) Vieni, Spirito Santo! Vieni a darci la pace e noi potremo costruire ponti per permettere agli uomini di incontrarsi.
(7) Vieni, Spirito Santo! Vieni a darci la condivisione che dona senza calcolo a tutti coloro che sono chiusi nella povertà.
(8) Vieni, Spirito di Dio! Vieni sulla nostra terra, vieni a far danza nel cuore dei viventi il fuoco dell’amore di Dio.
S. Ora i vari gruppi presentano le loro riflessioni, intervallate dall’invocazione: Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra…
S. Spirito Santo vieni su di noi, trasforma il nostro cuore. Brucia le nostre paure, sciogli le nostre resistenze. Fa che non restiamo prigionieri della nostalgia del passato, ma sappiamo aprirci alle sorprese di Dio. Fa che sappiamo vivere nel rispetto di tutto ciò che esiste, nella sobrietà del cuore. Venga il tuo Spirito e ogni giorno sia un nuovo inizio che ci renda solidali con il gemito e la speranza di tutto il creato.
(9) Guardaci, Signore, siamo così piccoli, così indecisi, così fragili, così deboli, così pieni di dubbio!
(10) Venga il tuo Spirito, e soffi sulla nostra esitazione perché nasca in noi l’audacia di costruire la pace, anche se le grida di guerra dilagano sulla terra.
(11) Venga il tuo Spirito, e soffi nel nostro cuore e nella nostra intelligenza perché, in tutto simile a un fiore che sboccia sotto il sole della primavera, l’immaginazione si inventi come modellare la terra a immagine della tenerezza immensa di Dio nostro Padre.
S. Ora preghiamo insieme con un’antica preghiera della Chiesa.
S. Sentendoci uniti insieme, preghiamo come Gesù ci ha insegnato: Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome. Venga il Tuo Regno. Sia fatta la Tua volontà. Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. E non abbandonarci in tentazione ma liberaci dal male. Amen.
Ci accompagni con la sua benedizione Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo. Amen.
Ora il canto dell’Ave Maria, con immagini prese dalla nostra chiesa parrocchiale.
La nostra vita di amore: “con tutto il cuore, l’anima, la mente, le forze...”, ci domanda di andare oltre la giustizia, alla riconciliazione e al perdono. Questa è la testimonianza più difficile, perché, per Dio, nessuno è mai perduto per sempre e nuovi inizi non solo sono possibili, ma è l’esperienza che tutti siamo chiamati a vivere. Lo diciamo nel Padre nostro: “rimetti a noi i nostri debiti…”, cioè, di nuovo, ancora, un’altra volta. Ri = nessuno rinasce e rimane innocente, ma tutti lo diventeremo. La nostra vita va di inizio in inizio. L’innocenza non è qualcosa che si conserva, ma qualcosa che conquisteremo continuamente attraverso il perdono.
Quante volte dobbiamo perdonare? Settanta volte sette. Sette è il numero della pienezza, dieci è il numero dell’infinito. Quindi la misura del perdono è: “pienezza moltiplicata per la pienezza, moltiplicata per l’infinito”, cioè senza misura (Mt 18,25-35).
Facciamo la verifica della nostra misericordia. Noi perdoniamo, ma in un angolo della nostra memoria conserviamo un po’ di rancore, diventiamo diffidenti, non ci fidiamo più come prima. Spesso, pensando di essere a posto e aspettando la gratificazione degli altri, quando non arriva, rimane in noi un rancore, un’insoddisfazione. Tante volte sembriamo perdonare, ma conserviamo le offese come munizioni pronte per le prossima contesa.
Guardiamo per imparare, lo stile di Gesù nel manifestare il perdono:
Indifferenza totale verso il passato fallimentare e peccaminoso delle persone.
Scuse, giustificazioni, attenuanti (“non sanno quello che fanno…”).
Scommessa sul futuro della persona (“d’ora in avanti…”).
Gesù non banalizza le colpe, ma riapre il futuro. Il possibile è più importante dell’esistente. Per rivelare la speranza, sono gli aspetti positivi della persona che rivelano la verità: quello che può diventare. Nel giudizio universale Dio ci chiederà conto di quanto bene abbiamo compiuto (mi hai consolato, mi hai visitato, sei venuto a trovarmi…). Perdonare allora è far ripartire la persona, come fa Dio con noi, verso il futuro. Dio continuamente ci offre possibilità nuove. Questo dovrebbe essere lo stile del nostro perdono, allora i nostri gesti si coloreranno di divino. Viviamo in noi l’esperienza del perdono di Dio, per diventare un po’ alla volta, anche noi capaci di fare altrettanto.
Nella solennità di Pentecoste si leggono due racconti del dono dello Spirito Santo. Gli Atti degli Apostoli (2,1-11) ci raccontano la discesa dello Spirito santo sugli apostoli e Maria, la madre di Gesù, il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua. Il vangelo di Giovanni narra il dono dello Spirito ai discepoli la sera del giorno di Pasqua. Questa differenza è in realtà una sinfonia con la quale la chiesa testimonia lo stesso evento letto in modi diversi, ma non discordanti.
La Parola di Dio racconta in quattro modi diversi il venire dello Spirito Santo, per dirci che Lui, il respiro di Dio, non sopporta schemi:
Lo Spirito viene come presenza che consola, leggero e quieto come un respiro, come il battito del cuore (vangelo)
Lo Spirito viene come energia, coraggio, rombo di tuono che spalanca le porte e le parole (Atti).
Lo Spirito viene con doni diversi per ciascuno: bellezza e dignità per ogni cristiano (S. Paolo).
“Del tuo Spirito, Signore; è piena la terra” (salmi): tutta la terra, niente e nessuno esclusi. Ed è piena, non solo sfiorata dal vento di Dio, ma colmata.
I discepoli, pur credendo a Gesù, hanno paura di dire la loro fede. Le porte erano chiuse per paura dei Giudei…Quando agiamo seguendo le nostre paure, la vita si chiude. La paura è la paralisi della vita. I discepoli hanno paura anche di se stessi, di come, durante la passione, hanno rinnegato Gesù. Ora però sono di nuovo riuniti insieme. Gesù, salito al Padre, viene in mezzo ai suoi. Viene per essere presente. Viene in questa comunità dalle porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e si respira dolore, una comunità che si sta ammalando. Gesù prende contatto con le loro paure, i loro limiti. Innanzitutto rende visibile la realtà della sua presenza, diventando l’unico punto di riferimento per la comunità. D’ora in avanti i discepoli sapranno gioire, anche quando dovranno soffrire a causa della loro fede in Gesù.
Il Signore è in mezzo a noi! La più grande tentazione vissuta da Israele nel deserto fu proprio quella di chiedersi: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”. Ecco la poca fede o la non fede di cui siamo preda anche noi che ci diciamo credenti. Gesù è in mezzo a noi sempre, non ci abbandona. Se mai siamo noi che lo abbandoniamo.
L’Abbandonato ritorna e sceglie proprio coloro che lo avevano abbandonato, e li manda. Lui avvia processi di vita, non accuse, gestisce la fragilità e la fatica dei suoi con un metodo umanissimo: quello del primo passo nella direzione giusta. Come Gesù è inviato dal Padre, così ora Gesù manda i discepoli nel mondo. Sui discepoli l’impegno a “dare la vita” come Gesù, ad amare come egli ha amato sino alla fine. I segni della passione ricorderanno ai discepoli fin dove deve giungere il loro amore. In quel corpo di gloria restano le tracce del suo vissuto umano, della sua sofferenza-passione, dell’aver amato fino a dare la vita per gli altri.
Per realizzare questa missione, devono essere resi uomini nuovi, ricreati dalla forza dello Spirito santo. Gesù, che l’aveva consegnato, donato sul Calvario (“rese lo spirito”), ora lo dona come Risorto. È il suo Spirito, il suo “soffio”. Come all’inizio della creazione, Dio soffiò il suo alito di vita, e fece il primo essere vivente, così Gesù soffiò sui discepoli e li rese soggetti capaci per una missione.
Lo Spirito è il respiro di Dio. In quella stanza chiusa, senza respiro, ora si respira il respiro di Cristo, entra il respiro ampio e profondo di Dio, l’ossigeno del cielo, che rende capaci di amare e aprire e spalancare orizzonti. Gesù soffia su di loro il suo respiro, che non è più alito di uomo, ma Spirito Santo. Il Respiro del Risorto diventa il respiro del cristiano: noi respiriamo lo Spirito Santo. Questo soffio che entra dentro di noi e si unisce al nostro soffio, ha come effetto il perdono dei peccati. Lo Spirito ci stringe a Dio in modo che non siamo più orfani: è un amore quotidiano e gratuito (non lo dobbiamo meritare). Ci è chiesto di non rifiutare il dono, perché il Padre dà sempre lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono. È il dono dell’amore, della gioia, che ci fa respirare in comunione con i fratelli.
Ciò che è accaduto a Gerusalemme, avviene sempre, avviene per ciascuno: siamo perennemente immersi in Dio come nell’aria che respiriamo. C’è una stretta relazione tra lo Spirito, la comunità dei discepoli, il perdono. Per riunire tutti gli uomini, gli apostoli ricevono il potere di rimettere tutti i peccati. Potere di discernere chi davvero si allontana da un mondo di peccato per aderire a Cristo, da chi non vuole aderire o di nuovo si allontana, dopo averlo accolto. Il perdono è affidato a tutti i credenti che hanno ricevuto lo Spirito. Perdono vuol dire: piantare attorno a noi oasi di riconciliazione, piccole oasi di pace in tutti i deserti della violenza, creare strade di avvicinamenti, riaccendere il calore, riannodare fiducia. Quando le oasi si saranno moltiplicate, conquisteranno il deserto. Il perdono dei peccati che ci viene donato, domanda che anche noi lo doniamo agli altri.
La Pentecoste è la festa di questa liberazione che La Pasqua ci ha donato, che ci raggiunge nella nostra vita quotidiana con le fatiche, le cadute, il male che ci imprigiona.
Le nostre chiusure, paure…
Il nostro rapporto con lo Spirito Santo…
Pentecoste: la potenza della resurrezione di Cristo raggiunge ogni credente…
È lo stile di vita che Dio creatore ha pensato per l’umanità, perché viva di speranza. Bisogna dar voce alle vere speranze, falle cantare con lo stile della nostra vita. Anche perché lo stile del testimone è sempre quello della proposta, del rispetto della persona, dove solo l’innamorarsi dell’ideale proposto, porta al cambiamento. Dio ci vuole creatori e ostinati nell’amore.
In un mondo dominato dal denaro, dall’eccitazione continua, dal desiderio dello sfruttamento di ogni cosa, dalla volontà di dominio, da un’esistenza avida e narcisistica, noi, col nostro stile di vita, che continuamente guarda al modo di vivere di Cristo e alla sua parola (che giovano all’uomo le ricchezze …il mondo intero …) siamo chiamati a sovvertire queste logiche per annunciare il Vangelo della speranza.
Le persone oggi si battono con caparbietà per il superfluo, l’effimero: le cose, i viaggi, le vacanze, il vestito firmato, lo smartphone. E così il contingente, l’effimero diventa più importante dell’essenziale. In un mondo che propone la “cultura delle cose”, come scorciatoia della felicità, noi siamo chiamati con la vita a ricordare la contraddizione tra l’essenziale e il superfluo, a separare l’effimero dal necessario, tra ciò che è eterno e ciò che è caduco. Il mondo sta morendo, compresa la gioia, per le troppe cose, muore di sazietà. Questa vita minacciata interessa anche Dio, che ci ha fatto dono della terra, per assicurare la vita a tutti. Non esiste felicità vera se non è di tutti. Gesù è morto in croce per donare a tutti la vita. L’amore è dono. Noi non possediamo la vita, ma la riceviamo. Nel momento in cui non la doniamo, la vita muore. La vita si alimenta , se donata. La nostra vita deve essere illuminata dalla solidarietà.
In un mondo preoccupato dell’accumulo, non esiste mai il superfluo. Lo diciamo nel Padre nostro: dacci il pane necessario, quello sufficiente giorno dopo giorno. Il pane che noi mangiamo si riempie di speranza quando lo spezziamo, rendendo presente Gesù, come nel gesto di Emmaus.
Signore, liberaci dalle nostre ansie di vivere, dai desideri inutili e rendici capaci di donare il pane, la vita, la gioia, perché per questo ci hai creati: continuare la creazione, rivelando l’amore di Dio Padre, che ama immensamente il nostro mondo.
16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. 17Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. 18E Gesù, avvicinatosi, disse loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. 19Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, 20insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Il brano è stato definito la “chiave interpretativa” di tutto il Vangelo di Matteo, nel quale Gesù Risorto non appare subito a tutti i discepoli, ma solo alle donne, che dovranno dire loro dove Gesù li vuole incontrare. Nel Vangelo di Matteo viene testimoniata un’unica e sola apparizione di Gesù risorto in Galilea, su una montagna, come ultimo e definitivo saluto ai suoi discepoli. L’esperienza si realizza nell’ascolto della Parola di Gesù. Prima della passione Gesù aveva detto: “Quando sarò risuscitato, vi precederò in Galilea”. Apparendo alle donne, Gesù le aveva invitate a ricordare ai discepoli questa Parola.
Obbedienti, ci sono andati all’ultimo appuntamento sul monte in Galilea. Il monte è il luogo dove Gesù aveva subito l’ultima prova, dove si era manifestato trasfigurato ad alcuni dei suoi, come Figlio prediletto del Padre. Ora, ancora su un monte, parla di sé in quanto Figlio, unito al Padre dallo Spirito Santo, dicendo che il Padre gli ha dato ogni autorità e potere.
Sono andati tutti, anche quelli che dubitavano ancora. Sono una comunità ferita, che ha conosciuto il tradimento, l’abbandono. Sono rimasti undici uomini impauriti e confusi, e un piccolo nucleo di donne tenaci e coraggiose. Avevano seguito Gesù per tre anni sulle strade di Palestina, non avevano capito molto, non lo avevano amato molto. È da questa poca fede che ora i discepoli devono ripartire per poter seguire il Maestro, perché tutti, compreso Pietro, sono sprofondati nel mare della loro povertà e hanno abbandonato il Signore. La poca fede è dentro tutti (dentro la chiesa), ma si prostrano in adorazione.
Non sono chiamati apostoli, ma discepoli, perché devono ascoltare il grande Maestro, Gesù, in Galilea, dove erano stati chiamati. Lì devono ritornare perché la Galilea è la terra voluta da Dio come luogo dell’evangelizzazione: Galilea delle genti, dei pagani. In Galilea aveva avuto inizio la missione di Gesù, che aveva cominciato ad insegnare e a far miracoli, inaugurando la sua prima missione a Israele. Ora Gesù risorto, affida ai suoi discepoli l’inizio della nuova missione: sono inviati a fare discepoli e a battezzare tra tutti i popoli della terra.
Gesù si avvicina. Di solito erano le persone che si avvicinavano a Gesù, per rivolgergli qualche domanda o per cercare una guarigione. Qui è Gesù che si avvicina ai discepoli, come nella trasfigurazione. Gesù compie un atto di enorme fiducia; si avvicina, non è ancora stanco di tenerezza. Si avvicina, si fa loro incontro, fino all’ultimo non molla i suoi. Il primo dovere di chi ama è di essere insieme con la persona amata. In Gesù, è Dio che si rende presente, si affianca ad ogni persona afflitta dall’ignoranza, dalla malattia, dalla sofferenza, dal peccato. Gesù proprio a queste persone fragili affida l’annuncio del Vangelo: ai dubitanti affida la bella notizia, la parola di felicità, li manda a portare vita ad ogni vita che langue. Devono raggiungere tutti gli uomini nello spazio e nel tempo, gioire delle diversità delle persone e immergerle nell’oceano dell’amore di Dio.
La fede, nei vangeli, è sempre un faticoso riconoscimento che si realizza solo in una relazione di amore, carica di fiducia e di abbandono nel Signore. Il dubbio qui si riferisce non solo all’esperienza di Gesù risorto, ma soprattutto all’inizio di una vita nuova, di emarginazione dall’ebraismo ufficiale, con quel popolo cioè in cui erano cresciuti, per aprirsi ad una missione universale.
Lo sguardo di tutti i discepoli ora è su Gesù, che ha ricevuto ogni potere in cielo e in terra, è il Signore di tutti. Gesù, dopo aver compiuto la sua missione di servo umile e sofferente, ora è costituito Signore e Messia. Gesù risorto, salito al Padre, non è andato in qualche luogo remoto del cosmo, non ha lasciato soli i discepoli, ma si è fatto più vicino di prima, è con loro nella proclamazione dell’annuncio del Regno in tutto il mondo. Se prima era con i discepoli, ora è dentro di loro. Sarà con loro, senza condizioni, anche quando dubiteranno, e non riusciranno a insegnare nulla a nessuno. Sarà con loro anche dentro le loro solitudini, gli abbandoni, le cadute, la morte. Nei giorni in cui crederanno e in quelli in cui dubiteranno. Nulla mai li separerà da questa presenza.
Insegnando ad osservare: chiamati a insegnare a vivere i comandamenti, a mostrare come si vive il Vangelo, a trasmettere vita, valori, energia, strade per vivere in pienezza.
L’accenno al battesimo, ci porta alla vita della chiesa apostolica, nella sua organizzazione per effondere i doni di Dio. Ogni persona è messa in rapporto con ciascuna delle tre Persone divine. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo: Dio uno e trino. Con Gesù è tutta la Trinità presente nella storia. Ora si apre un’”altra storia”, tutta ancora da scrivere, dove c’è una presenza di Gesù, l’Emmanuele, il Dio con noi: sarò con voi sino alla fine del tempo.
Fate discepoli tutti i popoli. Immergete ogni creatura dentro l’oceano dell’amore di Dio, fatela entrare nella vita di Dio, rendendola consapevole che in questo oceano siamo, ci muoviamo, respiriamo. La missione tende a conquistare gli uomini e a metterli, individualmente e comunitariamente, in relazione con Cristo.
In questa festa dell’Ascensione, mentre contempliamo Gesù nella gloria, accogliamo l’invito dei due angeli a non fermarci a “guardare il cielo”, ma a vivere la missione che Gesù continuamente affida a ciascuno di noi. Questo ci pone alcuni importanti interrogativi:
Sappiamo vivere l’Ascolto della Parola, in modo che ci porti all’incontro con Cristo? I nostri momenti di preghiera ci fanno vivere questa esperienza?
Il nostro cammino nella fede. L’annuncio del Vangelo, vissuto dentro la fragilità della nostra vita.
Chi sono le persone (tutto il mondo) a cui oggi siamo chiamati a portare l’annuncio del Vangelo?
Come realizzare il compito di insegnare quanto Gesù ha detto (catechesi)?
È una testimonianza molto importante soprattutto in questi mesi. Per realizzarla, come ci invita l’apostolo Pietro (1Pt 3,15), dobbiamo rievangelizzare continuamente noi stessi, in modo da illuminare e aver presente il senso vero della vita, partendo dalle parole e gesti di Gesù, che vogliono sedurci, illuminando le nostre giornate e riempiendole di quelle attività per cui valga la pena di vivere e di morire.
“Convertitevi, perché il regno di Dio è vicino”. Il punto di partenza è sempre la scoperta del Regno e l’impegno a mettersi a servizio della sua realizzazione. Il Regno di Dio lo dobbiamo scoprire nel profondo di noi stessi, dove sono presenti le passioni e le ansie della vita, ma anche una presenza misteriosa di Dio, che ha la forza di orientare in modo armonioso la vita e di darle un significato.
Essendo creati ad immagine e somiglianza di Dio, siamo chiamati a continuare la creazione: la vittoria di Dio sul “caos”. Col dono dello Spirito santo siamo abilitati a realizzare questo. Dio vince il caos e la sua massima vittoria siamo noi. Ognuno infatti è intessuto di caos e bellezza e, pur dentro le ansie della vita, scopre in se stesso un amore incredibile di Dio, a tal punto innamorato di noi, che continuamente fa emergere questa vittoria sia nel presente e soprattutto nel futuro. Proprio, partendo da questa esperienza, ognuno di noi è chiamato con coraggio a partecipare al movimento della creazione e a dare il suo contributo. Non solo credendo a questo futuro per tutta l’umanità, ma con coraggio immergendosi nella vita dei poveri, emarginati, sbandati, perduti, per portare solidarietà e vittoria sul deserto sanguinante della storia.
Ognuno di noi è chiamato ad esprimere nella preghiera di lode la sua riconoscenza a Dio per questa sua azione prodigiosa e a cercare, con la testimonianza della sua vita, di annunciare nell’oggi della storia, il fascino di questo Regno.